sabato 19 aprile 2014

AMORI A TEMPO - [Tratto da L'ORRENDO FASCINO DELLE MUTAZIONI di Mario Scamardo] (19/04/2014)

















 
          Ogni uomo è uno specchio animato in cui, senza tregua, si riflettono i molteplici aspetti del mondo esteriore e si ridestano incessantemente nuovi mondi di sensazioni, di immagini, di pensieri, di sentimenti.
Se percorriamo le vie cittadine una miriade di cose colpiscono i nostri sensi, e giungono alla nostra coscienza: il sereno del mattino, il via vai della gente, un semaforo che lampeggia, il suono delle campane, il grido di uno strillone, e operai, e massaie al mercato, lo stridere dei freni di un’automobile; qui il fermarsi di un capannello, là un fuggi fuggi, un bimbo che piange, un campanile che svetta, il profumo di un’aiuola, il discorso di un amico incontrato per strada; e intanto ci torna alla mente il genitore sofferente, e il petto ci trema, pensiamo alle sue parole con un affetto nuovo, subito ritorniamo col pensiero a quanto abbiamo appreso dalla vita, acquisiamo sicurezza, misuriamo la nostra forza, attestiamo in un attimo la gioconda voluttà di salire fino alla vetta della nostra ascesa, e sorridiamo al lieto avvenire che la nostra fantasia ci dipinge dinanzi. Fantasia e sogno sono due valori di cui l’uomo non può fare a meno. E’ con l’animo fremente di sensazioni, di affetti, di speranze, di pensieri, di propositi, che ci mettiamo nelle condizioni di ascoltare e di interiorizzare.
Quanti potrebbero esattamente riportare ciò che hanno visto, udito, notato, pensato, immaginato, sperato, fantasticato, dopo avere attraversato la città? Ma se tra i fatti infiniti che si sono affacciati alla nostra coscienza, uno ci ha profondamente colpito, non solo non lo dimenticheremo, ma lo sentiremo vivere in noi, con una esaltazione di gioia, o con terrore ed angoscia, che esso dominerà ogni altra impressione e per lungo tempo non riusciremo a cacciarlo nonostante i nostri sforzi.
Quando nell’anima sboccia una speranza lieta, nobile, da rendere tutto attorno illuminato, si sente il bisogno di comunicarla a chi ci vuol bene. Spesso raccogliamo i nostri pensieri intorno ad un tema, la nostra mente s’illumina di un’idea, e veniamo presi da un’irrequietezza gioiosa e fremiamo per la smania di correre a casa, per scrivere quello che abbiamo nel cuore, che ci freme dentro, che vuole essere detto, che ci angustierebbe se non lo dicessimo.
Le immagini luminose, i sentimenti di impeto veemente, i fantasmi di compiuta bellezza, vanno partoriti dalla mente come creatura nuova dall’alvo materno, vanno trasferiti al braccio, alla mano, ad un foglio.
La forza che crea, come una nuova vita, una realtà fantastica, un mondo di figure, di fatti, di immagini, di sentimenti, di affetti, è l’Arte che consente a tutti di comprendere l’opera più bella.
La poesia è il linguaggio esaltato della fantasia e del sentimento; la prosa invece ha sempre, in generale, alcunchè di più pacato, di più mediato; è l’espressione naturale di chi esercita la facoltà della ragione. Essa è il linguaggio proprio della scienza e della filosofia.
        L’essere umano muta nel tempo, come l’orientamento del galletto di latta in cima al camino, ad ogni mutar della brezza. Gli incontri, le vicende alterne della vita, le passioni, i dolori e le gioie, i falsi orgogli, i facili arricchimenti, le ricerche di un’opulenza incontrollata, creano sovente condizioni per metamorfosi continue e, spesso, generano i grandi vortici, dove i percorsi diventano irreversibili e le vie sono senza ritorno. Davanti a ciò bisogna interrogarsi sulla fine che hanno fatto sia la fantasia che il sogno. I pensieri non si rincorrono più in un caotico susseguirsi di immagini sbiadite, non si inseguono e non si confondono, sovrapponendosi gli uni agli altri. L’uomo non si vede più bambino ai piedi di una erta nell’intento di risalirla, rimane immobile, ed il tempo che passa non viene più scandito. La sommità non verrà mai raggiunta e non si presenta la necessità di scappare da nessun destino che comunque lo piglierà per mano e lo condurrà all’oblio della ragione ed alla morte. L’uomo non lotterà disperatamente contro qualcosa che non conosce e, l’unica immagine che sarà in grado di fissare, gli darà l’incertezza di una lotta utile.

