lunedì 26 settembre 2011

BORGO SCHIRO' - Racconto breve

























Le favole si scrivono per i bambini...ma a leggerle sono di solito i grandi. A volte, servono piu' ai grandi che ai piccini ! ...





                                                      Borgo Schiro'




Mario Scamardo










I Racconti del Borgo







“Ho cercato di sfuggire al fantastico,
         ma mi ha subito riacciuffato”

                           (Adolfo Bioy Casares)





Premessa

La forza che crea, come una nuova vita, una realtà fantastica, un mondo di figure, di fatti, di immagini, di sentimenti, di affetti, è l’Arte, e li esprime in modo che questa nuova vita, questa nuova realtà esista per tutti coloro che possono comprendere l’opera più bella.
I narrati esprimono i mondi interiori dell’artista per mezzo del linguaggio.
Morale, verità e bellezza sono campi diversi ma non assolutamente separati, quindi, si può essere, contemporaneamente, nobili coscienze e grandi anime di artisti ed il vero ed il buono possono assumere le forme dell’arte.
Parlare ai ragazzi non è certo facile. Creare eroi, miti, leggende, fatti gloriosi della gente e dire nello stesso tempo ciò che essi hanno nell’anima, solleva i loro cuori, eccita nei loro spiriti la fede, l’amor di patria, accende i grandi valori, insegna la santità del lavoro, li addottrina  alla coscienza religiosa, tolleranza, fratellanza, giustizia, equità, libertà, coraggio, umiltà.
Chi scrive obbedisce alla sincerità dei propri impeti interiori, pensa e medita la propria creazione, ha intera coscienza della propria opera e degli ideali a cui mira. Assai spesso, esprimendo ciò che ferve nel suo animo, diventa  inconsapevolmente, maestro di vita ed eccitatore di magnanimi sensi. Parlando ai ragazzi, si è sempre colti dal dubbio di sbagliare, di dare loro un messaggio non corretto, e ritorna sempre la voglia di capire se, prima di comunicare, si è stati capaci di appendere ad un chiodo i propri orgogli, le proprie simpatie o antipatie, le proprie frustrazioni, i propri pregiudizi, ma soprattutto le proprie passioni.
Aiutare i bisognosi, promuovere l’amore verso il prossimo è un’opera che trascende il tempo. Bisogna chiedersi allora se i giovani siano bisognosi, certo che si, lo sono, loro hanno bisogno di comprendere, di penetrare, di digerire principi, valori ed ideali nobili, affinché la società del domani sia migliore, e loro, nel tempo, trasformandosi in lievito, possano divenire i portatori dei principi di cui si sono nutriti.
L’imperativo di base della vita morale è: <<sii te stesso!>>.
Ciascuno di noi è se stesso quando realizza coerenza piena tra pensare ed agire, tra i principi interiori della coscienza e i rapporti di ogni giorno col prossimo.
L’uomo diviene compiutamente se stesso non isolandosi, ma rendendosi disponibile verso gli altri. I ragazzi potranno essere guidati ad impegnarsi giorno per giorno, a realizzare i migliori rapporti con quanti li circondano, rapporti ispirati alla disponibilità, alla capacità di amare gli altri. Il racconto, con la sua morale, è capace di promuoverne la formazione che li guida a rendersi pienamente disponibili nella vita scolastica ed extra, a superare egoismi, invidie, atteggiamenti di indiscrezione ed assumere costanti e coerenti atteggiamenti non solo di collaborazione, ma altresì di impegno per migliorare se stessi nel rapporto con gli altri.
Il racconto di fiabe e storielle si affida al potere evocativo della parola che innesca nella mente di chi ascolta la rappresentazione. I personaggi esprimono la volontà di continuare a battersi in quella che è stata definita “la più invisibile delle guerre invisibili” che con i nostri ideali, sosteniamo dentro di noi più che fuori. Non a caso i personaggi delle favole costituiscono un umile ma tenace segno di contraddizione e di resistenza rispetto alla logica della rassegnazione e del peggio, che è di tanta cultura e letteratura di “vinti”. Gnomi, folletti, fate, elfi, ci aiutano a capire il Grande Teatro del Mondo, dove si è sin dalla nascita “agiti”, giusta l’idea pirandelliana secondo la quale siamo tutti “pupi” (marionette, burattini, maschere, ombre), animati dall’onnipotente Spirito divino, che è nel cuore di tutti gli esseri e tutti agita al ritmo incalzante del tempo, col potere della “meraviglia”.
Con le favole, i racconti, le storielle, possiamo aprirci un varco verso quel po’ di libertà che si può conseguire nella recita “a soggetto” del sacro canovaccio del destino, e affrontare il pathos dell’esistenza in un “catartico” gioco di arte e poesia.

