giovedì 19 dicembre 2013

IL FOLLETTO DELLA ROCCA DI MARANFUSA



"Per ogni uomo giusto, ogni giorno è Natale." 

Dedicata ai bambini, nella consapevolezza che le favole le leggono i grandi. La favola è il regalo che un bambino non dimentica mai e lo accompagna tutta la vita, sia col suo narrato che con la sua morale.





Il folletto della Rocca di Maranfusa

(Tratto da: Il Favoliere – Cucù e le sue storie
di Mario Scamardo e Sara Riolo – edizioni ila palma) 

PONTE DI CALATRASI E ROCCA DI MARANFUSA

            Seguendo il corso del fiume Belice dalla sorgente alla foce, a metà strada circa, Ugo de Moncada, viceré di Sicilia durante il regno di Carlo V di Spagna, volle fermarsi per ammirare la bellezza del ponte di Calatrasi, costruito a schiena d’asino dagli arabi, che consentiva il passaggio dall’una all’altra sponda di carrozze e cavalli e l’opportunità di raggiungere la Rocca di Maranfusa, dove superbamente svettava ancora quanto era rimasto delle torri di un enorme castello fortificato.
            Nessuno del seguito osò chiedere perché le carrozze non avessero continuato la marcia per la città di Sciacca. Conosciuto il carattere un po’ scontroso del viceré, lasciarono che lui decidesse sul da farsi, mentre il sole era già arrivato allo zenith e le ombre tendevano ad allungarsi. Fu chiaro che, così come avevano fatto disporre le cinque carrozze e i quattro carri dei bagagli e delle masserizie, era sua intenzione di far passare la notte nei pressi del castello di Maranfusa.

CASTELLO DI MARANFUSA


            Prima che si facesse buio furono approntate le tende, disposti i turni di guardia e accesi tanti fuochi da far sembrare le vestigia dell’antica fortezza animati da chissà quante presenze, per il movimento delle mille ombre. Sui ceppi accesi furono improvvisati decine di spiedi e furono sturati barilotti di vino al miele. Il viceré li riceveva ogni anno in omaggio dal vescovo di Monreale, per le gabelle dei feudi di Jato, della Chiusa, della Signora, dei Mortilli.
            Finite che furono le libagioni, alimentati i fuochi, Ugo de Moncada volle che tutti si riunissero ad ascoltare da Rosario Balsamo una storia che lo aveva incantato, la storia del folletto della rocca di Maranfusa.
            Rosario, cocchiere del viceré, era suo amico d’infanzia, uno che sapeva starsene al posto suo. Il padre e il nonno avevano fatto sempre i cocchieri personali dei rampolli della famiglia Moncada, conoscevano le loro abitudini e pure certi loro piccoli segreti.
            Postosi accanto al suo signore, guardò tutt’intorno e cominciò il racconto.
            “Era una serata buia, piovigginava e il vento sibilava facendo sollevare le bionde criniere dei quattro sauri attaccati alla carrozza di don Pietro Baamonte, zio materno di sua altezza reale, eravamo di ritorno dal castello della Sambuca e la strada non consentiva di procedere spediti, un po’ per le pozzanghere, un po’ per la mota che talvolta sfiorava i mozzi delle ruote. Sentii bussare a cassetta e tirai le redini, chiesi a sua eccellenza quali fossero i suoi desideri. Lo vidi spossato per il viaggio faticoso.
            Don Pietro si sporse dal finestrino, scrutò l’orizzonte mentre si caricava di nubi rossastre e mi disse: <<Rosario, figliolo, il tempo non promette nulla di buono, il fiume potrebbe ingrossarsi, al ponte di Calatrasi passa sull’altra sponda e portami lassù, sulla rocca di Maranfusa, là aspetteremo che si faccia giorno e con le prime luci dell’alba ripiglieremo il viaggio per Palermo.>>
            <<Eccellenza,>> risposi, << ma sulla rocca ci sono solo ruderi, e il vento soffia ancora più forte, non c’è riparo, e non c’è anima viva che possa offrirvi un caldo giaciglio.>>
            <<Rosario,>> mi rispose, <<le nubi all’orizzonte sono rossastre, è buon segno, appena sarà buio il vento si calmerà e anche se dovesse piovere stanotte, domani sarà una giornata assolata. Vedi, figliolo, la Sicilia ha questo pregio, qui piove mentre splende il sole, gli inglesi se le sognano queste cose …>>
            <<Come vuole voscenza,>> risposi. Diedi due manate sulla mia palandrana per spazzare gli schizzi di fango accumulati durante il percorso, calcai la feluca inzuppata e salii in cassetta. Al primo schiocco di frusta i quattro sauri si misero al passo e, superato il ponte arabo, iniziammo la salita verso il vecchio castello.


