mercoledì 20 luglio 2016

LA DAMA BIANCA DI "COZZO REGINELLA" - Favola per adulti - 21 Luglio 2016

























     I personaggi che animano questa favola sortiscono dalla fantasia, i luoghi sono reali, una volta pieni di mistero, oggi ubicazione di un quartiere con meno di cinquant'anni di vita, realizzato in buona parte con le rimesse degli emigrati in Svizzera, spesso per indicare la zona è diventato d'uso chiamarlo il quartiere svizzero. Con comodi appartamenti e qualche spiazzo a verde, il Cozzo è così appellato perchè trattasi di una piccola collinetta costituita da un banco di calcarinite compatta, affiorata nel miocene inferiore, ricca di piccoli fossili, globigerine, rudiste e molti pectin, piccole conchiglie.
     Ma perchè rubarvi il tempo? Meglio farvi immergere subito nella storia!

                                                                               Buona lettura!


Mario Scamardo











I Racconti del Borgo
La dama bianca del Cozzo Reginella
Cozzo Reginella è oggi un quartiere dell’agglomerato urbano di San Cipirello. Fino a metà degli anni cinquanta era un fondo rustico di calcarinite ciottolosa affiorata dal fondale marino nel miocene inferiore. Non è difficile trovare dei piccoli fossili, globigerine[1], rudiste[2] e qualche pectin[3]. Il fondo era servito da un grosso fabbricato composto di parecchi vani al piano terra e di alcuni ambienti al piano superiore. Sulla stradina d’accesso un pozzo era protetto da una piccola costruzione in muratura e da un coperchio in tavole. Tutt’attorno al fabbricato rigogliosi ulivi e qualche mandorlo.
Cozzo Reginella apparteneva ad una famiglia di possidenti che abitavano a Palermo. Fino a metà del secolo scorso era distante dal centro abitato che di per se, al tramonto, veniva illuminato appena per non perdersi. Limitrofa al Cozzo, passava una delle tante mulattiere che portavano in paese, ma al crepuscolo i contadini, al rientro dai campi, evitavano di attraversarla, in quanto da sempre qualcuno giurava di avere visto un fantasma in quelle case.
Tramontato il sole, la casa s’illuminava a giorno, si sentiva una musica celestiale e veniva fuori una bellissima dama vestita di bianco col viso coperto da un sottilissimo velo e, danzando, raggiungeva il pozzo che era di li a poco. Allo scoccare della mezzanotte, una volta al mese, durante il novilunio, come per incanto, la casa si riempiva di gente e cominciava una grande festa che finiva col sopraggiungere del primo raggio di sole.
In paese, tutte le mamme ammonivano i figli di non recarsi mai nei pressi del Cozzo per giocare, prima perché poteva esserci pericolo, stante che c’era nei paraggi il pozzo e poi perché i racconti sul fantasma erano frequenti. Si parlava di grandi feste, di grandi orchestre, di enormi banchetti, ma soprattutto della dama vestita di bianco. Qualcuno raccontava che all’indomani del novilunio, aveva scavalcato la recinzione in filo spinato ed aveva percorso la stradina che, passando per il pozzo, raggiungeva la casa. Davanti al pozzo aveva trovato mucchietti di gusci vuoti di chiocciole e davanti la porta parecchi carapaci, gusci vuoti di tartarughe. – Cattivo segno! – esclamavano gli anziani, i gusci vuoti erano ritenuti di cattivo auspicio, specialmente quelle delle chiocciole, erano sinonimo di epidemia, di morbi appestanti, di sciagure. La motivazione si legava all’epidemia malarica che all’inizio del secolo scorso aveva mietuto parecchie vittime nel circondario.
I ragazzini, di solito, stavano lontani da Cozzo Reginella, ma la curiosità era una droga, tra loro ne parlavano e nessuno osava incitare a varcare quel filo spinato. Nella loro fantasia immaginavano tesori nascosti, draghi che divoravano lumache e tartarughe e vomitavano gusci vuoti di lumache e carapaci e, alle prime luci dell’alba si eclissavano sotto terra, aspettando che si facesse di nuovo buio per venire fuori.
Alessandro era un ragazzino taciturno, aveva compiuto dieci anni da poco. Di solito ascoltava e di rado interveniva nei discorsi tra compagni di scuola. Della dama del Cozzo, qualche volta, si era parlato a casa sua, ma mentre suo padre sorrideva ai fantastici racconti, sua madre si impensieriva e gli rinnovava le raccomandazioni di non avvicinarsi alla zona.
