venerdì 26 maggio 2017

STORIE DI SICILIA... I NOTABILI - (Riprop.) 26.05.2017





















Nei piccoli paesi dell’entroterra siciliano, ancora oggi, si riscontrano personaggi carismatici, possessori di antiche culture, capaci di fare la differenza; un anziano maestro elementare, un artigiano, un vecchio segretario comunale,  un presidente di congregazione, un bracciante che nelle ore di riposo si dedicava alla lettura. Il carisma se lo costruivano giorno dopo giorno, attenzionando tutto e tutti, elargendo i consigli del buon padre di famiglia, mediando piccoli dissidi nelle famiglie, risolvendo modesti casi di sopravvivenza, trovando un piccolo proprietario terriero che offrisse un lavoro a chi più aveva di bisogno e, quando occorreva, spendere una parola buona perché qualche fanciulla potesse trovare un buon partito da sposare.
     La storia che mi accingo a raccontarvi è quella di un notabile, di un carismatico e, comunque, quella di una persona per bene. A più di cinquant’anni dal suo trapasso, in molti se lo ricordano e lo portano ad esempio di  saggezza e signorilità.




I notabili  


Racconto breve di Mario Scamardo



Circolo dei Civili


         Dopo il sindaco, il farmacista, il maresciallo dei carabinieri ed il parroco, la persona più importante a San Cipirello era don Nenè Cutrò, in quanto era stato per trent’ anni l’amministratore di una grande azienda agricola del territorio.
         Don Nenè, panciuto come un’orcio, un occhio quasi spento, conosceva tutti in paese e, da quando aveva smesso di occuparsi di agricoltura e di contabilità, appuntata diligentemente su grossi quaderni, uno per anno, con copertina nera e gli orli in rosso, usati come quaderni di bella copia dagli scolari delle elementari, passava le sue giornate seduto davanti al “Circolo dei civili” ad intrattenere con aneddoti raccolti nella sua lunga carriera, e narrati  come fossero romanzi brevi, con grande maestria. Al mattino, Sisino Papa ex bracciante che era stato alle dipendenze di don Nenè, si recava a casa sua, aspettava che questi si alzasse dalla tavola, dove aveva consumato una scodella di caffellatte e pane, che stringesse di un punto la larga cintura di cuoio con la quale si teneva su i pantaloni, che alzasse le sue bretelle rosse ed infilasse la giacca con al taschino un vistosissimo fazzoletto di colore azzurro, e poi lo accompagnava nel suo percorso da casa al circolo, che pur essendo breve, appena 200 metri, durava un bel po’, perché il vecchio distinto signore si fermava a parlare con quanti passavano e salutavano, con le signore che spazzavano il marciapiedi davanti casa, col postino, col barbiere all’angolo della strada, col fruttivendolo col carrettino e, talvolta, con i bambini che giocavano su un piccolo spiazzo sterrato. Non c’era persona che non salutasse don Nenè. Sisino, accompagnandolo, andandogli a comprare il giornale e portandogli un caffè dal bar di fronte, s’era guadagnato l’opportunità di sedersi davanti al “Circolo dei civili”, cosa che altrimenti gli sarebbe stata impedita. La stessa cosa accadeva il pomeriggio, intorno alle sedici, l’accompagnamento si ripeteva con la stessa ritualità. Quando don Nenè parlava, Sisino assentiva col capo, guai a dubitare di quello che diceva, Sisino si accigliava ed apostrofava: - don Nenè giusto dice, c’ero io presente!
         Un pomeriggio tra i soci del circolo l’argomento di discussione cadde sul flagello che erano i topi nelle campagne, don Nenè intervenne e raccontò che avendo oliato un catenaccio in ferro, il mattino seguente trovò la porta senza il catenaccio, i topi erano così grossi che, ghiotti di olio, si erano rosicchiati il catenaccio senza lasciare traccia. Qualcuno, considerando il racconto un’esagerazione, con riverenza disse: - ma don Nenè, come è stato possibile, i topi che rosicano il ferro?  Sisino sempre all’erta, si alzò in piedi di scatto: - E tu che metti in dubbio la parola di don Nenè? C’ero io e posso testimoniare!  Don Nenè sorrise sotto i baffi che non aveva e chiese a Sisino di andargli a prendere un caffè.
