Mario
Scamardo
IL POZZO
Aveva appena
compiuto nove anni quando Evelin vide per la prima volta il mare. Finita la
quarta classe delle elementari, con la sua pagella tra le mani, aspettò davanti
l’uscio che suo padre rincasasse dai campi per mostrargliela. La madre,
compiaciuta, guardava dalla finestra della cucina, mentre preparava una
minestra calda. Evelin non aveva fratelli, in quel paesino di cinquecento
anime, distante una quarantina di chilometri
da Palermo, tutti si conoscevano, tutti sapevano tutto di tutti, ma
nessuno lo ammetteva, ostentando riservatezza che spesso rasentava il cinismo. Il
pregiudizio imperava sovrano e aveva trasformato il paesino, a prima vista
ridente, in una comunità di guardinghi che sbirciavano dalle gelosie delle loro
imposte, per carpire quanto più si potesse, elaborarlo con le menti bacate e
servirsene per difendersi non si capiva da che o da cosa.
Quando il papà di
Evelin arrivò davanti l’uscio, smontò da cavallo, allargò le braccia e attese
che la bambina si stringesse a lui, prese tra le mani la pagella, lesse i voti
e l’attestato di promozione alla V classe, fece un gesto di approvazione, poi la
sollevò da terra e la strinse tra le sue braccia, sotto gli occhi compiaciuti
della moglie che era sullo stipite.
- Brava! Diventerai
una maestra, forse un avvocato o un medico. Sono contento, domani assieme a tua
madre andremo a trovare mia sorella, la zia Rosina a Castellammare del Golfo.
Dopo dieci anni in Belgio col marito, finalmente è ritornata a casa sua.
Evelin sorrise
soddisfatta, ripigliò la sua pagella, la consegnò a sua madre ed attese che la
riponesse in un cassetto. La fanciulla non era mai uscita dal suo paesino, era
stata all’asilo prima, poi alle elementari, dal tabaccaio per comprare qualche
volta gli zolfanelli o un francobollo, al bar a prendere un gelato, in oratorio
per le lezioni di catechismo e dalla merciaia per comprare aghi e filo. L’unica
volta che era entrata in farmacia con la mamma, s’era guadagnata un lecca lecca
all’arancia, il farmacista aveva colto il verde dei suoi occhi, i suoi tratti delle
donne della mitologia greca, ed un sorriso dolcissimo marcato da due fossette
sulle piccole guance.
- Mamma, quanto è distante Castellammare?
- Non tanto, un’oretta di macchina, ci faremo accompagnare da
mio fratello, poi, quando dovremo tornare ci verrà a riprendere, oppure verremo
in pullman.
Davanti casa, a
una diecina di metri c’era un pozzo in mattoni refrattari, di quelli che ancora
si vedono nelle cittadine mediavali dell’Italia centrale, il papà di Evelin
tirava su un secchio d’acqua per abbeverare il cavallo prima di portarlo nella
stalla, poi ne tirava su un altro secchio e si lavava le mani ed il viso. La
bambina spesso sedeva nei paraggi e
guardava quel pozzo seriosa, senza mai fare una domanda e spesso, saliva su
nella sua cameretta e dalla finestra lo fissava.
Il mattino
seguente, dopo averla vestita elegantemente, dopo averle fatto indossare i
calzini bianchi e le sue scarpine di vernice nera con gli occhielli sulle
tomaie, la mamma di Evelin impiegò una ventina di minuti a rifarle due trecce
nere che le cadevano sulle spallucce, ed adornò le estremità con due bei
fiocchi rosa, intonati col suo bolerino.
- Guardati allo
specchio, sembri una bambola, la zia Rosina ti ha visto una sola volta quando
ti abbiamo battezzata, e un paio di volte le abbiamo spedito qualche foto,
vedrai, lei non ha figlioli, il buon Dio non glieli ha dati, sarà felice di
vederti ora che sei già una signorinella cresciuta, e suo marito che ha fatto
il maestro ai figli degli italiani in Belgio, proprio per la professione che
fa, ama i bambini.
Castellamare del Golfo
Sotto lo
sguardo vigile dei vicini di casa, la famigliola salì in macchina, Evelin
sedette accanto allo zio che era alla guida, i suoi occhi, sin dall’uscita del
paesello, non si fermarono un istante a mirare i paesaggi d’intorno, i paesi
che attraversarono e, quando superarono la piccola sella, agli occhi della
fanciulla si presentò, nella sua maestosità, il golfo di Castellammare. La
bambina per un attimo serrò le labbra, poi esclamò:
- Il mare!... Mamma, il mare!