Un giorno i genitori di Alessandro furono costretti ad emigrare in Svizzera in cerca di lavoro. Il ragazzo fu affidato alle cure della nonna che abitava un monovano contiguo alla sua casa, appena dopo cena, dava un bacio alla sua vecchina e si chiudeva dentro mettendosi a letto. Al mattino seguente la nonna, che aveva le chiavi di casa, lo svegliava, gli preparava la colazione e lo mandava a scuola. La finestra della stanzetta di Alessandro dava in aperta campagna, proprio di fronte al Cozzo, ed il ragazzino vi si affacciava e stava parecchio tempo a fissare quella casa e quel pozzo, sperava, in cuor suo, di veder comparire una sera la dama in bianco, i commensali o i draghi. Non successe nulla di ciò, ma a luna nuova i suoi occhietti, puntati verso il Cozzo Reginella, notarono delle strane luci attorno alla casa. Sentì il suo cuore battere fortemente, socchiuse le ante della finestra e sbirciò da uno spiraglio, cercando di scoprire gli eventi. Nulla di chiaro, solo bagliori e qualcosa che si muoveva nel buio fittissimo della notte. Il sonno stava per coglierlo, si infilò sotto le coperte e si addormentò. Al mattino seguente, mentre la nonna gli preparava la colazione, staccò dal muro un calendario e cercò il giorno della prossima luna nuova, prese dalla sua cartella una matita colorata e lo segnò.
Per ventotto giorni Alessandro studiò su come andare a Cozzo Reginella, bisognava vincere la paura e bisognava eventualmente trovare una facile via di fuga in caso di pericolo. All’uscita da scuola, dopo il pranzo, cercò tra gli attrezzi di lavoro del padre una tenaglia, percorse la mulattiera, guardò attraverso la recinzione in direzione del pozzo e tagliò i fili, arrotolò il filo spinato e si creò un varco molto agevole. Appena dopo cena, dopo che la nonna si chiuse in casa, Alessandro uscì per la strada e si incamminò nuovamente per la mulattiera. Non ci si vedeva ad un metro, la luce fioca che arrivava dalle ultime case scemava e, man mano, lo faceva immergere nel buio più fitto. Sentiva i battiti del suo cuore, ma la sfida riusciva a vincere la paura. Prima di arrivare al varco che s’era creato, un allocco in cima ad un cespuglio apriva e chiudeva gli occhi. Alessandro si fermò, poi scoprì la presenza dell’allocco e continuò verso la recinzione. Carponi superò il varco, guardò tutt’attorno, e nel buio più fitto non vide nulla. Quando fu davanti al pozzo si fermò, vi girò attorno, ma sentì solo il rumore delle frasche che calpestava, trattenne per un attimo il respiro e si diresse verso la casa. Non c’era un alito di vento ma, un’anta del piano superiore sbatteva ritmicamente. Chiuse gli occhi e contò fino a cento, poi li riaprì e si guardò intorno, non c’era l’orchestra, non c’erano le luci, non c’era la festa e non c’era la dama in bianco. Che avesse sbagliato a fare i conti sul calendario? Si sedette sul sedile di pietra accanto alla porta di centro e rimirò il cielo stellato. Il grande carro, il piccolo carro, l’acquario, il cancro, c’erano tutte, e più le guardava più diventavano numerose, come se le stelle si moltiplicassero. Alessandro pensò nella sua testolina che quanto si raccontava sul Cozzo Reginella era un’invenzione delle mamme per tenere lontani i bambini dal pericolo del pozzo. Tutto d’un tratto sentì una voce dolce e suadente di donna che lo chiamò – Alessandro, Alessandro – il ragazzo scattò in piedi e si girò per ogni dove, - chi mi chiama, chi sei? – La voce suadente rispose – non aver paura, sono la dama che tu stai cercando, non ti sarà fatto nulla di male, vuoi vedermi? – Alessandro ebbe un attimo di esitazione, poi rispose – si, non ho paura, sono venuto di proposito. – Si illuminò come per incanto la casa, si aprì la porta e venne fuori con passo felpato una signora vestita di bianco, con un velo trasparente che le copriva il volto. – Non temere Alessandro, ripiglia a sedere e fammi posto accanto a te, mi farai compagnia per questa notte e scoprirai il segreto di Cozzo Reginella ma, tutto quello che sentirai non rivelarlo mai ad alcuno, non ti crederebbero, anzi, ti scambierebbero per matto e non avresti più pace. – Il ragazzo sedette e le fece posto, stranamente non ebbe più paura, si sentì