            Don Nenè, che aveva tenuto a battesimo metà dei giovani del paese, aveva un figlioccio, figlio di un vecchio campiere che lavorava al Comune, si occupava dell’ECA (Ente Comunale di Assistenza), e si occupava, a tempo perso, di tirar fuori tutti i documenti che servivano ad uscire i passaporti e, dietro un piccolo compenso, portava il passaporto fino a casa, corredato dei visti necessari all’espatrio. Cosa ci entrava don Nenè in tutto questo? Tanto, perché la gente che doveva espatriare, prima di passare dall’ufficio ECA, passava da casa sua per raccomandarsi. L’anziano ex amministratore consigliava, chiedeva delle destinazioni da raggiungere, della motonave con la quale partivano, dei punti d’appoggio all’estero e del lavoro che intendessero fare.  La gente rincuorata prometteva di andarlo a salutare prima di partire e si congedava da lui con una frase: - menu mali ca cc’è vossia don Nenè, u Signuri l’avi a fari campari cent’anni!  Si guadagnava il sorriso del vecchio e scorgeva gli occhi umidi dello stesso. Prima che uscissero domandava: - Andate alla Merica Merica a Brucculinu, oppure alla Merica Zuella (Venezuela), alla Merica Gentile (Argentina), ai Guai (Uruguai), al Brasile o all’Australia?  Avuta la risposta, assentiva un po’ col capo, poi: - fate fortuna, mi raccomando, e senza dimenticare la nostra Sicilia!
            La giovane democrazia italiana si ritrovò all’indomani della seconda guerra mondiale, afflitta da problemi non indifferenti; di fronte alla diffusa disoccupazione e alla mancanza di materie prime necessarie alla ricostruzione, essa favorì l’emigrazione, mediante accordi bilaterali con le nazioni che necessitavano di manodopera.
            A casa di donna Vincenzina Piraino , da una settimana c’era un via vai di persone, visite, ma siccome non avevano avuto lutti in famiglia, non c’erano state nascite, il mulo era in ottima salute e lo zio Ignazio, suo marito, era ancora in campagna, la gente del vicinato si chiedeva il perché. Il postino tempo prima aveva consegnato alla donna una busta raccomandata, evento da annali in quel rione. Donna Vincenzina aveva apposto il segno di croce sulla ricevuta, e aveva infilato nel seno la busta, il luogo più sicuro per non smarrirla. S’era sfilato il grembiule e con lo spolverino sulle spalle era corsa da don Nenè a farsi leggere quella lettera, solo allora scoprì che era l’atto di richiamo che sua sorella Provvidenza le aveva inviato  da Bruccolino, per lei, lo zio Ignazio e il figlio più piccolo Giuseppe, che stava imparando, da mastro Santo Firrinceli, l’arte del barbiere. Gli altri due figli, Giovanni, il più grande e Nicola, aspettavano il passaporto per emigrare il primo in Uruguai ed il secondo in Brasile.
            Donna Vincenzina seduta con un gomito appoggiato al tavolo, dava spiegazione a parenti e visitatori, ogni tanto le pigliava il magone e diceva: - Nni stamu spartennu comu i figghi i quagghia!... (Stiamo pigliando tutte le direzioni come una nidiata di quaglie che pigliano il volo!) si alzava e alimentava il fuoco sotto la pentola con un sarmento in attesa che tornasse dal lavoro il marito. Lo zio Ignazio tornò, ma senza il mulo, in mattinata un “bazzarioto” (sensale di muli) se lo era portato via mettendogli in mano diciottomila lire. Donna Vincenzina alla notizia scoppiò in un pianto dirotto, dicendo agli astanti: - Si sta sbacantannu sta casa, u primu nisciu!... (Si sta svuotando questa casa, il primo è andato via!) si, perché il mulo era considerato un componente di riguardo del nucleo familiare. La più grossa disgrazia che poteva colpire la famiglia contadina era quella di perdere il mulo, e allora lutto stretto e visite dei parenti. Donna Vincenzina fece mangiare il marito e prima che si facesse buio si recò con lui dalla “Virticchia” (Negozietto dove si vendeva di tutto la cui proprietaria, una vecchietta arzilla e minuta veniva appellata col nomignolo, a ‘nciuria, virticchia in quanto proprio minuta), per acquistare cinque valigie di cartone pressato di quelle grandi, una per componente della famiglia, e ben dieci matassine di romanella, una cordicella resistente di canapa intrecciata, per assicurarsi che le valigie non si aprissero nel viaggio.