                                                     L’autore


Borgo Schirò

(Borgo rurale  in agro di Monreale, realizzato in periodo fascista per avvicinare i coloni ed i contadini alla campagna).




Chiusi gli occhi adagiato sulla poltrona accanto al televisore spento da poco. Un sogno strano si impadronì di me, fatto di immagini che, come in un vecchio documentario, mi passarono davanti e, come quarant’anni prima, mi ritrovai davanti alla clinica dove mia moglie aveva partorito mio figlio, il mio unico ragazzo, oggi un uomo. Provai la stessa emozione di allora, mi sentii d’un tratto pieno di responsabilità. Dal nostro amore era nata una nuova vita, una nuova pietra da offrire squadrata al mondo e, sentii il gravame del dovere di educarlo, di crescerlo, di formarlo, per poi cederlo al mondo, alla società.
  Il sogno, con la sua celerità, me lo fece vedere già adulto, capace di autodeterminarsi, allora mi tornò alla mente una grande riflessione fatta ad alta voce con la compagna della mia vita: “I figli non sono proprietà privata, ci appartengono fin quando non sono in grado di camminare con le loro gambe, poi, dobbiamo soltanto continuare ad amarli e a rispettare le loro idee, le loro volontà, i loro orgogli, i loro desideri...”, guardai negli occhi mia moglie, vidi le sue gote solcate da due lacrimoni e colsi il suo assentire col capo.
  Il sogno, come d’incanto, mi trasportò indietro nel tempo e mi vidi ragazzo, ritto davanti a mio padre che intrecciava un cesto di vimini con quelle sue grandi mani callose che testimoniavano tutte le sue fatiche, ma erano mani leste, con movimenti armoniosi, come quelle di un pianista. Non avevo mai parlato tanto con mio padre, era un uomo di poche parole, tutto quello che mi aveva insegnato lo aveva fatto col suo comportamento, con l’esempio, con i suoi sorrisi appena accennati, anche quando i suoi raccolti andavano a male, con la pazienza con cui accudiva alle bestie, con il carisma che aveva in famiglia. Mi svegliai, avrei desiderato non finisse mai quel sogno, ma una grossa pendola, posta in un angolo, battè, con la cadenza di sempre, le ore.
  Mio figlio entrò nella stanza in punta di piedi e, vedendomi sveglio, mi pose davanti al ricordo di Borgo Schirò, un borgo rurale nell’agro monrealese, tra San Cipirello e Corleone, dove ero venuto al mondo e cresciuto. Coincidenza strana che mi impressionò non poco, come se qualcuno avesse precedentemente voluto, con quel sogno, prepararmi al dialogo col mio ragazzo. Uno strano tuffo nel passato della mia formazione, dei miei ricordi più cari, degli affetti mai trasferiti all’oblio. Volontà superiore o coincidenza alquanto raccapricciante?
  Il mio ragazzo mi chiese se ricordavo com’era fatto, visto che erano passati circa quarant’anni da quando mi ero trasferito in città e, precisamente quando lui, oggi ingegnere, intraprese gli studi liceali. Al perché di quella domanda volle spiegarmi il motivo della nascita del borgo, legata ad una delle negatività meridionali, la condizione fisica del territorio e la disamina degli elementi costituenti tale negatività: climatici, pedologici, ideologici, idraulici, igienici. Tali elementi negativi rallentavano ogni possibile maggiore intensivazione produttiva, quindi, bisognava che quest’entroterra subisse le trasformazioni dovute per la sua ottimizzazione economica e civile.
  Borgo Schirò, costruito in epoca fascista, era nato per avvicinare i coloni ed i contadini alla campagna, far si che i loro nuclei familiari potessero contribuire in maniera più fattiva allo sviluppo economico di un vasto bacino, ricco d’acque ma non regimentate, ricco di fertilità ma poco messo a coltura, servito da parecchie vie di comunicazione ma completamente spopolato, carente delle grandi infrastrutture. La sua giacitura è da considerare ottimale, in funzione del microclima, dell’esposizione, della natura del terreno e della posizione geografica, certamente lontano dalle grandi aree urbane ma non tanto da poter raggiungere, con non lunghi spostamenti, le vie ferrate di Corleone e Partinico, le vie d’acqua di Palermo e Marsala, e la fitta serie di strade carrabili che si snodavano tutte attorno. Il borgo era stato organizzato affinché i coloni, accomunati in una grande famiglia, potessero non soffrire della mancanza dei servizi indispensabili quali quelli dell’acculturamento di base, del servizio di medicina di base, dei servizi d’approvvigionamento alimentare e della possibilità di dedicarsi al culto del proprio spirito.
  Quando mio figlio capì che in me era covata la nostalgia di rivedere il posto, la dove mio padre mi aveva condotto ancora in fasce e dove la mia compagna aveva concepito il mio ragazzo, non esitai un attimo a mettermi in macchina ed a raggiungerlo. Affioravano di già i ricordi di buona parte della mia esistenza, e quel sogno premonitore sollecitò la mia mente.
  Il viaggio da Palermo mi sembrò tanto lungo, ma durò effettivamente meno di un quarto del tempo che avevo impiegato quarant’anni prima per fare il percorso a ritroso. La macchina si fermò cinquanta metri prima dell’ingresso ed io, a piedi, m’incamminai verso il centro della piazza.
  Ploff... ploff... ploff... la vecchia cannella usurata dal tempo versa le sue antiche lacrime ferruginose nell’abbeveratoio ricoperto in mattoni rossi, in perfetto stile littoriano. Poche stille, che continuano a perforare, in fondo alla vasca, un antico cote  postovi per preservare la stessa dall’azione meccanica dell’acqua, dove si muove sinuosa una sanguisuga e dove un rospo bitorzoluto allunga la sua lingua per ghermire una incauta mosca che gli ronza attorno.