pervaso da tanta serenità. – Mio caro ragazzo, sono quattrocento anni che ogni notte di novilunio, quando il buio è assoluto sulla terra, io mi affaccio a mirar le stelle, proprio come hai fatto tu stanotte. In questo sito, al tempo c’era un maniero con una oscura segreta, io ero una bella signorina diciottenne – alzò il braccio e scostò il velo che le copriva il viso, due occhi neri e profondi, due gote rosee ed una ciocca di capelli corvini che le copriva un orecchio, un lungo collo di cigno adornato da una collana priva di monile, era una donna bellissima. Ricoprì il suo viso e riprese il suo narrare. –  I miei genitori erano due rampolli della nobiltà spagnola, mio padre era un duca e mia madre una principessa di sangue reale, possedevano questo feudo e alcuni mesi all’anno vivevano qui tra feste e ricevimenti. Mio padre amava molto mia madre, la ricopriva di premure e di regali e, quando era in regime di tenerezze la chiamava “mia reginella”, chissà, forse questo è il motivo per cui questo luogo viene chiamato Cozzo Reginella. – Alessandro la guardava in viso estasiato e registrava nella sua mente tutto quanto proferito dalla dama. La donna poi continuò col suo narrare - Un giorno tra gli ospiti c’era un giovane ufficiale, nel salone delle feste che era su al piano nobile, mi invitò a ballare ed io accettai il suo invito. Era un bel ragazzo dell’alta borghesia palermitana, aveva due occhi neri e profondi e le sue mani erano grandi e forti, era galante e cortese, dalle maniere raffinate, ci innamorammo perdutamente, io staccai il mio medaglione dalla collana e glielo donai, pregandolo di portarlo sempre con se. Veniva spesso a trovarci, con qualunque scusa, il suo destriero aveva la bardatura che riportava i motivi ornamentali della sua divisa. Quando andava via lo seguivo con gli occhi fino a vederlo scomparire giù nella valle. Mia madre aveva scoperto il mio segreto e, quando mi chiese quale fosse il rapporto tra me ed il giovane ufficiale, io le mentii, le dissi che era solo una sincera amicizia tra ragazzi della stessa età. Passò quasi tutta l’estate, il mio giovane ufficiale, Vladimiro, mi disse di essere intenzionato a chiedere la mia mano a mio padre. Gli chiesi di temporeggiare e di aspettare l’inverno, quando ci saremmo trasferiti a Palermo. Vladimiro era impaziente ed un mattino, proprio davanti al pozzo, si avvicinò a mio padre e chiese la mia mano. Mio padre non rispose, lasciò in asso il mio giovane ufficiale e rientrò rintanandosi nel suo studio. Poco dopo mia madre entrò nella mia camera, mi venne accanto e, con voce ferma, mi invitò a raggiungere mio padre. Entrai nello studio ad occhi bassi, sapevo che Vladimiro non era nobile e non avrei potuto sposarlo, ma ero decisa a lottare per il mio amore. Mio padre si alzò dalla sua poltrona e mi apostrofò severamente e mi ammonì di rivedermi con Vladimiro, lo stesso non sarebbe più stato invitato ad alcuna festa e non avrebbe più varcato la soglia del nostro maniero. Uscii da quella stanza a testa bassa, ma sull’uscio gridai a mio padre che amavo perdutamente il mio giovane ufficiale e non avrei sposato nessun altro fuor che lui. – E tuo padre? – disse Alessandro – Mio padre non mi parlò più, diede ordini di ritornare in città. A primavera nessuno parlò di trasferirsi in campagna, questo posto rimase in balia dei guardiani e di un minimo di servitù. A estate inoltrata mia madre, all’uscita della cappella di famiglia, dopo le funzioni, mi chiese se ero preparata ad incontrare la giovane nobiltà dell’isola, mi parlò di giovani duchi, giovani conti, tutti desiderosi di farmi la corte ed attese invano la mia risposta. Io ero innamorata di Vladimiro, per la mia mente passava solo la sua immagine, impettito nella sua divisa, i suoi occhi sorridenti e la sua immensa tenerezza.  