            I primi due a partire furono Giovanni e Nicola, con un piroscafo che da Napoli faceva rotta per Caracas, da lì si potevano raggiungere via terra il Brasile e l’Uruguai.Tutto il quartiere si diede appuntamento alla fermata dell’autobus che li avrebbe portati a Palermo per poi imbarcarsi sul postale per Napoli, dopo il saluto accorato degli astanti, i ragazzi si abbracciarono al collo dei genitori e donna Vincenzina pianse come se fosse andata al loro funerale, grida strazianti che fecero piangere anche l’autista ed il facchino dell’autobus, don Pietrino Vullo e don Totò Messina. Per due giorni il camino in casa Piraino non diede segni di vita e, come nella migliore tradizione siciliana, i vicini di casa ed i parenti  gli portarono da mangiare (u cunsulu). Qualcuno si premurò a portare un piccolo fascio d’erba alla capra dei Piraino legata davanti la porta, ed ebbe cura di mungerla.
            Quando dopo un paio di mesi arrivarono quasi contemporaneamente le lettere di Giovanni e Nicola che assicuravano di essere già a lavoro e di trovarsi bene, lo stato di lutto a casa dei Piraino ebbe fine, allora si decise di festeggiare prima della loro partenza per Bruccolino. L’occasione la diede la capra, che impigliandosi nella corda morì soffocata, e siccome era nelle intenzioni di zio Ignazio macellarla, non ci fu sofferenza, anzi la festa venne anticipata di quattro giorni.
Capra lessa, fave bollite, pane freschissimo e vino a fiumi; sul marciapiedi antistante l’abitazione, don Santo Milia e mastro Pippino Curamasi con banjo e violino allietarono la serata fino a notte fonda, due giorni dopo, il triste commiato.
            Donna Vincenzina e lo zio Ignazio, in abito nuovo, si recarono a far visita a don Nenè Cutrò, per ringrazialo del suo interessamento e per salutarlo. Il vecchio amministratore li accolse nella sua casa, e quando seppe che il transatlantico che li portava in America era la Saturnia, ebbe un sussulto, i suoi occhi si illuminarono: - appena sarete a bordo chiedete del comandante della nave, è un galantuomo di Genova, si chiama Giovanni Giurini, ho avuto il piacere di conoscerlo quando ero militare di stanza in Liguria, ditegli che lo saluta Antonino Cutrò, vi tratterà come si deve e dategli i miei saluti, i suoi li ho ricevuti l’ultima volta che ha attraccato a Palermo. I Piraino si sentirono rincuorati, abbracciarono don Nenè e lo ringraziarono, loro avevano dei biglietti di terza classe, un biglietto da emigranti.
            Due giorni dopo, al molo Santa Lucia di Palermo era ormeggiata la motonave Saturnia, immensa, dipinta in nero con una larga banda bianca, una città galleggiante. Una valigia di cartone ed una borsa in tela blu cucita a mano ciascuno, nella borsa gli alimenti per il viaggio. Lo zio Ignazio portò con se a tracolla due grandi foto ovali incorniciate che aveva staccato dalle pareti di quel vano terreno dove abitava, quelle dei suoi genitori poi, scomparvero tra la folla, quella grande nave li inghiottì e non li vedemmo più. Un paio d’ore dopo, la nave si scostò dal molo e, pian pianino scomparve all’orizzonte, mentre miriadi di fazzoletti bianchi si agitavano.
            Don Nenè Cutrò, al “circolo dei civili”, assistito dal suo lacchè Sisino Papa, interruppe chi parlava degli ultimi emigrati, si ricompose sulla sedia, si schiarì la voce  ed infilando i pollici sotto le sue bretelle rosse, declamò:

