giovedì 19 dicembre 2013

IL FOLLETTO DELLA ROCCA DI MARANFUSA



"Per ogni uomo giusto, ogni giorno è Natale." 

Dedicata ai bambini, nella consapevolezza che le favole le leggono i grandi. La favola è il regalo che un bambino non dimentica mai e lo accompagna tutta la vita, sia col suo narrato che con la sua morale.





Il folletto della Rocca di Maranfusa

(Tratto da: Il Favoliere – Cucù e le sue storie
di Mario Scamardo e Sara Riolo – edizioni ila palma) 

PONTE DI CALATRASI E ROCCA DI MARANFUSA

            Seguendo il corso del fiume Belice dalla sorgente alla foce, a metà strada circa, Ugo de Moncada, viceré di Sicilia durante il regno di Carlo V di Spagna, volle fermarsi per ammirare la bellezza del ponte di Calatrasi, costruito a schiena d’asino dagli arabi, che consentiva il passaggio dall’una all’altra sponda di carrozze e cavalli e l’opportunità di raggiungere la Rocca di Maranfusa, dove superbamente svettava ancora quanto era rimasto delle torri di un enorme castello fortificato.
            Nessuno del seguito osò chiedere perché le carrozze non avessero continuato la marcia per la città di Sciacca. Conosciuto il carattere un po’ scontroso del viceré, lasciarono che lui decidesse sul da farsi, mentre il sole era già arrivato allo zenith e le ombre tendevano ad allungarsi. Fu chiaro che, così come avevano fatto disporre le cinque carrozze e i quattro carri dei bagagli e delle masserizie, era sua intenzione di far passare la notte nei pressi del castello di Maranfusa.

CASTELLO DI MARANFUSA


            Prima che si facesse buio furono approntate le tende, disposti i turni di guardia e accesi tanti fuochi da far sembrare le vestigia dell’antica fortezza animati da chissà quante presenze, per il movimento delle mille ombre. Sui ceppi accesi furono improvvisati decine di spiedi e furono sturati barilotti di vino al miele. Il viceré li riceveva ogni anno in omaggio dal vescovo di Monreale, per le gabelle dei feudi di Jato, della Chiusa, della Signora, dei Mortilli.
            Finite che furono le libagioni, alimentati i fuochi, Ugo de Moncada volle che tutti si riunissero ad ascoltare da Rosario Balsamo una storia che lo aveva incantato, la storia del folletto della rocca di Maranfusa.
            Rosario, cocchiere del viceré, era suo amico d’infanzia, uno che sapeva starsene al posto suo. Il padre e il nonno avevano fatto sempre i cocchieri personali dei rampolli della famiglia Moncada, conoscevano le loro abitudini e pure certi loro piccoli segreti.
            Postosi accanto al suo signore, guardò tutt’intorno e cominciò il racconto.
            “Era una serata buia, piovigginava e il vento sibilava facendo sollevare le bionde criniere dei quattro sauri attaccati alla carrozza di don Pietro Baamonte, zio materno di sua altezza reale, eravamo di ritorno dal castello della Sambuca e la strada non consentiva di procedere spediti, un po’ per le pozzanghere, un po’ per la mota che talvolta sfiorava i mozzi delle ruote. Sentii bussare a cassetta e tirai le redini, chiesi a sua eccellenza quali fossero i suoi desideri. Lo vidi spossato per il viaggio faticoso.
            Don Pietro si sporse dal finestrino, scrutò l’orizzonte mentre si caricava di nubi rossastre e mi disse: <<Rosario, figliolo, il tempo non promette nulla di buono, il fiume potrebbe ingrossarsi, al ponte di Calatrasi passa sull’altra sponda e portami lassù, sulla rocca di Maranfusa, là aspetteremo che si faccia giorno e con le prime luci dell’alba ripiglieremo il viaggio per Palermo.>>
            <<Eccellenza,>> risposi, << ma sulla rocca ci sono solo ruderi, e il vento soffia ancora più forte, non c’è riparo, e non c’è anima viva che possa offrirvi un caldo giaciglio.>>
            <<Rosario,>> mi rispose, <<le nubi all’orizzonte sono rossastre, è buon segno, appena sarà buio il vento si calmerà e anche se dovesse piovere stanotte, domani sarà una giornata assolata. Vedi, figliolo, la Sicilia ha questo pregio, qui piove mentre splende il sole, gli inglesi se le sognano queste cose …>>
            <<Come vuole voscenza,>> risposi. Diedi due manate sulla mia palandrana per spazzare gli schizzi di fango accumulati durante il percorso, calcai la feluca inzuppata e salii in cassetta. Al primo schiocco di frusta i quattro sauri si misero al passo e, superato il ponte arabo, iniziammo la salita verso il vecchio castello.