Un giorno uscii con la mia nutrice che era diventata la mia dama di compagnia, appena salimmo sulla carrozza mi abbracciò con tutta la sua tenerezza e mi disse sommessamente che saremmo passati davanti al comando militare dove prestava il suo servizio Vladimiro. I miei occhi si riempirono di lacrime e timidamente le chiesi se era possibile poterlo rivedere. Rosina, la mia nutrice, mi fece cenno di si col capo ma mi raccomandò di mantenere il segreto, pena la sua vita. Assentii anch’io col capo e quando la carrozza imboccò la strada delle casermette, Rosina chiese al cocchiere di fermarsi perché doveva fare delle commissioni. Scese dalla carrozza e quatta quatta si infilò dentro una casermetta, dopo un po’ venne fuori seguita da Vladimiro che scostò le tende della carrozza e mi sorrise con tenerezza, sbottonò appena la sua giubba gallonata e mi mostrò il medaglione che gli avevo donato. “Ringrazio il cielo per averti rivista, sei l’unico sogno della mia vita” mi disse ed io non potei per la gioia proferire parola. Rosina montò in carrozza ed il cocchiere fece schioccare la frusta. Ripresa la marcia, la mia nutrice mi consegnò un biglietto, era di Vladimiro, lo lessi: “Unico grande amore mio, nulla mi convincerà a pensare ad altra donna, ti amerò tutta la vita, tuo Vladimiro”. Disobbedendo a Rosina che mi ha suggerito di distruggere il biglietto, lo conservai gelosamente nel mio seno e arrivata a casa lo nascosi nel mio secretaire. Prima che finisse l’estate la mia famiglia si preparò per venire qui in campagna, partimmo coi servitori e, come se nulla fosse accaduto, la vita riprese come prima. Le feste ripresero e sempre più pompose ed una sera vidi arrivare tre ufficiali in grande uniforme, uno di loro era Vladimiro. Mi tremarono le gambe, il mio cuore batteva forte, e non capii nemmeno perché Vladimiro avesse voluto sfidare mio padre. La sorpresa fu più grande quando il mio austero genitore volle riceverli personalmente, riservando loro attenzioni e premure. Non credetti ai miei occhi, pensai che forse si sarebbe realizzato il mio sogno. – Accarezzò il volto di Alessandro e gli disse - la notte è ancora lunga, questa è la mia ultima notte, la tua presenza, ma soprattutto la tua innocenza, rompe l’incantesimo che mi costringe a ritornare in questo posto ad ogni novilunio. – Perché l’ultima? – disse Alessandro – Ragazzo mio – riprese la dama – se l’alba non ci coglierà prima che finisca il racconto, allora potrò raggiungere Vladimiro nell’aldilà e per l’eternità coroneremo il nostro sogno. Tu sei il mezzo, la tua curiosità prima ed il tuo coraggio e la tua innocenza dopo, consentiranno il realizzarsi del mio unico sogno e mi daranno finalmente la pace interiore. – Allora continua il tuo narrare – disse Alessandro, poi prese la mano della dama, la baciò e teneramente le sussurrò – prima che venga l’alba regalami una carezza, la mia mamma è lontana per lavoro e mi mancano tanto le sue coccole. – La dama si alzò, prese il capo del ragazzo e lo strinse al suo seno con tenerezza, poi lo baciò sulla fronte e risedette accanto a lui riprendendo il racconto. – I miei desideri non avevano prospettive, mio padre era uno di quei nobili inflessibili che contavano tanto al tempo, ed aveva un grosso potere decisionale. Durante il ballo, i due ufficiali che erano in compagnia di Vladimiro, ad un cenno di mio padre, lo invitarono ad uscire dal salone delle feste con loro e, per tutta la serata non rientrarono più. Dal grande finestrone notai l’allontanarsi di tre cavalli, ma uno era senza cavaliere, quello di Vladimiro. Mia madre aveva trovato il biglietto nascosto nel mio secretaire, l’aveva dato a mio padre e questi si era vendicato, attraverso il tradimento dei due ufficiali, ed aveva rinchiuso nelle segrete Vladimiro. L’indomani la mia famiglia rientrò a Palermo, mio padre lasciò a guardia delle segrete due sgherri che incatenarono con lunghissime catene i piedi di Vladimiro per consentirgli di uscire all’aperto e nutrirsi di quello che la natura gli offriva, chiocciole e tartarughe. Io seppi della tortura imposta all’uomo che amo e da quel giorno tentai di lasciarmi morire di fame. Rosina mi stava accanto, soffriva quanto me, mi aveva nutrito al suo seno e, quando si rese conto che non era in grado di convincermi a desistere dalle mia volontà, si rivolse ad un vecchio sapiente che abitava un quartiere popolare della città. Raccontò la mia storia ed ottenne una pozione, me la propinò dicendomi che avrei potuto realizzare il mio sogno, a condizione che avrei potuto raccontare la mia storia in una notte di novilunio