  Vorrei assaporare quell’acqua che non c’è più, mentre il fruscio degli eucalipti mi trasporta lontano nel tempo, prima ancora che il mio volto fosse solcato da pesanti rughe testimoni del suo scandire, prima che le mie dita diventassero aggrinzite e le mie ginocchia non sentissero il peso di un’età tarda ed il bisogno di essere aiutate da una verga di frassino piegato, che prima di me accompagnò, nell’ultimo tratto del suo percorso, mio padre. Teresa, la pecora che mi era stata compagna di giochi era lì, assieme a tante altre, a brucare gli ultimi ciuffi d’erba e, quando con emozione la chiamai per nome, scosse il capo e sentii il suono della campanella che portava al collo: - perché sei tornato – mi disse e, quasi a volermi guidare, si avviò verso la scuola. La seguii passo dopo passo per un cammino che mi era noto, sentii la leggerezza delle mie gambe e la scioltezza dei miei movimenti, ed affiorò alla mia mente quell’auletta candida pitturata a calce con altissimi banchi neri di guareschiana memoria, la grande finestra illuminata sul verde arrossato dai fiori di sulla, la cattedra austera e dietro di essa la prima persona che amai dopo mia madre, la mia maestra.
Teresa scosse la testa ed il campanellino, che io stesso le avevo messo al collo quando era solo un’agnellina, tintinnò. Guardai più avanti, lì, dove c’era il posto di guardia medica, dove due giorni la settimana veniva il medico con il suo camice bianco e portava con se una grossa scatola di legno con tanti piccoli scomparti: aghi, siringhe, bende, flaconi, fiali, bottiglie. Teresa mi venne accanto e mi sussurrò: - Il dottor Guido, che era anche speziale e veterinario, ci vaccinò tutti e due, ricordi?... ed entrambi, presi da gran timore, provammo una grande sofferenza e fuggimmo tra i campi rincorsi da Nino, il barbiere, che era anche infermiere e sacrista.-