        Lo scrittore argentino Adolfo Bioy Casares, considerato uno dei maestri della letteratura latinoamericana, trattando in un suo capolavoro il sogno e la fantasia, così diceva: “Ho cercato di sfuggire al fantastico, ma mi ha subito riacciuffato”.

[Tratto dal romanzo “L’orrendo fascino delle mutazioni” di Mario Scamardo]

Amori a tempo

La “Domus”, l’agenzia immobiliare di Guido Mura, diretta da Rosetta, si era trasferita al centro della Palermo dei capitali, in un piano ammezzato di un meraviglioso palazzo di fine ‘800, in via Libertà. Cinquecento metri quadri, con una decina di vani adibiti ad uffici, un grande salone con pareti affrescate usato per le riunioni, mobili in stile, ed in fondo ad un corridoio, l’accesso ad una segreteria particolare e, quindi, ad un grande studio ammobiliato con gusto, con le pareti ricoperte da oli ed acqueforti, un paralume in stile rococò sulla grande scrivania, e un grande fascio di rose gialle in un vaso di cristallo; quello era il posto di lavoro di Rosetta.
Almeno trenta persone, tra dattilografi, segretarie e tecnici lavoravano nell’agenzia, ed un telefono dopo l’altro squillavano, dando l’idea della mole di lavoro che vi si sviluppava.
Fu una sera ad un ricevimento in una delle ville liberty di Mondello che Rosetta conobbe una nobildonna veneta, quarantenne, con due occhioni color del cielo, capelli tirati sempre su da luccicanti pettinini tempestati di strass ed un corpo da fare invidia ad una diciottenne. Tutti la chiamavano Benedicta, ma dopo solo due incontri Rosetta la chiamò affettuosamente Beba. Le due donne si vedevano quasi tutte le sere, ed era Rosetta che andava a trovarla nella sua villa, e tutte le volte le portava un fascio di rose scarlatte che Beba gradiva sistemare nei tanti vasi del suo immenso salotto. Spesso Rosetta non rientrava a casa, rimaneva ospite della nobildonna per la notte e, talvolta, per più notti consecutive. Beba era titolare di una agenzia immobiliare nella capitale, e spesso le due donne si recavano a Roma e vi permanevano per interi fine settimana. Nulla di più normale in tutto ciò, fino a quando, dopo un piccolo diverbio tra le due, Beba le trasferì alcune quote societarie della sua agenzia. A Palermo a qualcuno vennero dei sospetti, la nobildonna veneta non aveva bisogno di denaro e Rosetta avrebbe dovuto accumularne tanto per poter comprare delle quote societarie, cosa c’era sotto? Nulla di più elementare, Beba era lesbica e si era innamorata perdutamente di Rosetta che ricambiava quel sentimento. Dopo il trasferimento della seconda trance di quote, avvenuto dopo una furibonda lite, le due donne, per festeggiare il loro riappacificarsi decisero di fare insieme un viaggio in India che durò oltre trenta giorni. Beba era diventata gelosa, ogni tanto scopriva che Rosetta la tradiva con parecchi uomini e tanto esulava dai loro patti, fino al punto che una sera, la pedinò e la vide entrare a casa di un noto professionista palermitano e ne uscì solo a notte fonda. La nobildonna andò su tutte le furie, incaricò un investigatore privato ed ebbe dopo poco tempo foto e filmati delle sue performances con uomini diversi. Una sera Rosetta si recò nella villa di Beba, le porse il fascio di rose, l’aiutò a sistemarle nei vasi e, dopo una cenetta a lume di candela, venne invitata a visionare delle cassette in televisione. Rosetta assistette silenziosa ed immobile alla visione, e quando si accese la luce nel salotto, con una flemma che non era stata mai la sua, disse a Beba: - Amica mia, perché ti formalizzi di tanto, io ti ho dato quello che potevo, ricordati che non sono io la lesbica, tu sei una bella donna ed io, con immensa passione, ti ho dato me stessa, non dimenticare che sono femmina e non ti tradirei mai con un'altra donna, tanto deve bastarti! – La fissò attendendo una reazione ma l’altra non fiatò, le buttò le braccia al collo e la baciò appassionatamente sulle labbra. Ora era Rosetta che faceva la spola tra Palermo e Roma, tre quarti dell’agenzia della capitale erano diventati suoi, conquistati sul campo, impegnando soltanto il suo corpo; non era mai stata uno stinco di santo e, se nella sua mente era maturata l’idea che doveva strappare a Beba anche l’ultimo quarto di quella agenzia, per averla, sarebbe passata anche sul cadavere di sua madre. E fu così, circa un anno dopo Beba le trasferì l’intera agenzia, in seguito ad una lite furibonda al limite delle percosse, e quell’atto segnò pochi giorni dopo la fine del loro idillio. Rosetta chiese un periodo di riflessione e di meditazione che durò all’infinito, poi, con una calma socratica, le comunicò che i suoi sentimenti erano crollati. Beba le telefonò mille volte, la inseguì per ogni dove, la supplicò, la minacciò, si disperò, la colpì la depressione e fu per lei un esaurimento nervoso. Imbottita di sedativi Beba si trascurò nella persona, vestì in maniera trasandata, invecchiò repentinamente, ed i suoi occhi color del cielo si velarono di grigio per sempre. Rosetta non chiese mai di Beba, non andò mai a trovarla, non ebbe per lei un solo pensiero e, quando gli amici comuni gliene parlavano, lei li ignorava e cambiava discorso.
 Due anni dopo Guido Mura, proprietario della “Domus”, innamoratissimo di Rosetta, dopo avere consumato interminabili periodi di passione con lei, per vivere, finì a fare il commesso in un negozio di tessuti della città; Rosetta, tra le lenzuola, gli aveva strappato l’agenzia immobiliare che l’uomo aveva tirato su con enormi sacrifici.              