ad un fanciullo coraggioso ed innocente. Tutti mi avrebbero creduta morta, mi avrebbero seppellito nella cappella di famiglia, ma io ogni notte di luna nuova sarei resuscitata e mi sarei trovata in questo luogo dove visse gli ultimi giorni Vladimiro e dove morì di stenti ed incatenato e si alimentò solo di chiocciole e di tartarughe. – Alessandro tirò un lungo sospiro, prese ambedue le mani della dama e le disse – il tuo racconto è finito, ora scopri nuovamente il tuo viso, voglio fissarlo alla mia mente, tra poco vedremo l’aurora. – La dama bianca si tolse il velo, lo pose al collo di Alessandro e gli disse – questo è tuo, te lo regalo, tutte le volte che lo metterai al collo potrai esprimere un desiderio. – Io ho un grande desiderio, quello che ritornino a casa i miei genitori e che trovino in Sicilia un lavoro – disse Alessandro. In cielo comparvero i primi albori, la dama si alzò, carezzò nuovamente in viso il ragazzo e si avviò verso il pozzo, ebbe ancora un sorriso per il fanciullo che agitò la mano per salutarla. Dal fondo della stradina comparve un cavallo bianco riccamente bardato, montato da un giovane ufficiale, Vladimiro. La dama l’attese, alzò un braccio ed il giovane la tirò a se in groppa al destriero, staccò dal suo petto il medaglione e lo riattaccò alla collana della dama, baciò la sua chioma corvina e spronò il cavallo. Allo spuntare del primo raggio di sole scomparvero dissolvendosi nel nulla, ora, potevano vivere il loro sogno agognato. Davanti all’uscio delle vecchie case, tanti carapaci di tartarughe, accanto al pozzo mucchietti di chiocciole vuote. Alessandro attraversò il varco nella recinzione e ritornò a casa. A pranzo la nonna gli consegnò una busta che gli aveva lasciato il postino, l’aprì, dentro c’era un contratto di lavoro di una grande ditta che offriva una occupazione al padre. Alessandro richiuse la busta, accarezzò la sua sciarpa di velo bianco che portava al collo, se la tolse e la depose piegata nel cassetto del suo comodino. Una settimana dopo rientrarono dalla Svizzera i suoi genitori.


[1] Genere di foraminiferi.

[2] molluschi lamellibranchi estinti che, comparsi nel periodo giurassico dell’era mesozoica, ebbero massima espansione nel Cretaceo.
[3] Bivalvi del Miocene.

sabato 2 luglio 2016

IL SALOTTO DEI RANDAGI - Racconto breve - 02.07.2016 (Riproposizione)





  I Racconti del Borgo

Mario Scamardo
Il salotto dei randagi



Luisa, quarant’anni suonati portati benissimo, qualche relazione sentimentale nel periodo universitario poi, single per scelta. Il suo lavoro, dalle otto del mattino alle quattordici, dal lunedì al venerdì lo svolgeva presso un’azienda municipalizzata della sua città. Non ci incontravamo da mesi, la vidi davanti all’ufficio aprire la sua borsa, tirare fuori una di quelle sigarette secche secche che sembrano mozziconi di cannuccia da succo di frutta, accenderla, tirare una lunga boccata ed espirare il fumo che attraversava i suoi capelli color castano. Mi avvicinai e lei fu cordialissima come al solito, ma sembrava che il suo viso fosse coperto da un velo grigio, non c’era la solita luce negli occhi e, forse, si notava la perdita di qualche chilo. La conoscevo da quando io ero un ragazzo e lei era attaccata al seno di sua madre.
-         Ciao Luisa, è un po’ di tempo che non ci vediamo, come stai?
-         Bene, grazie, e tu cosa fai da queste parti?
-         E’ un caso che mi trovo qui, all’angolo di fronte ho comprato una lampada da tavolo con luce bianca. Se ti va, attraversiamo l’incrocio e pigliamo un aperitivo o, ti invito a pranzo, dietro al bar c’è un ristorantino poco male.
La ragazza si attaccò al braccio:
-         Oggi non pranzi a casa?
-         Ora telefono che non rientro, ti vedo molto tirata in viso, ho notato un velo di tristezza, se vuoi ne possiamo parlare.
Luisa abbozzò un sorriso forzato, poi:
-         Ma si, andiamo direttamente a pranzo.
Sedemmo ad un tavolo ed ordinammo un antipasto ed un secondo. Bella donna Luisa, delle forme perfette, due occhi grandi e luminosi, nel pieno della sua bellezza, traboccante di fascino. La guardavo, carezzandola con gli occhi, e più la guardavo, più quell’alone di tristezza si coglieva.