Teresa mi aveva riportato alla vita del borgo ed io le chiesi: - per te il tempo non è passato, sei rimasta tale e quale, ti isoli dal gregge come facevi allora, pascoli da sola, poi, attenta, ascolti il trillare dei grilli ed il frinire delle cicale, proprio come facevamo un tempo. Ma chi ti accarezza quando viene il buio, prima di addormentarti?... e quanto tempo è passato da quando ci siamo lasciati?... – Teresa mi guardò con la tenerezza dei suoi occhi profondi, poi, con voce pacata disse: - nel borgo il tempo non è più un parametro, l’orologio si è fermato e, come in quell’istante, tutto si è fermato, tranne i ragni che incessantemente tessono le trame dei loro inganni, e le tarme, che rodono il legno delle travi tramutandolo in polvere. Il borgo, senza che sembri un paradosso, continua a vivere la propria morte. –
Il vento alita a folate e trasporta nell’aria polline e polvere, antichi odori di un tempo andato; di tanto in tanto una finestra sbatte ed un geco, assolato, al suo rumore si sposta repentino sulla murata della vecchia casa ingiallita dal tempo. Una folata più impetuosa fa dondolare il vecchio batacchio di una campana da anni ammutolita, posta in cima al campanile e il successivo soffio fa si che un rintocco si sente nell’aria, dolce suono amico dell’età infantile. Rocco, il vecchio cane, sdraiato sul sagrato alza la testa e mi dice: - sei tornato, fra poco comincia la lezione di catechismo... tutti tornate ogni tanto, poi... andate via... via... - adagiò la sua testa sulle zampe anteriori e riprese la sua vita da cane. Chissà perché non riesco a separare il presente dal passato, chissà perché rivivo momenti di un tempo così remoto, quando le mamme affaccendate in mille lavori trovavano il tempo per cullare noi bambini e raccontarci le fiabe, mentre ci addormentavamo fra le loro braccia, stretti ai loro seni come le api tra la cera.


  L’avvento del primo trattore sferragliante fece riunire i nostri padri attorno ad esso e tutti imparammo, col tempo, ad usarlo, a coltivare sempre più superfici, e diventammo grandi noi ed incessanti le vendemmie, enormi ragazzoni noi ed enormi cataste di covoni pronti per la trebbiatura, e poi costruirono grandi strade e tutti vedemmo invecchiare le nostre mamme...
  Il borgo aveva avvicinato i coloni alla terra, aveva permesso piccole comodità, aveva consentito a noi di pensare che bisognava non solo alfabetizzare i nostri figli, ma bisognava che anche loro diventassero geometri, avvocati, agronomi, ingegneri, contabili, medici e farmacisti. Il borgo diventava allora piccolo, insufficiente, distante dalle università, lontano, molto lontano dalla “cultura”.
  Del borgo nessuno più si curava e, mentre le tecnologie galoppavano portando altrove sempre più evoluzione, esso borgo, romanticamente, sognava e viaggiava in senso inverso rispetto al progresso.
  Teresa cercò le mie mani, leccò le mie dita, poi, poggiando la testa sulle mie ginocchia disse: - sono rimasta nel borgo, e tutti i giorni alla stessa ora sento, prima il battere della mazza sull’incudine del maniscalco, poi, all’imbrunire, il calpestio dei muli sul basolato, poi ancora, lo scandire delle ore dell’orologio del campanile e il rumore dell’acqua che muove le pale del mulino, e sento ancora il vento accarezzare le cime degli alberi per farli addormentare al sopraggiungere delle ombre. Sento il vecchio batacchio ricoperto di verderame battere il tocco e ti vedo assieme agli altri bambini uscire dalla scuola per far merenda sul prato... sentili, socchiudi gli occhi... guarda te stesso, là, sull’ultimo gradino della scuola, guardati, stai scendendo lentamente, sei il più piccolo!... – Quasi con terrore ma con grande bramosia rividi i miei compagni in grembiulino nero e colletto bianco con enormi fiocchi azzurri ed in fondo al prato Ercole, il bove che pascolava, e Ciccio, l’asino del bidello era all’abbeveratoio. Distesi le mie braccia in direzione di mia madre che mi veniva incontro portando con se una cesta di pane appena sfornato, ne risentii il profumo, l’odore di casa mia...