- Si Evelin, quello è il mare, tu non lo hai mai visto prima,
io son dieci anni che non lo vedo, avevo la tua età quando l’ho visto la prima
volta.
- Zio, quanto ci vuole per arrivare?
- Ancora una mezzoretta, vedrai, appena saremo lungo la
litoranea ci fermeremo per un caffè e potrai vederlo da vicino, poi avrai tutto
il tempo per guardarlo e se vuoi per fare il bagno, tua zia Rosina abita
proprio davanti il porticciolo, da li potrai ammirare il castello che si specchia
nelle acque del porto e potrai assistere al rientro delle barche dei pescatori.
Evelin assentì col capo e attese sempre col sorriso stampato
sul suo volto. Il traffico della cittadina, d’estate sempre più caotico,
consentì alla bambina di leggere le insegne degli alberghi, dei grandi bar, dei
pub, delle banche, dei negozi. Nulla di ciò esisteva in quel piccolo centro
arroccato tra i colli dell’entroterra, non c’era neppure uno sportello
bancario, tutto la meravigliò ma non chiese nessuna spiegazione, il suo
cervello elaborava piano piano e collegò tutto ai piccoli narrati della sua
maestra, tutto le sembrò uscito da una favola.
Rosina ed il
marito erano davanti l’uscio ad aspettare, fu un susseguirsi di baci, di
carezze, di domande sulla scuola, sulle amichette, e quando finirono anche i
pianti di gioia, il marito di Rosina invitò Evelin a scartare i regali che le
avevano portato dal Belgio, vestiti, scarpette di varia foggia ed una bambola
grande quasi quanto lei e tante leccornie. Cene, passeggiate, luna park, giri
in barca su un mare azzurrissimo.
Castellammare del Golfo - Fortino
Dieci giorni
passarono in fretta, papà aveva affidato il suo cavallo alle cure di un vicino,
ma il suo orto e il suo frutteto abbisognavano dell’acqua, e quando Evelin
risalì in macchina volle sedere accanto alla mamma, con la promessa che la zia
sarebbe andata a trovarli in paese e l’avrebbe portata con lei per un’altra vacanza.
Evelin finì le
elementari e le medie, era diventata alta quanto sua madre, una signorina
bellissima, ed i suoi occhi verdi come uno smeraldo brillavano. L’istituto
magistrale era nel paese accanto, un servizio di pullmans permetteva di
raggiungerlo agevolmente. Fu all’inizio del secondo anno delle magistrali che
timidamente Giuliano, un giovanotto diciottenne l’avvicinò; cominciò un dialogo
tra i due che man mano si trasformò in un grande sentimento. Gli esami di
maturità furono il giorno in cui la madre percepì che la fanciulla, diventata
donna, si era innamorata perdutamente di Giuliano. Non le chiese nulla, aspettò
pazientemente che la figlia motu proprio gliene parlasse, ed un pomeriggio
Evelin si confidò con la madre e chiese consigli.
La maestrina vinse
il concorso magistrale e si trovò per la sua prima volta in aula davanti a
ventidue bambini di prima elementare, Evelin aveva vent’anni, Giuliano
ventisei, pazzi d’amore decisero di sposarsi. Lavoravano ambedue, lei nello
stesso paese d’origine, lui nel paese accanto, sede dell’Istituto magistrale.
Raccolsero le loro forze e con un piccolo aiuto dei genitori diedero la caparra
per l’acquisto di un appartamento, Evelin contrasse il mutuo in banca, un anno
dopo venne alla luce Chiara, una splendida bimba. La famiglia era al completo e
la felicità regnò incontrastata in quella nuova casa, visitata dai genitori di
entrambi, che godevano delle moine di Chiara che, come sua madre, diventava
sempre più bella. Il lavoro di Giuliano aveva alti e bassi, ma la maestrina
onorò sempre l’impegno con la banca.
Chiara diventò una
scolaretta di prima elementare, gracilina ma bellissima, tornando da scuola con
la madre, notò, come possono notarlo i bambini, che il dialogo tra i genitori
si era raffreddato, almeno, il comportamento del padre era diventato freddo.