            Giunti che fummo a Maranfusa, accostai la carrozza sotto la murata di un torrione, scesi da cassetta, e mi premurai di aprire e di abbassare la scaletta per far scendere don Pietro (soprattutto per i suoi bisogni corporali, data la veneranda età).


            Il vento si era man mano attenuato e non piovigginava più. Raccolsi un po’ di sterpi e legna, accesi un fuoco e tirai dal bagagliaio il cesto delle vivande ed una fiasca di vino rosso.
            Don Pietro Baamonte mi invitò, come aveva fatto altre volte, a dividere con lui il pasto, davanti al fuoco consumammo buona parte delle scorte. Alzatomi per prelevare le coperte dalla carrozza, fui attratto dal movimento rapido di qualcosa, pensai fosse una lepre, ma le lepri non possiedono minuscole braccia e non calzano berretti rossi … Un essere piccolo e veloce mi passò davanti come un fulmine, stentai a seguirlo con lo sguardo e non potei fissare la sua immagine nella mia mente, ebbi quasi paura.



            <<Eccellenza,>> esclamai, <<sarà la stanchezza o il vino, ma un essere piccolo e buffo con un berretto rosso salta rapido di pietra in pietra … Io non riesco a seguire i suoi movimenti. Si muove come una saetta, sembra voglia prendersi gioco di me.>>
            Il vecchio saggio si alzò, mi venne accanto, senza stupirsi per la presenza di quell’esserino buffo e saltellante, e sussurrò: <<Rosario, non aver paura, quelle che si raccontano per leggende, talvolta si rivelano verità. A Maranfusa è sepolto un tesoro, a guardia c’è un folletto dal berretto rosso, e saltella senza soste per far si che nessuno possa seguirlo e si stanchi di cercare il suo tesoro.>>
            Pensai che don Pietro volesse burlarsi di me e gli chiesi: <<Eccellenza, come sapete voi queste cose, e poi, chi volete che seppellisca un tesoro tra queste rovine? Signore, io sono ignorante; se vi fa piacere, burlatevi pure di me.>>
            Quell’essere saltellante non mi diede pace, fino a quando gli occhi mi si stancarono nel seguirlo tra le rocce
 