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mercoledì 2 aprile 2014

L'ARRAMPICATRICE SOCIALE - Racconto breve - 02.aprile.2014








Mario Scamardo


I RACCONTI DEL BORGO


L’arrampicatrice sociale



            Aveva vissuto fino al conseguimento della licenza media nel suo paesino Luisella Grasso, la famiglia contadina aveva risparmiato tutta una vita per consentirle di poter frequentare un liceo e quindi l’università. Luisella, figlia unica, si era spostata in città, si era inscritta al liceo classico e cinque anni dopo, col massimo dei voti aveva conseguito la licenza che le consentì di inscriversi alla facoltà di Lettere e filosofia. Una vita non troppo agiata, la famiglia sempre più in difficoltà, non permisero mai a Luisella di avere un capo firmato o di consentirsi un viaggio. Poche amiche, evitava anche gli inviti perché sarebbe dovuta andare in jeans e qualche giubbotto non proprio di marca. Donna bellissima, evitava anche la corte di parecchi colleghi universitari. La sua era una imposizione, non volle mai aprire la porta all’amore, in attesa della laurea che, forse, le avrebbe potuto dare un lavoro e, quindi, una indipendenza economica.


 Era al terzo anno di corso quando ebbe il sopravvento la voglia di sfruttare la sua bellezza. Al bar dell’ateneo, dove stava bevendo un caffè, si era fermata una fuoriserie, ne era sceso un giovane meno che trentenne, che entrando salutò tutti e tutti gli andarono incontro per salutarlo. Luisella rimase seduta al suo tavolinetto, finì di bere il suo caffè, accavallò le gambe e diede una ravviata alla sua fluente chioma. Chi era quel giovane benvestito, con una cravatta intonatissima? Ci volle poco a saperlo, il giovane la fissò per un attimo, le si pose davanti, fece un inchino:

-         Buon giorno signorina, sono Evaristo del Tongo, mi permette di salutarla?

La ragazza si alzò in piedi

-         Buon giorno, io sono Luisella Grasso, frequento Lettere.

Evaristo prese la mano della ragazza, e da quel gentiluomo che era, gliela baciò. Luisella non fece una grinza, fece un cenno al giovane e lo invitò a sedere al suo tavolo.

-         Luisella ha detto?

-         Si, proprio così.

-         Senta, io sono fumatore, non le andrebbe di accomodarci fuori?

-         Certo, piglio la mia borsa.




Il viale era alberato con grandi platani, un via vai di giovani universitari e le aiole stracariche di gerani fioriti.

-         Scusi, lei è del Tongo, i marchesi del Tongo.

-         Si signorina, sono proprio io, la mia famiglia è quella che costruisce gli infissi metallici.

-         Ho visto passare in tv gli spot pubblicitari, veramente belli i vostri infissi!