            Giunti che fummo a Maranfusa, accostai la carrozza sotto la murata di un torrione, scesi da cassetta, e mi premurai di aprire e di abbassare la scaletta per far scendere don Pietro (soprattutto per i suoi bisogni corporali, data la veneranda età).


            Il vento si era man mano attenuato e non piovigginava più. Raccolsi un po’ di sterpi e legna, accesi un fuoco e tirai dal bagagliaio il cesto delle vivande ed una fiasca di vino rosso.
            Don Pietro Baamonte mi invitò, come aveva fatto altre volte, a dividere con lui il pasto, davanti al fuoco consumammo buona parte delle scorte. Alzatomi per prelevare le coperte dalla carrozza, fui attratto dal movimento rapido di qualcosa, pensai fosse una lepre, ma le lepri non possiedono minuscole braccia e non calzano berretti rossi … Un essere piccolo e veloce mi passò davanti come un fulmine, stentai a seguirlo con lo sguardo e non potei fissare la sua immagine nella mia mente, ebbi quasi paura.



            <<Eccellenza,>> esclamai, <<sarà la stanchezza o il vino, ma un essere piccolo e buffo con un berretto rosso salta rapido di pietra in pietra … Io non riesco a seguire i suoi movimenti. Si muove come una saetta, sembra voglia prendersi gioco di me.>>
            Il vecchio saggio si alzò, mi venne accanto, senza stupirsi per la presenza di quell’esserino buffo e saltellante, e sussurrò: <<Rosario, non aver paura, quelle che si raccontano per leggende, talvolta si rivelano verità. A Maranfusa è sepolto un tesoro, a guardia c’è un folletto dal berretto rosso, e saltella senza soste per far si che nessuno possa seguirlo e si stanchi di cercare il suo tesoro.>>
            Pensai che don Pietro volesse burlarsi di me e gli chiesi: <<Eccellenza, come sapete voi queste cose, e poi, chi volete che seppellisca un tesoro tra queste rovine? Signore, io sono ignorante; se vi fa piacere, burlatevi pure di me.>>
            Quell’essere saltellante non mi diede pace, fino a quando gli occhi mi si stancarono nel seguirlo tra le rocce
 

            <<Rosario,>> riprese il mio padrone, <<c’è un modo per venire in possesso del tesoro, tu devi essere più rapido del folletto; con una mossa fulminea devi strappargli il berretto; allora egli si fermerà sul posto dove è nascosta la pignatta colma di monete d’oro. Sii come un fulmine, ghermisci il suo berretto rosso e gli strapperai il segreto!>>
            E si alzò per andare a riposare in carrozza, invitandomi a dividere con lui l’abitacolo per la notte.
            Seguii ancora per un po’ i guizzi del folletto, poi mi addormentai.
            L’alba arrivò presto e il sole si levò piano piano nel cielo. Riattaccai i cavalli e svegliai il mio padrone. Pronti che fummo per partire, il folletto spuntò di nuovo a saltellare davanti a me e con le piccole mani mi lanciò due monete d’oro che tintinnarono ai miei piedi. Le raccolsi, le osservai sul palmo della mano: sul dritto era coniata una mezzaluna, sul rovescio una scritta araba. Salii in cassetta e, tirate le redini, i sauri ripresero il cammino, prima in discesa verso il Belice e poi verso la capitale.
            Giunto a Palermo, rinfrancato da una buona minestra e da alcune ore di sonno, ripresi fra le dita le monete e mi tornò alla mente il folletto, non più grande di una lepre, col suo berretto rosso e la barbetta brizzolata. Ripensai alle parole del mio signore, forse non si era burlato di me, le due monete ne erano la riprova. Salii lo scalone del palazzo e vidi in fondo alla biblioteca sua eccellenza assorto davanti ad un grande tomo. Con le monete in mano chiesi permesso, mi chinai con riverenza, e il vecchio saggio mi invitò a sedere dinanzi a lui. Accostai la sedia, mi accomodai mostrandogli i due pezzi d’oro e raccontai che il folletto me li aveva lanciati prima di salire a cassetta.