            <<Rosario,>> riprese il mio padrone, <<c’è un modo per venire in possesso del tesoro, tu devi essere più rapido del folletto; con una mossa fulminea devi strappargli il berretto; allora egli si fermerà sul posto dove è nascosta la pignatta colma di monete d’oro. Sii come un fulmine, ghermisci il suo berretto rosso e gli strapperai il segreto!>>
            E si alzò per andare a riposare in carrozza, invitandomi a dividere con lui l’abitacolo per la notte.
            Seguii ancora per un po’ i guizzi del folletto, poi mi addormentai.
            L’alba arrivò presto e il sole si levò piano piano nel cielo. Riattaccai i cavalli e svegliai il mio padrone. Pronti che fummo per partire, il folletto spuntò di nuovo a saltellare davanti a me e con le piccole mani mi lanciò due monete d’oro che tintinnarono ai miei piedi. Le raccolsi, le osservai sul palmo della mano: sul dritto era coniata una mezzaluna, sul rovescio una scritta araba. Salii in cassetta e, tirate le redini, i sauri ripresero il cammino, prima in discesa verso il Belice e poi verso la capitale.
            Giunto a Palermo, rinfrancato da una buona minestra e da alcune ore di sonno, ripresi fra le dita le monete e mi tornò alla mente il folletto, non più grande di una lepre, col suo berretto rosso e la barbetta brizzolata. Ripensai alle parole del mio signore, forse non si era burlato di me, le due monete ne erano la riprova. Salii lo scalone del palazzo e vidi in fondo alla biblioteca sua eccellenza assorto davanti ad un grande tomo. Con le monete in mano chiesi permesso, mi chinai con riverenza, e il vecchio saggio mi invitò a sedere dinanzi a lui. Accostai la sedia, mi accomodai mostrandogli i due pezzi d’oro e raccontai che il folletto me li aveva lanciati prima di salire a cassetta.


            Sua eccellenza non si mostrò incuriosito, prese le due monete, guardò dritto e rovescio e me le pose in mano dicendomi: <<Sei fortunato, adoperale per fare un’opera buona, il folletto potrebbe ripagare cento volte il tuo atto di amore …>> Abbassò gli occhi sul tomo ed io, scostandomi dal tavolo e in punta di piedi, uscii dalla grande sala dei libri. “
            Terminata la narrazione, Rosario Balsamo incrociò lo sguardo col viceré e capì che poteva sedersi anche lui davanti al fuoco.
            Stupiti, tutti i presenti cominciarono a commentare tra loro la storiella del folletto, e i discorsi pian piano si fecero sempre più accesi. Tutta la rocca fu invasa da un intreccio di voci. Sembrava un racconto fantastico e qualcuno pensò che il viceré, un po’ buontempone, servendosi del fedelissimo cocchiere, si divertisse a far stupire il suo aristocratico seguito.
            <<Bravo, bravo!>> apostrofò qualcuno rivolgendosi a Rosario. <<Abbiamo sentito una bella favola … Ma a che serve?>> E una dama sdraiata su una coperta scozzese: << Sua eccellenza non poteva scegliere di meglio per allietare questa serata, ma dite un po’, Rosario: avete ancora quelle monete? Potete mostrarcele, o avete seguito il consiglio di darle a un mendicante?>>
            Rosario non rispose, toccò il taschino della sua palandrana e sentì sotto le dita le due monete, sapeva a cosa gli servivano, il suo cuore le aveva promesse alla sua nutrice per i giorni più bui della vecchiaia, e la sua tasca le custodiva come uno scrigno.
            Il viceré si alzò in piedi, fece un riverente inchino a tutte le dame e si ritirò sotto la sua tenda in compagnia dei servitori.