-         Se me lo consente, posso darle del tu?

-         Ma certo, diamoci del tu.

-         A quando la laurea?

-         Fra un anno. E tu?

-         Mi sono già laureato in ingegneria quattro anni fa, ma non resisto tutte le mattine a passare da questo bar, è come se volessi rimanere un eterno studente. Ogni anno che passa sempre meno conoscenti, fra un po’ non conoscerò più nessuno, o solo i gestori del bar.

-         Evaristo e tu quale ruolo hai nell’industria di famiglia?

-         Mi occupo delle progettazioni, ho un mio studio con un paio di architetti.

-         Non hai bisogno di una segretaria part time?

-         Ne conosci qualcuna disponibile?

-         Io, non ho una occupazione, considerato che mi rimangono solo quattro esami e la tesi, mi piacerebbe fare la mia prima esperienza lavorativa.

-         Fammici pensare un attimino, fammi parlare col capo del personale e domani, al massimo tra due giorni ne riparleremo.

Evaristo e Luisella fecero una lunghissima passeggiata, ritornarono a consumare un altro caffè e quasi ad ora di pranzo si commiatarono con l’impegno di rivedersi il giorno dopo.

La ragazza arrivata a casa, non preparò per pranzare, si mise sull’unica poltrona, reclinò il capo e ad occhi chiusi si mise a pensare. Dopo un panino ed un bicchiere d’acqua la colsero le riflessioni e fu pervasa dal cinismo. Evaristo aveva avuto tutto dalla vita, nato da una delle famiglie nobili della città, ricco, a capo di una delle più fiorenti industrie, abiti, automobili, viaggi, grandi alberghi, e lei stretta quasi dalla morsa della fame. Bisognava conquistare quell’uomo, bisognava sposarlo a qualunque costo, bisognava affrancarsi dalla miseria, al costo di qualunque sacrificio. Cinica? Si, qualunque fosse stato il prezzo!

Non aveva mai posseduto gioielli di valore, ma le servivano i soldi per rendersi presentabile, palazzo del Tongo, nel centro storico, era diventato il suo chiodo fisso! Raccolse i suoi monili, qualche orecchino, la collanina del suo battesimo, tre o quattro braccialetti, due anelli, una spilla ed un orologio, ne fece un involto e si recò in una gioielleria per venderli; attaccato al polso le rimase l’orologino d’oro che le avevano regalato quando era passata a comunione. Trattò col gioielliere ed intascò duemila e trecento euro. Non ebbe rimpianti uscendo, non ebbe commozioni, eppure quei piccoli monili avevano segnato tappe importanti della sua vita. Spese i soldi tutti in abbigliamento e dopo due giorni si recò in paese a vedere i suoi genitori ed intascare quei piccoli risparmi che le consentivano di continuare gli studi.

Alle undici Evaristo l’attese al bar dell’ateneo e Luisella comparve in tutto il suo splendore elegantemente vestita. I due bevvero un caffè e all’uscita il giovane invitò la ragazza a visitare l’azienda. In macchina il giovane del Tongo le parlò dell’impiego.

-         Sai Luisella, ho parlato col capo del personale, mio padre ha bisogno di una segretaria, anche part time, è un po’ orso, ma a cinquantadue anni forse si diventa un po’ guardinghi, gelosi delle proprie cose, spesso intolleranti, comunque non è mai sgarbato e tantomeno volgare. Mia madre l’ho perduta tre anni fa e da allora è anche diventato taciturno.

-         Non ti preoccupare, cercherò di svolgere il mio lavoro con oculatezza e ti chiederò di volta in volta il consiglio sul come agire.

-         Se davvero vuoi togliere tempo al tuo studio, dalla settimana prossima potrai cominciare. Ti presenterò al capo del personale e tratterai con lui orari e compensi.

Luisella ed Evaristo visitarono lo stabilimento, entrarono nell’ufficio del marchese del Tongo e la ragazza fece conoscenza con quell’uomo dalle tempie argentate, chiuso nel suo doppiopetto blu, distinto e sorridente che la guardò da capo a piedi, cogliendo tutto il fascino e l’avvenenza di lei. A pranzo il giovane la invitò in uno dei ristoranti più rinomati della città, poi l’accompagnò nei pressi dell’ateneo dove lei abitava, un appartamento condiviso con altre studentesse.