-         Che ti succede Luisa, cosa ti affligge, ti va di parlarne?
La donna abbassò per un attimo gli occhi, poi:
-         Vienimi a trovare a casa, difficile che nei pomeriggi non ci sia, non amo tanto uscire, e non mi piace neppure guidare in città, ma tu chiamami prima, il mio numero di telefono ce l’hai, ne parleremo seduti davanti ad un caffè.
-         Uno solo? Me ne hai dati tre di numeri, quattro con quello del fisso, mi chiedo sempre come fai a gestire quattro telefoni.
Sorrise Luisa.
-          Non preferisco andare in giro, ma ho tanti contatti, ricevo a casa amici, non sono un animale solitario.
Consumammo il pranzo, e dopo un caffè preso al bar all’angolo ci separammo con l’impegno di rivederci.
            Non fu un pomeriggio sereno, il rimandare il discorso sul suo velo di tristezza mi fece pensare, mi diede anche un pizzico di inquietudine, cosa le era successo? Luisa la conoscevo da sempre, la sua famiglia abitava a tre isolati dalla mia, era una ragazza aperta al dialogo, ed una intelligente osservatrice con grande capacità d’ascolto. Due giorni dopo mi chiamò e mi invitò nel pomeriggio a casa sua. Quando entrai sentii un forte aroma di caffè e i posaceneri del suo salotto erano colmi di mozziconi. Luisa fumava quelle sigarettine sottili, ed anche molte, ma i mozziconi erano di tutte le marche.
-         Accomodati, apro una finestra, in tre si sono fumati un tabacchino. Ho avuto ospiti due amici ed una amica, in due ore ho fatto tre volte il caffè, fiumi in piena che mi hanno raccontato le loro storie. Vuoi tu un caffè?
-         Grazie, lo piglio volentieri.
Scartò una cialda la ragazza, la pose nella macchinetta, aspettò che finisse di uscire il caffè e poggiò la tazza sul tavolinetto assieme allo zucchero, poi sedette sulla poltrona accanto, i telefonini squillarono a turno tutti e lei rispose alle chiamate, poi per non sembrare scortese spense i tre cellulari.
-         Scusami, è sempre così. Mi hai chiesto perché sono triste, lo sono da un po’. Questo mio essere disponibile all’ascolto degli altri, da un po’ di tempo ha fatto parlare alcune persone facendomi mettere in cattiva luce. Mi si appioppano amanti di ambo i sessi e casa mia è stata definita un luogo dove si può incontrare l’amico o l’amante in maniera furtiva ma compiacente da parte mia, insomma sarei diventata una ruffiana, un paraninfo. Tutto ciò mi ha fatto tanto male, e siccome non c’è nulla di più falso, io continuo a ricevere a casa mia chiunque voglia farsi ascoltare. Non ci vediamo da un po’ di tempo e in cuor mio ho pensato che tu, essendo convinto di quanto circola in giro sul mio conto, ti fossi allontanato. L’altro giorno incontrandoci ho capito di essermi sbagliata.
La guardavo fissa, vedevo ondeggiare le sue chiome, muovere le sue mani e le sue labbra. Con naturalezza svuotava il sacco, era lei che aveva bisogno di essere ascoltata. Accese una sigaretta, reclinò la testa sullo schienale e fissò la volta di quel salotto dove campeggiavano affrescati due amorini tra le siepi di alloro. Chiuse gli occhi per un attimo come a voler cercare nei suoi ricordi il prosieguo del suo narrare. C’era qualcosa che Luisa ancora non aveva detto, forse non trovava le parole per esporre, forse la paura di essere giudicata, forse un rimorso che le attanagliava l’anima. Rialzò il capo, inarcò le labbra accennando ad un sorriso, spense il mozzicone e si alzò.
-         Vado a prendere una bottiglia di cognac e porto due bicchieri.
Andò in cucina la ragazza, forse il cognac l’avrebbe aiutata a liberarsi di quanto aveva dentro, poi tornò con due bicchieri, versò il cognac, ne diede uno a me, poi sedette e bevve il suo d’un fiato come dentro ad un saloon dell’antico far west.
-         C’è una cosa che devo dirti, ma non giudicarmi, io non mi sono perdonata.
-         Parlane, se ti va, con serenità. Nessuno ti può giudicare, nessuno ne ha il diritto. Io ti ascolterò e, ove occorra, ti darò una mano.