Emigranti

Li cordi si struggheru a la marina,
la terra divintava cchù luntana,
me matri salutava a la banchina
e l’occhi so parianu nna funtana.

            Sicilia, terra mia, eu ti lassavu…
            l’America m’aspetta, terra d’oru;
            famigghia e amici, tuttu abbannunavu
            in cerca di furtuna e di lavoru.

Nna valiggedda fatta di cartuni,
nna coppula e un pastranu camulutu,
un pani ccu tri coschi d’un carduni,
nna giacca e un ciliccheddu di villutu.

            Travagghiu a la Merica cci nn’è,
            li sordi si guadagnano a palati,
            lu jornu eu travagghiu ‘nta minera,
            la sira, si munnanu patati…

Mi la passu bona cci dicia a me matri,
megghiu di daccussì nun si po’ stari,
sentu nna cosa sula cchiù di l’atri,
nun viu l’ura, vogghiu turnari!

            Sarà bella la Merica, ppi tutti,
            terra unni li sordi su a manati,
            ma comu mi la scordu la Sicilia
            dunni l’ossa di me matri su pusati!

Sull’ultimo verso, tirava fuori un singhiozzo, poi scuoteva la testa e, cacciando dalla tasca di dietro dei pantaloni un fazzoletto bianco ben piegato, faceva il gesto di asciugarsi gli occhi trascinando gli astanti nella commozione.
Don Nenè Cutrò aveva letto tanto nei suoi trent’anni di amministrazione del feudo “Balatelle”. Nell’atrio del grande caseggiato ubicato in cima al colle, all’ombra di due enormi platani, dopo avere dato le direttive a mezzadri, coloni e braccianti, tirava fuori una comodissima poltrona in vimini, inforcava gli occhiali e ripigliava il romanzo lasciato il giorno avanti, prima che sua moglie, la signora Laura buttasse gli spaghetti in pentola. In uno stipo a due ante, oltre ai suoi registri ci stavano tutti i libri che aveva letto e riletto. Don Nenè prediligeva la letteratura russa e quella popolare, per cui per anni interi si immergeva nei romanzi di William Galt (Giuseppe Natoli), La vecchia dell’aceto, Coriolano della Floresta, Cagliostro, I Beati Paoli, Calvello il bastardo, Fra Diego La Matina, La principessa ladra, I Vespri siciliani, Storie di Sicilia, Storie e leggende di Sicilia, tomi con trame trascinanti che davano lo spaccato della Palermo del ‘700. Nessuno lo batteva nella descrizione dei personaggi: la Dama del carretto, fra Diego La Matina, Giuseppa Bonanno, tutti i vicerè che si alternarono, Coriolano, Cagliostro, era come se li avesse conosciuti di persona, descriveva abiti, portamento, pregi e difetti, spesso quando narrava, si alzava in piedi e ne imitava la gestualità, un personaggio don Nenè, che soleva definirsi “un’enciclopedia vivente”.