I giorni si susseguirono ai giorni, la ragazza passava tutte le mattine dal lunedì al venerdì il suo tempo nello studio del marchese, rispondeva al telefono, fissava appuntamenti, aggiornava la sua agenda, si occupava dei suoi voli, dei suoi alberghi, disponeva dell’autista per accompagnarlo in aeroporto e per il suo prelievo. Diligente ed ordinata, aveva capito anche quando far portare un the o un caffè nello studio. Il marchese era soddisfatto di lei e, spesso, le chiedeva pareri sulle sue scelte. Evaristo l’attendeva all’uscita e l’accompagnava in macchina, quando una sera, dopo averla invitata a cena, le propose di voler iniziare con lei un rapporto diverso, quasi una proposta di fidanzamento. Le piaceva Evaristo, ma sapeva che la chiave della sua scalata era nelle mani del padre e, quindi, non disdegnando baci e carezze e qualche notte brava, pigliava tempo, diceva di non essere pronta a vivere una storia impegnativa, in funzione anche della sua voglia di completare gli studi, ma in un anno aveva solo affrontato due esami e con voti appena sufficienti a superarli. Evaristo non desistette mai dall’insistere, ma lei prese sempre tempo, pur trascorrendo con lui intense ore di passione.

Il marchese del Tongo un mattino, rientrando dall’India, passò dal suo studio ad onta della stanchezza, salutò la ragazza trattenendo la mano tra le sue e le raccontò del suo faticoso viaggio, poi aprì la sua borsa, tirò fuori un astuccio incartato e lo donò a Luisella:

-         Credo posso permettermi di darti del tu, tieni è un pensierino che ti ho portato da Nuova Delhi.

Luisella lo prese tra le mani:

-         Marchese, perché si è disturbato…

-         Non mi sono disturbato, mi è piaciuto e te l’ho preso, non ti ho mai regalato nulla, non ho mai fatto un omaggio alla tua diligenza, alla tua correttezza.

La ragazza lo scartò, ma già la sua mente cinica aveva percepito che la scalata era già cominciata; il prezzo? Il suo corpo! Aprì l’astuccio, dentro un collier d’oro con un cammeo di corallo rosa. Recitò di doversi sedere per la commozione, il marchese la prese per le spalle e dolcemente l’aiutò ad alzarsi:

-         Indossalo, voglio vedere se ho avuto gusto.

La ragazza prelevò il monile, lo porse al marchese e si girò di spalle:

-         Me lo attacchi lei.

Si girò sotto gli occhi soddisfatti dell’uomo, poi, con un impeto gli mise le braccia al collo e lo baciò sulla guancia:

-         Scusi, è stato più forte di me, mi perdoni, ma non avevo mai ricevuto dono più bello!

Il marchese soddisfatto e compiaciuto sedette alla sua scrivania, sistemò due carte, poi:

-         Ora vado a riposarmi un po’ a casa, il viaggio è stato stressante. Ritornerò in India fra trenta giorni, se ti fa piacere puoi venire con me, in due un viaggio così si affronta meglio, tu qualcosa di inglese la mastichi, e mentre io sarò impegnato con gli importatori, tu potrai visitare Nuova Delhi, poi avremo tutto il tempo di stare assieme. Cosa ne pensi?

-         Oddio, lei marchese mi propone qualcosa che mi lascia senza parole, come potrei dirle di no, saltellerei dalla gioia, ma la prego, vada a riposarsi, è veramente stanco.

-         Dura tempra la mia, vedrai resisterò e domani sera non pigliare impegni, andremo a cena in un posto al mare, tu sei una persona capace di non farmi pensare agli impegni.



Uscito il marchese dallo studio Luisella sedette alla sua scrivania e per la prima volta volle provare l’ebrezza di ammaccare il pulsante, chiamare l’usciere e farsi portare un the. Era fatta! Bisognava non sbagliare una mossa! Tenere sempre più sulla corda Evaristo di cui si era presa una bella cotta, e donarsi totalmente a suo padre, il marchese Ottone, che le piaceva tanto, ma soprattutto che la poteva affrancare dal suo stato di indigenza. Cercò lo specchio in fondo alla stanza e si ammirò ornata del suo collier che valeva almeno dieci dei suoi stipendi part time. La sera uscì col ragazzo e consumò una notte di passione. Il giorno seguente il marchese, a metà mattinata, volle che lei lo accompagnasse a fare delle spese, lui comprò una giacca e delle cravatte, poi accompagnò lei in una boutique e pregò la proprietaria di occuparsi della ragazza, tre o quattro capi di gran moda. Sulla via del ritorno:

-         Luisella, io sono un uomo solo, sto pensando seriamente a rivedere la mia posizione di single, tu hai tutto il tempo che ti occorre per riflettere, non ti farò mai fretta, quando ti andrà, se ti andrà, sarai tu stessa a farmelo capire.