            Rosario attese che tutti si fossero ritirati per la notte e dopo avere alimentato i fuochi si recò a carezzare i suoi cavalli, sistemò poi accanto ad un architrave del vecchio maniero un po’ di paglia, si sdraiò e si tirò addosso una coperta di lana.
            Le stelle nel cielo tremolavano, le sagome dei cavalli si intravedevano a stento, non c’era la luna, si udiva lo scoppiettare degli ultimi ceppi e il gorgoglio lontano dell’acqua del fiume sui ciottoli. Di tanto in tanto, un ranocchio mandava il suo richiamo amoroso, a mille a mille i grilli trillavano, quasi scandissero il tempo. Le palpebre di Rosario stavano per chiudersi quando qualcosa si posò improvvisa sull’architrave: forse un uccello notturno, pensò il giovane; alzò lo sguardo e con sua meraviglia vide il folletto dalla barba brizzolata e il berretto rosso che lo fissava negli occhi.
            Il cuore gli battè forte e il sangue gli salì alle tempie. Nella mente gli balenò l’idea di strappargli il berretto, ma mosse la mano sulla tasca della palandrana per controllare le due monete riservate alla sua balia. <<Che le rivoglia indietro?>> pensò, e quando fu sul punto di chiederglielo, il folletto gli fece segno di tacere e gli disse sottovoce: <<Le monete che ti ho regalato sono tue e non devi rendermele. Un poco di buono le avrebbe giocate ai dadi o le avrebbe consumate nelle osterie, tu le hai conservate per un fine nobile ed io voglio premiare la nobiltà del tuo cuore. Alzati e seguimi …>>
            Il folletto saltò fulmineo di sasso in sasso, zigzagò per tutta la rocca come una saetta, tanto che a stento Rosario potè stargli dietro, poi si fermò su di un macigno e spettò di essere raggiunto. << Mio giovane amico, non portarti via il mio berretto rosso. Se tu lo facessi, io sarei costretto a rivelarti dove si trova la pignatta col tesoro. Tutto quell’oro potrebbe darti alla testa e il tuo cuore potrebbe diventare duro come un sasso, e addio cara nutrice, che ti ha dato tutto l’amore per tirarti su quando tua madre, mentre eri ancora in fasce, volava al cielo, patirebbe la fame ed io soffrirei non avendo più tesori da custodire. Sarebbe per tutti la fine!>>
            Gli occhietti del folletto si inumidirono, e chinò la testa, quasi ad offrire il suo berretto rosso. Il giovane divenne pensieroso, una lacrima luccicò sui suoi occhi grandi, allungò una mano e lo carezzò dicendogli: <<Cosa vuoi che io faccia?>>
            <<C’è un modo per essere tutti felici,>> rispose il folletto, <<nascondimi sotto la tua palandrana, portami accanto al torrione di ponente, lì c’è una grande pentola, io te la darò e tu verserai il contenuto in un sacco. Prima che spunti l’alba, scendi al fiume, dove troverai un cavallo bardato, che ci porterà in una fantastica villa di campagna dove potrai accudire alla tua nutrice e rendere serena la sua vecchiaia.>>
            Rosario si estraneò come per incanto dal mondo che lo circondava, seguì passo passo le indicazioni del folletto e si ritrovò in una fastosa villa, nel mezzo di una pineta, in compagnia della sua nutrice e tanti servitori. Nel patio, ricco d’acqua e di verde, quattro scalpitanti morelli erano attaccati ad una carrozza dorata. Fuori, nel cavo di una grande quercia, se ne stava, con la sua pignatta colma di monete d’oro che non avevano mai fine, il folletto gioioso, con la sua barbetta brizzolata, e il suo berretto rosso, che saltellava di siepe in siepe, con gli occhi ridenti.