  Come svegliatomi da un sonno mi guardai attorno, le mie ginocchia cigolavano ed ebbi nuovamente bisogno del mio bastone di frassino per appoggiarmi, le mie mani tornarono ad essere rattrappite e non sentii più il fruscio degli eucalipti.
L’ultimo atto della commedia della mia vita era in itinere, qualcuno era pronto a tirare il sipario. Quel viale che un attimo prima m’era sembrato lungo ma che avevo percorso in fretta si era, come per incanto, accorciato. Chiusi gli occhi e capii le parole che Teresa m’aveva detto: - nel borgo il tempo non è più un parametro, l’orologio si è fermato, tutto si è fermato, tranne i ragni che incessantemente tessono le tele dei loro inganni... - Il mio sogno e la mia fantasia mi avevano riportato indietro nel tempo, nel mondo dei ricordi, in un passato che non può più ritornare se non nel sogno. Stropicciai gli occhi  e tirai un lungo sospiro. Il batacchio, spinto dal vento, fece rintoccare la vecchia campana ricoperta anch’essa di verderame e spalancai gli occhi, davanti a me, come madre addolorata, la vecchia cannella versava le sue lacrime ferruginose facendole cadere sul cote dove il rospo bitorzoluto ghermiva con la lingua le sue mosche. Il borgo andava a brandelli come gli ultimi giorni della mia vita.















lunedì 19 settembre 2011

Chi sono,

Mi chiamo Mario Scamardo, sono nato e vivo a San Cipirello in provincia di Palermo. La vocazione per le attivita' artistiche e letterarie, l'ho avuta sin da ragazzo. Sin dalla meta' degli anni '70 ho dato vita al gruppo teatrale "Le maschere Jatine", operando per oltre un ventennio per la rinascita del teatro dialettale. Ho scritto la farsa in tre atti Tringuli minguli avugghi e spinguli, l'atto unico A fuitina e le commedie U 'ncucchiaviddichi (due atti) e A fattura (atto unico). Nel 2002 ho pubblicato la silloge dialettale Li me savuti a muntuni e in lingua, in coautoria con Sara Riolo I pregiudizi delle lune d'argilla (2003), nel 2005 la silloge in lingua Lettera ad una principessa. In prosa ho scritto in coautoria con Sara Riolo Il favoliere: Cucu' e le sue storie. Ho contribuito nel 2008 alla realizzazione del testo Musica dai Saloni edito dall'Assessorato dei Beni Culturali e Ambientali e della Pubblica Istruzione della Regione Sicilia, con prologo di Andrea Camilleri.Nel 2010 ho pubblicato I semi del melograno nano ed. NOVECENTO.  Ho collaborato con la rivista " La Sicilia ritrovata " ed. Giuffre'. In campo teatrale, ho anche operato come consigliere di amministrazione del teatro stabile " Biondo " di Palermo.
Dal 1985 agli anni '90 ho partecipato alla vita politica palermitana come consigliere provinciale e assessore all'agricoltura. ho insegnato per 35 anni all'Istituto Superiore "Ettore Maiorana" di Palermo.In atto presiedo l'enopolio siciliano "Castel di Maranfusa".