-         Amico mio, non è facile parlarne, ma ti stimo tanto, quindi, parlerò, nella speranza che serva a farmi elaborare il lutto. Vedi il mio salotto ospita ogni pomeriggio tanta gente, raccolgo le confessioni di trasgressori, di traditi, di delusi in amore, uomini e donne, tanta gente non è riuscita a risolvere i propri problemi, non ha avuto il coraggio di affrontare gli eventi, ne parla con libertà, sapendo della mia estrema discrezione e trova sollievo. Sai, vengono come quei bastardini che cercano un padrone ed io non so dire di no, sembra che io raccolga tutti i randagi e per ognuno preparo una ciotola diversa ma che li solleva dalla fame di attenzioni. Sei mesi addietro conobbi un uomo, molto distinto che si accompagnò ad un’amica e fu mio ospite. Parlando lessi nei suoi occhi un filo di tristezza, fu discreto, per nulla invasivo, senza un dialogo a casa sua dove non regnava il calore umano, trovò a casa mia chi lo ascoltava, chi divideva con lui un caffè e col caffè idee e pensieri. Un giorno telefonò e mi venne a trovare con in mano un mazzetto di ranuncoli variopinti, sedette e, come stai facendo tu, mi accarezzò con gli occhi, la sera cenammo assieme in un ristorantino in riva al mare, passeggiammo sull’arenile ed io presi la sua mano, lui mi cinse e mi baciò lungamente. Quaranta giorni dopo ebbi la certezza di essere in dolce attesa e fui felice. Quell’uomo aveva una sua famiglia, fredda, carente di attenzioni, era succube di una moglie che lo aveva ridotto ad uno straccio, si proprio ad un randagio, ma io non ebbi il coraggio di dire di essere incinta. Ne parlai ampiamente con l’amica più fidata e caddi nell’errore di ascoltarla e di pigliare per oro colato i suoi consigli. Forse non ero preparata a tanto, non ci avevo neppure pensato, ed un pomeriggio una mammana mi liberò della creatura che portavo in grembo. Sulle prime pensai di avere fatto bene, avrei evitato di caricare quell’uomo di ulteriori gravami, poi subentrò il rimorso, che mi rode ancora dentro, un rimorso che nessuno dei miei randagi può aiutarmi a strappare dalla mia coscienza. Il mio umore cambiò, non riuscii ad essere tenera, non seppi più ascoltare e in un momento d’ira gli addossai la colpa dei miei disagi. Giusto? Sbagliato? Non so dirtelo ma odiai quell’uomo e lo misi alla porta, da quel giorno non lo vidi più. La presenza di tanta gente a casa mia mi svia, mi aiuta a non pensare, ma ho una gran voglia di dimenticare, ora son diventata anch’io randagia col bisogno di essere ascoltata.
Non si fermò un attimo nel suo narrare e quel cognac l’aveva forse aiutata a non fermarsi a tirare tutto fuori. Ebbi un attimo di smarrimento, la guardai tutto il tempo quasi estasiato, ed anch’io l’avevo accarezzata con gli occhi.  Riempì ancora i due bicchieri e porgendomene uno:
-         Forse non ho dimenticato nulla, ma ti prego non giudicarmi, aiutami ad uscire dal tunnel del rimorso.
Bevvi d’un fiato, poi tirai dal taschino la mia pochette e gliela diedi:
-         Asciuga i tuoi occhi, il pianto aiuta qualche volta, ma non risolve alcun problema. Non ti giudicherei mai, ma devo trovare la forza ed il tempo per aiutarti a scaricare l’enorme fardello. Luisa, permettimi di metterti al guinzaglio e di portarti fuori da qui. Anch’io ho una famiglia, ma piena di calore e di buonsenso, saprò spiegare.
-         Cosa vuoi che faccia.
-         Pigliati un po’ di giorni di ferie, usciamo dal tuo salotto, rechiamoci in un posto dove proverai a dimenticare o, quantomeno, a trovare una ragione per quanto ti è accaduto. Se ti fidi di me, sarò la tua ombra fino a quando non vedrò cadere il velo di tristezza che ti copre il volto, poi, in punta di piedi, mi allontanerò e tu potrai ritornare a dar conforto a quanti te lo chiederanno. Luisa, so che sei generosa, so che ti preoccupi per gli indigenti, che aiuti alcune famiglie nel bisogno, si dice questo di te, e so che non hai risparmi perché doni incondizionatamente agli altri. Penserò a tutto io, quando sarai pronta mi avvertirai, verrò a prelevarti e andremo in giro per dimenticare.
Luisa si alzò, girò dietro la poltrona, mi cinse e mi baciò sulla fronte. Mi alzai e mi avviai all’uscio, aprii la porta ed imboccai le scale.