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mercoledì 20 novembre 2013

Divagazioni sul BENE E SUL MALE - (20/11/2013)


         



Mario Scamardo


BELZEBU' IL SIGNORE DELLE MOSCHE
Divagazioni sul BENE E SUL MALE





Il bene e il male




In filosofia la dicotomia bene/male appartiene soprattutto all’etica, che la intende come opposizione fra ciò che possiede un valore morale, ovvero ciò che è desiderato e appetito dall’uomo e ciò che è moralmente cattivo o sbagliato, ovvero ciò che arreca danno, dolore sofferenza. Oltre che all’etica, la dicotomia bene/male ha operato nella metafisica e nella teologia. Provo ad affrontare in maniera semplice le principali concezioni, rispettivamente del bene e del male, che si sono confrontate nella storia del pensiero filosofico.

Occorre innanzitutto distinguere fra una prospettiva metafisica e oggettivistica di intendere il bene, come la realtà suprema e perfetta che viene desiderata in quanto tale, e una concezione soggettivistica, che relativizza il bene in riferimento al soggetto che lo desidera. Il modello della prima concezione è offerto dalla filosofia di Platone, in cui il bene costituisce il vertice del mondo delle idee: come il Sole dà vita alle cose sensibili e ne consente la visione, così l’idea del bene è fonte di verità e di conoscenza del mondo ideale. Riallacciandosi a Platone, nel III secolo d.C. Plotino fa coincidere il bene con l’Uno, ossia col principio e la causa di tutto l’essere; in rapporto a esso il male costituisce un non essere, così come un non essere è la stessa materia: Plotino paragona alla zona d’ombra lasciata dal cono di luce proiettato dal principio primo. Anche il pensiero cristiano della scolastica medievale concepirà il bene come l’essere perfetto e lo identificherà con Dio: tutto ciò che proviene da Lui è quindi bene, per quanto il grado di perfezione di ogni cosa dipenda dalla posizione che essa occupa nella gerarchia degli enti, a seconda che questi siano più o meno vicini a Dio. Tuttavia il pensiero cristiano non potrà identificare la materia con il non essere e con il male, essendo la materia stessa creata da Dio.

La teoria opposta a quella metafisica del bene afferma che il bene è tale in relazione a un soggetto che lo desidera. In altri termini esso non è desiderato perché è il bene, ma è ritenuto bene perché è oggetto del desiderio. Nella sua forma più coerente, la teoria soggettivistica fu affermata in età moderna da Hobbes, il quale scrive: “L’uomo chiama buono l’oggetto del suo appetito e del suo desiderio, cattivo l’oggetto del suo odio e della sua avversione”. Anche Spinoza si muove in questa prospettiva quando afferma che “noi non cerchiamo, vogliamo, appetiamo una cosa perché riteniamo che sia buona; ma, al contrario, noi giudichiamo buona una cosa perché la cerchiamo, la vogliamo, la appetiamo, la desideriamo”. Pur mantenendosi all’interno di una prospettiva soggettivistica, Kant fece valere l’esigenza di universalità del bene che era propria della teoria oggettivistica: egli infatti sostenne da un lato che buono non può essere detto di un oggetto o un’azione in quanto tali, ma solo della volontà buona, dall’altro concepì quest’ultima come una volontà che si determina secondo una legge morale universale.

Non sono mancate nella storia del pensiero dottrine intermedie fra quelle oggettivistica e soggettivistica del bene. Socrate identifica la virtù nella scienza del bene e del male e afferma che nessuno commette il male volontariamente, ma solo perché ignora ciò che è il bene; quest’ultimo, nella concezione di Socrate, riguarda essenzialmente l’anima. L’identificazione fra bene, virtù e felicità diventerà importante nelle teorie etiche (dette “eudemonistiche”) successive a Socrate. Dal canto suo Aristotele intende il bene come “ciò cui ogni cosa tende”, e dunque, nel caso dell’uomo, la felicità come fine ultimo cui egli aspira: nel senso più pieno essa consiste nella vita contemplativa, ma accanto a essa si dispongono anche altri beni di ordine pratico. Aristotele intende così il bene in relazione all’uomo, ma d’altronde concepisce anche una gerarchia di beni secondo il loro grado di perfezione, avvicinandosi così alla teoria oggettivistica del bene.

Il problema della natura e dell’esistenza del male è alla base anzitutto delle principali religioni, passando poi alla filosofia e dando luogo a soluzioni che oscillano fra la negazione dell’esistenza del male e la negazione dell’onnipotenza di Dio.



Secondo l’insegnamento indù, per voler fare un esempio, il male non esiste poiché fa parte del mondo illusorio dei fenomeni; per lo zoroastrismo, antica religione persiana, così pure per l’antica setta dei manichei, il male dipende dall’esistenza di una divinità malvagia, contro cui è costretta a combattere la divinità buona. Nel libro biblico di Giobbe non si dà ragione per le sue sofferenze: la Scrittura suggerisce che le misteriose vie del Signore eccedono l’umana comprensione.