Evelin sopperì in tutto alla mancanza di calore, ed una sera si trovò sola con
la sua bambina ad attendere che il padre rincasasse. Evelin amava alla pazzia
il suo uomo, lo stesso non si poteva dire del marito. Cominciò così un calvario
senza fine, ed il pozzo davanti alla casa paterna, che lei vedeva affacciandosi
dal suo terrazzino, ridiventò l’unico suo amico. La gente, i pregiudizi, le
domande sibilline dei vicini di casa, di qualche parente, l’incalzare delle
domande di Chiara, fecero di Evelin una donna distrutta che si alimentava male,
talvolta non si curava e vedeva se stessa sprofondare in quel pozzo sempre più
in basso. I nonni di Chiara di entrambi i genitori sostennero la bambina con il
loro smisurato affetto e quando Chiara incontrava suo padre nei fine settimana,
era la fanciulla più felice del mondo, sua madre le parlava del genitore in
maniera entusiastica, ma un giorno Chiara, ormai tredicenne le chiese:
- Mamma, tu sei ancora innamorata di papà?
Evelin non ebbe una sola esitazione, abbracciò la figlia e la
strinse a se.
- Lo sono sempre stata e lo sono ancora, forse più di prima,
anche se non siamo stati più assieme dal giorno che è andato via. Mi ha
lasciata carica di debiti, ma soprattutto carica di delusioni, con la
responsabilità di crescere ed educare da sola una figlia; so che sta con
un’altra donna, si è creato un mondo tutto suo ed io lo rispetto, proprio
perché lo amo non voglio turbare i suoi equilibri, proprio perché lo amo non
desidero che soffra in nome di un amore che per lui non c’è più. Sono
arrabbiata Chiara, arrabbiata, delusa, amareggiata. La mia vita?... casa e
scuola, non ho rapporti sociali, non vado nemmeno in chiesa, rifiuto le
amicizie, non mi fido di nessuno, evito il contatto con la gente e, la mia
mente ritorna costantemente sul passato. Avevo un hobby, mi piaceva disegnare,
non ricordo nemmeno dove ho riposto le mie matite, i miei fogli, l’unico svago
è il contatto giornaliero coi bambini, il mio lavoro, l’ho sempre fatto con
amore. Tu sei l’unica cosa che mi appartiene, scusami, che ci appartiene, fino
a quando tu lo vorrai, io in nome di questo amore mi sacrificherò, ma voglio
condurti ad una vita serena, voglio mandarti all’università, poi, vorrei
vederti felice.
Un nodo alla gola, un
singhiozzo trattenuto a stento, il cupo avvolse Evelin, tranne i suoi splendidi
occhi verdi. La donna entrò in condizione
psicofisica dolorosa, caratterizzata da una sensazione di soffocamento, per lei
fu l’angoscia.
Il paesino con
tutti i suoi pregiudizi si era trasformato nella sua prigione, sotto gli occhi
vigili dei vicini che aspettavano un passo falso, un’amicizia maschile,
un’uscita fuori dagli orari consueti, e quando Evelin comprò una macchina,
tutto il paese sospettò che si spostasse per incontrare chissà quale amante.
Comparvero i primi
capelli argentati sulle tempie di Evelin, man mano che Chiara cresceva, i
sacrifici per Evelin diventavano maggiori, ma fece sempre fronte ai suoi
impegni, e quel pozzo le sembrava sempre più profondo. Contava e ricontava i
suoi piccoli risparmi destinandoli alle necessità più impellenti, e persino
quando aveva un guasto alla macchina, temporeggiava nel farselo riparare, il
suo orgoglio di farcela da sola! Il marito, dal punto di vista economico non
l’aiutò mai, e per la figliola prodigò solo baci e qualche cenetta domenicale.
Quando la maestra notò i primi fili d’argento alle tempie, guardandosi allo
specchio, pianse, notò le prime rughe che si facevano spazio attorno agli
occhi, cinquant’anni!... e si interrogò:
- Cosa ne è del mio orgoglio?