La ragazza stava per parlare ma lui la incalzò:

-         Ti prego, non parlare, non dire nulla, riflettici, io rispetterò ogni tua decisione. Non desidero essere chiamato più marchese, lo farai in pubblico, ma quando saremo soli chiamami Ottone.

Rientrati nello studio Luisella si mostrò turbata, ma sfoderò il suo sorriso tutte le volte che Ottone la chiamò o qualcuno entrò in quello studio. Cosa fare? Come nascondere ad Evaristo la storia col padre e come nascondere al padre l’amore che provava per Evaristo? Complicata era diventata la questione, ma lei ne sapeva una più del diavolo e quando incontrò il ragazzo si mostrò turbata.

-         Evaristo, ho riflettuto tanto sul nostro rapporto, tu per me sei solo un grande amico, mi sono illusa di poterti amare, ci ho provato con tutte le mie forze, mi sono donata a te sperando che dentro di me potesse accendersi quel fuoco che ti brucia dentro senza spegnersi mai, invece la fioca fiammella, ad onta dei tentativi che faccio, si spegne sempre di più senza potersi mai riaccendere. Ti chiedo perdono se ti ho creato delle illusioni, non voglio essere il peggior baro, le mie carte le ho scoperte perché tu possa leggerle e cogliere la mia sincerità. Ti voglio bene, ma tu sei soltanto il mio più caro amico e nulla più!

Il ragazzo ammutolì, non proferì parola e, quando lei teneramente gli accarezzò il viso raccolse con la punta delle dita una lacrima che gli solcava il volto.

-         Luisella, io non sono il tuo despota, ho atteso tanto che tu potessi dirmi che eri pronta a vivere la nostra storia, ma le storie si vivono in due e tu non ci sei. Ti ringrazio per la tua sincerità, io ti amerò lo stesso, nessuno potrà impedirmelo e tu rimarrai la mia più grande amica. Non mi rimane che soffiare sul palmo della mano sui pochi coriandoli che mi sono rimasti. Forse ho anche elaborato il lutto, il tuo prendere sempre tempo mi ha quasi abituato all’idea di non poterti avere sempre vicina.

I due giovani si salutarono e andarono per la loro strada, Luisella ruppe in un pianto dirotto, ma scelse secondo i suoi progetti di arrampicata e non secondo i dettami del cuore. Pensò che quell’ultimo discorso con Evaristo le avesse spianato la strada e avesse abbattuto uno dei grandi ostacoli. Luisella comunicò alla sua famiglia del suo nuovo lavoro, ma il tempo passava infruttuoso per il suo obbiettivo di laurea, ancora due esami e la tesi, e lei che non si dedicava più allo studio. Affittò un bilocale in un quartiere bene della città e lo arredò con cura.



India, Giappone, Australia, America, i viaggi erano frequenti, e lei con Ottone consumava passione e sesso. Gli incontri con Evaristo diventarono sporadici ma il giovane non le chiese mai perché era sempre presente ai viaggi del padre, e quando cominciò a capire che c’era qualcosa di strano nel rapporto con suo padre, indagò fino ad avere chiara la situazione che si era venuta a creare. Fu un duro colpo, tormentato tra la serenità ritrovata dal genitore e il suo spendere incondizionatamente, tra le piccole indiscrezioni che circolavano nell’azienda e fuori e il suo sentimento nei confronti di Luisella, e poi quel taglio netto con la sua famiglia, l’abbandono degli studi alla soglia della laurea, il suo abile defilarsi ad ogni accenno di discussione. Parlare o non parlare, il tormento di Evaristo si fece gran sofferenza, irrequietezza, insonnia, angoscia. Un mattino di sabato il giovane arrivò in azienda, di solito nel fine settimana non si lavorava, tutto il personale era riunito in una grande sala, seduti al tavolo in fondo il marchese Ottone e Luisella. Appena entrato il padre lo chiamò a se:

-         Aspettavo solo te, ora posso dare il grande annuncio.