Nel III e IV secolo, all’affermarsi della teologia cristiana, divenne urgente una trattazione teorica del problema del male, poiché la dottrina del cristianesimo si fondava sull’esistenza di un Dio onnipotente e buono, ma contemporaneamente riconosceva la reale esistenza del male.

Col vertere del IV secolo Sant’Agostino formulò la soluzione maggiormente accettata dai pensatori cristiani successivi. Prima aveva accolto la teologia dualistica del manicheismo, in un secondo tempo, dopo la lettura di opere neoplatoniche e attraverso l’insegnamento di sant’Ambrogio, si convertì al cristianesimo ed accettò la teologia cristiana di un Dio buono, creatore dell’universo, con la presenza del male nel mondo.

Secondo Sant’Agostino il male non può essere opera di Dio, perché quanto creato da Dio non può che essere buono; il male, è privazione, o assenza di bene, così come il buio è assenza di luce. Può accadere, tuttavia, che qualcosa, pur creato buono, si corrompa, permettendo al male di insinuarsi nel mondo, qualora ogni creatura dotata di libero arbitrio, angeli, demoni e uomini, rifiutino i beni supremi, o assoluti, optando per quelli inferiori e relativi.  Secondo Sant’Agostino, può accadere che, da analisi immediata e superficiale, sia additata a male qualcosa che potrebbe risultare bene se considerata sub specie aeternitatis; dalla prospettiva eterna di Dio, ogni cosa è bene.

Le teorie agostiniane esercitarono un profondo influsso sui teologi cattolici del Medioevo come san Tommaso D’Aquino, e sui teologi della Riforma protestante, particolarmente su Martin Lutero e Giovanni Calvino.

Gottfried Wilhelm Leibniz, filosofo tedesco del XVII secolo, asserì l’irrealtà del male, definendo il mondo creato da Dio il”migliore dei mondi possibili” . L’ottimismo metafisico di Leibniz, durante l’Illuminismo, venne criticato sia da Voltaire che da David Hume, i quali respinsero la dottrina secondo cui la quantità di dolore immenso e la sofferenza possono essere giustificati perché facenti parte di un benevolo disegno divino.

La credenza nella certezza del progresso fu indebolita dalle guerre e dalle persecuzioni del XX secolo. Il male diventò l’oggetto di analisi di teologi e filosofi. In relazione alla Shoah ci si è chiesti se la sofferenza estrema possa trovare una giustificazione teologica. Sulla scia di Nietzsche alcuni pensatori hanno teorizzato la non esistenza di Dio; altri, ripartendo dalla teoria di Giobbe si sono fermati davanti alla imperscrutabilità delle vie del Signore. Il dibattito sul bene e sul male rimane sempre aperto in quanto bene e male sono in eterna lotta.

Sia nel pensiero del primo cristianesimo che nella tradizione del tardo ebraismo, Satana, il diavolo, fu visto come l’avversario di Dio. Certamente l’influenza dello zoroastrismo che oppone le potenze del bene Ahura Mazda ad Ahriman potenze del male, non si può escludere; sia nell’ebraismo che nel cristianesimo il dualismo è relativo e temporaneo, essendo il diavolo sottomesso a Dio. La letteratura apocalittica e quella apocrifa ci fanno riscontrare decine di figure diaboliche ed angeli decaduti. Nei manoscritti del Mar Morto si riscontrano dette figure ed il diavolo viene chiamato Belial , spirito del malvagio. In molte correnti del pensiero rabbinico, il diavolo è collegato con “l’impulso malvagio”, e cristiani ed ebraici convengono sulla possessione di Satana o da demoni che gli obbediscono.

Nel Nuovo Testamento Gesù libera dal male in tutte le sue forme, anche quelle legate alla presenza del diavolo. (Luca 10:18) Gesù disse: “Io vedevo cadere Satana dal cielo come folgore”.

Una parte importante ebbe il diavolo nel Medioevo, rappresentato sempre come creatura malvagia, munito di corna, coda e zoccoli caprini, in compagnia spesso da demoni subordinati.