            Furono tre giorni tristi, provai a ripensare alla sua confessione, analizzai parola per parola. Quella donna, col salotto sempre pieno di gente era sola, sola con se stessa, con i suoi rimpianti, con i suoi rimorsi, e quello che non aveva capito era l’estrema solitudine in cui era immersa. La solitudine, una gran brutta malattia, che fa male, che consuma senza che ce ne si accorga. Una solitudine che porta alla malinconia, malattia ancora peggiore! Luisa, ancorata al suo salotto, non aveva più fantasia, non cavalcava più sogni! Non c’è uomo che non abbia un sogno, i cani randagi glieli avevano portati via, l’avevano sbranata, era rimasta un vegetale che sopravviveva alla sua testardaggine di voler donare ad ogni costo una pace a chi non l’aveva, una serenità, una rassegnazione. Nobile scopo, ma che l’aveva consumata! Non la chiamai, pazientemente aspettai, finalmente mi disse che era pronta, aveva preso due settimane di ferie. I tre giorni di solitudine non le fecero trovare una soluzione, se ne avesse avuto la forza avrebbe trovato una scusa per non impegnarmi, ma non la trovò, ciò mi diede la netta sensazione che era in balia degli altri. Quando salì in macchina sorrise, e mentre sistemavo il suo borsone nel cofano lei prese i suoi cellulari dalla borsa, li spense e li depose nel bauletto portaoggetti.
-         I telefoni non mi servono. Dove andiamo?
-         Ti piace il mare o la montagna? Una città d’arte o qualcos’altro?
-         Fai tu, ma preferisco il mare se piace pure a te.
-         Luisa, anch’io preferisco il mare, anche se è primavera.
-         Portami dove c’è tanta battigia da calpestare e dove c’è tanta gente.
Lunghe passeggiate sull’arenile, ristorantini sul lungomare, piazze affollate, locali con musica, qualche escursione e poche parole, furono una buona medicina per Luisa che ritrovò un po’ di ilarità. Una mattina mentre facevamo colazione in un bar davanti alla cattedrale, Luisa mi chiese se potevo aspettarla, il tempo giusto di entrare in chiesa. Comprai il quotidiano e, seduto ad un tavolo, lo sfogliai, mi servì per ingannare il tempo, ma lessi una decina di articoli, guardai l’orologio erano passate quasi due ore, finalmente la ragazza uscì sul sagrato in compagnia di un sacerdote, mi fece un cenno con la mano e li raggiunsi, lei si scusò del ritardo, mi presentò l’anziano sacerdote, quindi lo salutò ringraziandolo ed insieme raggiungemmo l’arenile. Non una parola, non un accenno, si tolse le scarpe e si mise a correre sulla battigia. Seduto su un muretto l’aspettai, mi abbracciò e con gli occhi sorridenti mi disse:
-         Grazie, senza di te mi sarei persa in una giungla senza uscita. Andiamo, voglio ritornare a casa.
Mi prese per mano ed andammo a ritirare i nostri borsoni in albergo. L’aspettai alla ricezione, la sua camera era al piano superiore, ma quando la vidi era diversa, truccatissima, in pantaloni aderenti ed una maglietta rossa. Mi prese per mano ed andammo verso la macchina. Alla prima rivendita di telefonini mi fece fermare, tirò un documento dalla borsetta ed il codice fiscale, richiese una nuova scheda telefonica ed uscì. Appena in macchina tirò fuori dal bauletto i tre telefonini, tirò fuori le schede e le piegò rendendole inservibili, scelse uno dei tre, vi inserì la nuova scheda e lanciò in mare gli altri due.
-         Dammi il tuo numero di telefono, e segnati il mio, il passato l’ho spezzato, era in quelle vecchie schede, cambierò la tappezzeria al mio salotto e lo disporrò diversamente. Tu pensi che sia un bene?
Quella domanda mi ammutolì per un attimo, io non avevo nessun diritto di scegliere per lei, né di dare giudizi e tantomeno consigli, ma dovetti rispondere:
-         Luisa, credo tu non sia più un randagio, ora sai cos’è giusto e cos’è errato, sei ritornata padrona di te stessa, delle tue emozioni, delle tue scelte. Io sono stato solo un mezzo, ed ancora lotto con la mia mente confusa.
Il macigno che aveva in corpo l’aveva scaricato in quel dialogo col prete, aveva sciolto tutti i collari, aveva buttato tutti i guinzagli, anche il suo, ritornando la Luisa di sempre.




Se vi va... lasciate un commento!