      Quando, raccontando brani dei Beati Paoli, introduceva il personaggio di Matteo lo Vecchio, questurino e soprattutto traditore, si alzava, si avvicinava al ciglio del marciapiedi, sputava due volte a terra, si asciugava col solito fazzoletto e poi esclamava: - Sbirro, feccia dell’umanità, traditore peggio di Gano di Magonza! Aspettava l’assenso degli astanti e, quindi, iniziava il suo narrare.
Di ogni zar, di ogni principe, di ogni cortigiana russa, conosceva alberi genealogici ed intrighi di ogni sorta, compreso un gossip spesso arricchito dalla sua fantasia, tanto da consigliare i suoi figliocci, e ne aveva tanti, di dare ai propri figli non primogeniti, nomi della letteratura russa, Nicola, Ivan, Olga, Anastasia, evitando scrupolosamente di  fargli appioppare i nomi delle cortigiane più discusse.
   Tutto sommato don Nenè era soltanto un generoso, una persona cordialissima e spesso manierosa, fondamentalmente buono, sempre disposto a spendersi per chi chiedeva il suo aiuto, che mai aveva accettato di soffermarsi o sedere nel circolo di fronte a quello dei “Civili”, in quanto frequentato da mafiosi circondati da malavitosi d’ogni sorta. Attraversata la strada, volgeva lo sguardo verso quel circolo e ripeteva mugugnando: - Faciti cchiù puzza di vivi ca di morti! (Fate più puzza da vivi che da morti!).
     Tutti gli portavano rispetto, aveva fatto lavorare tanta gente e, quando qualcuno si trovava in difficoltà allora, senza che nessuno se ne accorgesse, faceva preparare  da sua moglie due borse piene di ogni ben di Dio e gliele faceva recapitare da Sisino dopo l’imbrunire, e questo succedeva molto spesso.
     Don Nenè non parlò mai di politica, non favorì mai alcun candidato, eppure, se avesse voluto, avrebbe potuto da solo eleggerne parecchi, come non affrontò mai una discussione riguardante la religione. Quando qualcuno gli chiedeva perché non parlasse mai di politica, il vecchio saggio rispondeva: - Politica e religione fanno soltanto litigare e, come se non bastasse, fanno odiare. Questa società non è ancora matura per capire che l’avversario politico non è un nemico, ma solo uno che la pensa diversamente e merita rispetto, così pure chi è stoltamente convinto di possedere le “Verità rivelate”, odierà un altro che, pur amando lo stesso Dio, non appartiene alla sua chiesa, sia anche suo fratello carnale!
     Sopraggiunse l’autunno, per la verità molto assolato e con scarse piogge, le sedie venivano poste dal cameriere sempre fuori dal circolo sul largo marciapiedi. Da circa una settimana don Nenè non s’era visto, la gente chiedeva dell’assenza e Sisino non passava. Un pomeriggio suonarono le campane a morto, sette tocchi, numero dispari, era morto un uomo e qualcuno cominciò a chiedersi chi fosse. Dalla chiesa uscì il parroco assieme a due chierichetti, sull’uscio baciò la sua stola viola, la pose sulle spalle, sistemò la sua cotta bianca e col breviario tra le mani si incamminò.  Giunto che fu davanti al circolo, gli astanti si alzarono tutti, si tolsero le coppole ed inchinandosi in segno di rispetto chiesero: - Padre arciprete, chi è morto? Il parroco si fermò un attimo, inarcò le arcate sopraccigliari e mestamente rispose: - Pace all’anima sua, quel sant’uomo di don Nenè, stanotte il suo cuore non ha più retto! Tutti si segnarono e si segnò il parroco ed i chierichetti, poi continuò a camminare mentre tutti si rimisero le coppole e ripresero seduti i loro discorsi.
     Per tutto il pomeriggio e la serata fu un via vai di gente che andava a rendere omaggio alla salma di don Nenè, e la chiesa non potè contenere la gente che l’aveva accompagnato per i funerali. La frase che più ricorreva era: - Con la morte di questo galantuomo, ci sarà un bel po’ di gente che andrà a letto a pancia vuota!
     Il “Circolo dei civili” per tre giorni osservò lutto strettissimo, non fu aperto, e al quarto giorno, la prima sedia che fu posta fuori sul marciapiedi fu quella in cui sedeva don Nenè, sulla spalliera fu legato un nastro nero e nessuno mai vi si accomodò. Il giorno del suo trapasso, il 6 di ottobre, fino a circa vent’anni dopo fu ricordato e, davanti ad un santino di Sant’Antonino, si faceva consumare un lumino.
Non avendo avuto né figli né nipoti, don Nenè cadde nel dimenticatoio per tutti tranne che per Sisino, che ancor oggi, vecchio e claudicante, il giorno dei defunti depone un mazzo di gerbere sulla sua tomba, i fiori che il vecchio amministratore con cura coltivava nelle aiuole del caseggiato del feudo “Balatelle”.

(Caseggiato del feudo "Balatelle")





     Spero di aver dato, con questo piccolo spaccato di vita siciliana degli anni '50, contezza di uno dei tanti personaggi carismatici, un notabile. 

                                         Grazie per l'attenzione.

Se vi va, lasciate un commento, la richiesta di riproporre in narrato viene più dai ragazzi!





3 commenti:

  1. Ciao Mario, salute sicilia per me.
    Sono Sean, l'agronomo australiano per Calatrasi. Grande per poter leggere le tue opere. Sto cercando di entrare in contatto con Lilli che ha insegnato ai nostri figli italiani. Avete i suoi dati di contatto? sean.howe@bluepyrenees. com. au

    Un cafe

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  2. Grande narratore e storico di cose siciliane e della sicilianità, continui ad allietarci ed arricchirci con le sue preziose narrazioni.

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