L’Islam, riconoscendo l’ispirazione divina sia dall’ebraismo che dal cristianesimo, trasse da queste fonti la raffigurazione del diavolo, riportato nel Corano col nome di Iblis, l’angelo che rifiuta di inchinarsi ad Adamo. Allah maledice Iblis, lasciandolo però libero di tentare gli incauti.


Proviamo a fare una riflessione su una parola, un nome, un epiteto che è sinonimo di paura, di male, Belzebù, e sul pregiudizio causa del male.

Gli ebrei davano al diavolo, alla quintessenza del male, proprio questo nome. Ebbene, stranamente, il significato letterale di Belzebù dice chiaramente che il potere del male è solo apparenza, inganno, illusione, menzogna e, in ultimo, pregiudizio. Nei fatti, Belzebù, tradotto letteralmente, è “signore delle mosche”, un epiteto che suscita il ridicolo, il patetico. Qualcosa o qualcuno che nella realtà vera del mondo come la creazione, la meraviglia, lo stupore, il miracolo, la varietà, ha il potere di comandare solo sulle mosche, dunque, un titolo e un potere riduttivo. William Golden, noto scrittore inglese e premio Nobel per la letteratura, a tal proposito, scrisse un libro di grande successo dal titolo “Il signore delle mosche”, dove è contenuta un’analisi serrata dei meccanismi psicologici inconsci  che mettono in moto il nostro falso ego e che prendono origine dalla paura dell’ignoto, dai bisogni primari di sopravvivenza e organizzazione sociale, in grado di soddisfare questi bisogni nel modo, apparentemente, più economico, ovvero, con la violenza e l’esclusione dell’altro da Sé. Come conseguenza, assurdi sacrifici ad altri “signori delle mosche” e agli archetipi delle nostre paure inconsce. In ultimo, con la persecuzione del diverso, di colui che non accetta le regole piramidali di una società che semplifica e soddisfa i propri bisogni con la violenza. Stranamente, però, in questo mondo e in questo universo si può definire paradossale chi persegue la logica del pregiudizio e della violenza verso gli altri, come per Ate, cioè per maledizione divina, ne è esso stesso vittima. Ogni azione violenta contro “l’altro Sé” è destinata a ricadere su chi questa logica persegue, in una coazione a ripetere che è danno, incapacità ad incedere. Tutto questo è semplice da spiegare, infatti, l’uomo che vive nel pregiudizio sbaglia, dimenticando di essere solo una piccola parte di una totalità più vasta di cui partecipa, ovvero l’umanità e il mondo di cui fa parte e da cui deriva, allora, vive una fase egocentrica ed è incapace di uscirne per paura. Stranamente la psicoanalisi ha scoperto che ciò che noi rimuoviamo e riteniamo inaccettabile e che generalmente neghiamo, vive nel nostro inconscio di vita propria, si costituisce come seconda personalità e, più questa viene negata e perseguitata, più diventa forte e ci si contrappone. Solo il riconoscere che “l’altro Sé” non è nient’altro che un possibile noi, porta ad un abbassamento della tensione e del conflitto interiore, tanto che, l’accettazione del diverso diventa guarigione e ricchezza per chi, in questa difficile impresa, riesce ad amare ed accettare chi si ritiene, con pregiudizio, nemico e pericoloso.

        Cristo diceva che amare gli amici è facile, difficile è amare i propri nemici! Il perseguire e perseguitare il diverso da noi porta perciò al vero male, ad una scissione della psiche che in analisi viene definita come schizofrenia. Anche qui il diavolo può darci una mano a capire di cosa siamo vittime, essendo “diavolo” un termine che in greco significa dividere in due, ovvero negazione di una parte di se che, per pregiudizio, si ritiene inaccettabile.