Consapevole che l'orgoglio umano presume l'autonomia
dell'uomo ed esprime una ribellione all'ordine divino, non seppe darsi una
risposta, almeno per il momento. Aprì gli armadi, sbirciò tra i suoi vestiti,
guardò nella scarpiera, poi aprì una vecchia trousse, tranne la forbicina per
le unghie e la limetta, tutto era rimasto intatto da anni. Richiuse gli armadi
e mogia mogia andò in terrazzo, guardò a lungo il pozzo e disse a se stessa:
- Devo risalire! … e quando verrò fuori, voglio murare quel
pozzo, non voglio più vederlo.
Prese il telefono,
chiamò Chiara per sentire come stava, si intrattenne con lei un paio di minuti,
poi, senza cenare, si buttò sul letto e dormì profondamente fino al mattino
seguente.
A scuola, nel corridoio incontrò un signore,
ben messo, forse sessanta o sessantacinque anni, era il papà di una giovane
collega che si intratteneva aspettando la figlia. Il signore si presentò da
solo, era simpatico, col fascino della parola, era in pensione da poco, aveva
insegnato in città in un istituto tecnico. La loquacità del vecchio collega
affascinò Evelin, e ogni giorno fu un dialogo sempre più lungo ed intenso.
L’anziano insegnante aveva colto i turbamenti della donna, sapeva ascoltare e
ciò coinvolgeva la donna a liberarsi delle pastoie, a parlare, a sfogare una
rabbia trentennale; fu un lavoro duro, ma con una pazienza da certosino, ogni
giorno l’uomo smussava un angolo, poi cercava di coinvolgerla in ragionamenti
portandole esempi, raccontandole aneddoti ed ogni tanto intercalava delle
battute sperando di strapparle un sorriso o un buon pianto liberatorio, sempre
convinto di riuscire nella sua opera. L’uomo quando ritenne opportuno, diede
dei piccoli imput ad Evelin, facendola riflettere sul suo stato, sulle sue
remore, sulla sua clausura forzata, sulla sua prigionia ad ogni costo e sul
pregiudizio. Evelin era una donna fortissima con un carattere granitico, ma la
sua voglia di vivere era ridotta al lumicino. Il professore, sempre attento,
notò che da un po’, tutte le mattine migliorava l’aspetto della maestra dagli
occhi smeraldo, fino ad accennare sorrisi, fino ad abbandonarsi a delle
salutari risate, qualcosa stava cambiando. Evelin, in quel galantuomo aveva trovato
finalmente chi, ascoltandola, sapeva darle dei consigli utili, disinteressati,
ma soprattutto scaturenti da quell’amicizia sincera e leale che s’era creata.
Un giorno, come un fumatore incallito che butta convinto le sigarette, stabilì
di invertire veramente la rotta, decise di risalire il pozzo e dallo stato di
clausura in cui si era reclusa, tentò di venirne pian pianino fuori, in barba
ai pregiudizi, in barba a chi tutto scruta da dietro le persiane. Prima che
finisse l’anno scolastico, l’anziano insegnante aveva quasi completato
pazientemente la sua opera, era riuscito a far capire ad Evelin che la sua
voglia di vivere faceva bene anche e soprattutto a sua figlia. Fu allora che le
portò un po’ di depliants per alcune escursioni non lontane, era un modo per
cominciare ad evadere. Finita la scuola si tenne in contatto telefonico con la
maestrina, rimanendo informato delle gite, dei viaggi, delle cene con gli
amici. Fu sempre discreto il professore, non gli chiese mai su eventuali incontri
sentimentali che la potessero riportare in un mondo sempre più reale, ma lo
sperò con tutto il cuore. Nessuno saprà mai se l’attempato collega provò per
lei qualcosa, forse si, forse no, ma fu contento quando le chiese se usciva
ancora in terrazzo per guardare il pozzo ed ebbe la risposta:
Gli occhi verdi di
Evelin, a cinquantadue anni, brillano ancora di luce propria, il professore,
suo grande amico, trasferitosi in una città lontana un’ora d’aereo, continua a
chiamarla per conoscere l’evoluzione della sua rinascita e lei felice, assieme
a Chiara, estinto il mutuo in banca, ha deciso di trasferirsi in città, col
mare sotto casa, a due passi dall’arenile, dove può sentirne il profumo ed
ascoltare i suoi rumori, senza la morsa dei pregiudizi di un piccolo centro. Riappropriatasi
della sua vita, con tanti sogni da cavalcare e tante speranze, cominciò col
rinnovare il suo guardaroba, il pozzo è stato finalmente del tutto demolito!