Evaristo intuì, cercò con gesti di frenare il padre, ed il suo tormento si fece ancora più grande, ma non vi riuscì, suo padre prese per mano Luisella, si pose davanti alle maestranze e cominciò un discorso aulico:

-         Voi siete le persone con cui ho diviso parte della mia vita, ogni successo di questa industria è stato ed è il vostro successo. La vita mi ha negato di poter continuare a condividere gioie e dolori con la mia defunta moglie la duchessa Martina, Iddio l’ha chiamata a se molto giovane. Con voi oggi voglio dividere una gioia, se lo vorrà, sposerò la signorina Luisella che mi è stata vicina in questi ultimi tempi. Io non ho parenti prossimi tranne che mio figlio, voi siete la mia famiglia.

Un applauso scrosciò nella sala, l’unico a non battere le mani fu Evaristo che, mogio mogio, si defilò sotto lo sguardo di Luisella, raggiante ma molto tesa.

Ottone e la ragazza uscirono dalla sala sottobraccio e sparirono in macchina. Era fatta! Luisella Grasso diventava la marchesa del Tongo e la notizia si diffuse in un baleno.

Evaristo usciva da palazzo del Tongo alle sei del mattino e vi rientrava a notte fonda, non dedicava un solo minuto al suo lavoro e non incontrava gente. Sentiva dentro di se il tormento di non avere saputo dire al padre del suo rapporto con Luisella, e si interrogava sulla freddezza e determinazione della ragazza. Chi era veramente quella donna? Il padre era sicuramente convinto che il figlio la conoscesse bene prima di proporgliela come segretaria personale, lui l’aveva solo incontrato per caso in un bar dell’università. Bella, elegante, intelligente con un grande potere di seduzione, ma poi? E i suoi lunghi ed interminabili indugi, il suo temporeggiare a scadenze fisse, la sua grande passione ed il suo sesso quasi sfrenato, per poi ritornare pudica e riservata, chi era Luisella? Colei che avrebbe dovuto prendere il posto di sua madre, più piccola di circa trent’anni di suo padre, colei che aspirava a diventare la marchesa del Tongo. Evaristo non dormì per tanto tempo, si recò un giorno nel paesino dove abitavano i genitori di Luisella, li incontrò, chiese di lei e scoprì del taglio netto dei rapporti, non poteva presentare una coppia di contadini umili al marchese del Tongo, non poteva rischiare di vedersi sfuggire l’occasione della vita! Eppure quei contadini le avevano donato con amore la vita, l’avevano cresciuta con stenti, sacrificavano anche i piccoli agi per farla studiare e lei? Le aveva negato persino di amarla, di accarezzarla, di parlare con lei, di sentirsi confortati da una sua carezza. Non ci pensò una volta Evaristo, ritornò in azienda, si infilò nello studio del padre e pretese che Luisella rimanesse ad ascoltarlo.

-         Papà, io ho amato Luisella, ne sono ancora innamorato, è stata la mia amante per tanto tempo, anche quando, a mia insaputa lei già aveva intrapreso con te il rapporto. Fino ad un certo periodo non mi sono reso conto del vostro idillio, poi ho capito e da allora è stato per me un calvario. Lei ha tagliato i ponti con me, ma ha tagliato i ponti con la sua famiglia, onestissima ma umile, contadini che l’hanno amata e si sono tolti il cibo di bocca per farla studiare, non ha regalato loro neppure la gioia del conseguimento di una laurea. Come presentare al marchese Ottone del Tongo i suoi genitori umili contadini? Papà, lei non ti ama, ha forse amato me, ma ora ne dubito, cinicamente è arrivata alla soglia della realizzazione del suo sogno. Papà, è solo una arrampicatrice sociale, che si sta prendendo solo gioco di noi. Tu sei libero di agire come vuoi, io che l’amo ancora, vado via da casa, ma imparerò a star bene senza di lei.

Il Marchese del Tongo non aprì bocca, volse lo sguardo verso Luisella, ma attese invano una sua parola. La ragazza prese la sua borsa, prelevò dal cassetto della scrivania l’ultimo testo universitario che aveva acquistato e, a capo chino, uscì dallo studio avviandosi verso la fermata del tram che era a pochi metri dall’azienda. 



Luisella si laureò, riprese i contatti con la sua famiglia e continuò a frequentare tutte le mattine il bar dell’università, nell’attesa che si fermasse una fuoriserie con a bordo un giovane che le potesse permettere una scalata sociale.


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