        La natura, il creato, nel senso più vasto del termine, per una esigenza evolutiva di tipo ontogenetico, ha posto in ognuno di noi l’esigenza di trovare un’armonia nella totalità dell’essere e la spinta a raggiungere una completezza che, in definitiva, è ricchezza e, se è consentito un neologismo, eu-evoluzione (evoluzione buona) a cui opporsi, che causa il malessere e la nevrosi. Si viene ad innescare così uno strano meccanismo, da definire gioco crudele che fa del pregiudizio e di chi lo pratica, vittima e carnefice di se stesso. In ultima analisi, il pregiudizio è antieconomico perché rifiuta la ricchezza della varietà e della diversità. Una volta praticato e lanciato, torna indietro come un boomerang per colpire chi lo scaglia. Come in un gioco di specchi che, a riflesso oppone altro riflesso identico, che ha uguale forza e uguale intensità nell’opporsi, generando il “polèmos”, il conflitto interiore e sociale. La capacità, invece, di aprirsi agli altri, a ciò che apparentemente è diverso da noi, ma che con noi partecipa di un valore più alto, che è l’umanità e la conoscenza vera nello spirito di un riconoscimento di fratellanza, è anche la capacità di arricchirsi di cose nuove. La capacità di vivere la vita come un’avventura alla scoperta di ciò che da noi è diverso, porta alla comprensione e ad una pacificazione del vero io interiore che, di luce propria vive e non necessita di modellarsi con meccanismi assurdi di difesa. “Avventura”, dal latino “ad ventura”, cioè andare incontro a ciò che deve avvenire, un viaggio nella vita e dentro noi stessi, alla scoperta della vita, dove anche il rischio, gioca un suo ruolo fondante.






 Apollo 11

 Scoprire il mondo e le sue meraviglie anche nei risvolti che all’apparenza sembrano assurdi, contraddittori, pericolosi, estranei, non graditi è, in ultimo, il senso vero della vita; se così non fosse, bisognerebbe giudicare assurdi, pericolosi e folli i versi di Dante che fa dire ad Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza”. Questo verso ha trovato collocazione a Cape Canaveral, ai piedi della base di lancio dell’Apollo 11, dove per primi alcuni uomini partirono alla conquista e alla scoperta della luna, quella vera, quella che illumina la notte, ispira i poeti e fa sognare gli amanti, un verso che vuole ricordare agli uomini che il vero propellente della scoperta e della conquista è, e resta, la conoscenza, strumento vero dell’evoluzione. E’ possibile affermare che la virtù e la verità non stanno nella parzialità e, a maggior ragione, nel pregiudizio che ne è il paladino e il difensore più strenuo. Virtù e verità, stanno nella totalità delle cose e chi nega queste verità vive nel pregiudizio, nella menzogna e nell’autoinganno, generando sofferenza. I pregiudizi, hanno la qualità propria dell’argilla, quella di mutare forma e di adeguarsi alle necessità del momento, secondo le esigenze ed i bisogni del falso ego, nell’illusoria speranza di farci pagare il prezzo più basso e ricavare il maggiore guadagno.

Proteus

        Il pregiudizio ha la stessa capacità di Proteus, il mitologico mostro capace di assumere ogni forma per sopravvivere e sopraffare, fin che un eroe, nel compimento del suo destino, non lo svela e lo uccide. Cambiare forma in modo proteiforme, vale quanto le ragioni che sostengono i pregiudizi, logiche ed accettabili in apparenza, sufficienti alla ragione perché comodi per le paure e le vigliaccherie quotidiane. Il pregiudizio soddisfa pienamente il falso ego, un ego che dimentica di essere solo una parte del tutto, una parte che, se non in armonia con “l’altro Se”, non ha valore alcuno.

        Albert Einstein disse in proposito: è più facile spaccare un atomo che un pregiudizio!




Non essendo io filosofo, ma un lettore di tutto quello che capita sottomano, vi chiedo venia se qualcosa di questa modestissima divagazione
può presentarsi non chiara.

                        

                            Grazie!