            Sua eccellenza non si mostrò incuriosito, prese le due monete, guardò dritto e rovescio e me le pose in mano dicendomi: <<Sei fortunato, adoperale per fare un’opera buona, il folletto potrebbe ripagare cento volte il tuo atto di amore …>> Abbassò gli occhi sul tomo ed io, scostandomi dal tavolo e in punta di piedi, uscii dalla grande sala dei libri. “
            Terminata la narrazione, Rosario Balsamo incrociò lo sguardo col viceré e capì che poteva sedersi anche lui davanti al fuoco.
            Stupiti, tutti i presenti cominciarono a commentare tra loro la storiella del folletto, e i discorsi pian piano si fecero sempre più accesi. Tutta la rocca fu invasa da un intreccio di voci. Sembrava un racconto fantastico e qualcuno pensò che il viceré, un po’ buontempone, servendosi del fedelissimo cocchiere, si divertisse a far stupire il suo aristocratico seguito.
            <<Bravo, bravo!>> apostrofò qualcuno rivolgendosi a Rosario. <<Abbiamo sentito una bella favola … Ma a che serve?>> E una dama sdraiata su una coperta scozzese: << Sua eccellenza non poteva scegliere di meglio per allietare questa serata, ma dite un po’, Rosario: avete ancora quelle monete? Potete mostrarcele, o avete seguito il consiglio di darle a un mendicante?>>
            Rosario non rispose, toccò il taschino della sua palandrana e sentì sotto le dita le due monete, sapeva a cosa gli servivano, il suo cuore le aveva promesse alla sua nutrice per i giorni più bui della vecchiaia, e la sua tasca le custodiva come uno scrigno.
            Il viceré si alzò in piedi, fece un riverente inchino a tutte le dame e si ritirò sotto la sua tenda in compagnia dei servitori.
            Rosario attese che tutti si fossero ritirati per la notte e dopo avere alimentato i fuochi si recò a carezzare i suoi cavalli, sistemò poi accanto ad un architrave del vecchio maniero un po’ di paglia, si sdraiò e si tirò addosso una coperta di lana.
            Le stelle nel cielo tremolavano, le sagome dei cavalli si intravedevano a stento, non c’era la luna, si udiva lo scoppiettare degli ultimi ceppi e il gorgoglio lontano dell’acqua del fiume sui ciottoli. Di tanto in tanto, un ranocchio mandava il suo richiamo amoroso, a mille a mille i grilli trillavano, quasi scandissero il tempo. Le palpebre di Rosario stavano per chiudersi quando qualcosa si posò improvvisa sull’architrave: forse un uccello notturno, pensò il giovane; alzò lo sguardo e con sua meraviglia vide il folletto dalla barba brizzolata e il berretto rosso che lo fissava negli occhi.
            Il cuore gli battè forte e il sangue gli salì alle tempie. Nella mente gli balenò l’idea di strappargli il berretto, ma mosse la mano sulla tasca della palandrana per controllare le due monete riservate alla sua balia. <<Che le rivoglia indietro?>> pensò, e quando fu sul punto di chiederglielo, il folletto gli fece segno di tacere e gli disse sottovoce: <<Le monete che ti ho regalato sono tue e non devi rendermele. Un poco di buono le avrebbe giocate ai dadi o le avrebbe consumate nelle osterie, tu le hai conservate per un fine nobile ed io voglio premiare la nobiltà del tuo cuore. Alzati e seguimi …>>
            Il folletto saltò fulmineo di sasso in sasso, zigzagò per tutta la rocca come una saetta, tanto che a stento Rosario potè stargli dietro, poi si fermò su di un macigno e spettò di essere raggiunto. << Mio giovane amico, non portarti via il mio berretto rosso. Se tu lo facessi, io sarei costretto a rivelarti dove si trova la pignatta col tesoro. Tutto quell’oro potrebbe darti alla testa e il tuo cuore potrebbe diventare duro come un sasso, e addio cara nutrice, che ti ha dato tutto l’amore per tirarti su quando tua madre, mentre eri ancora in fasce, volava al cielo, patirebbe la fame ed io soffrirei non avendo più tesori da custodire. Sarebbe per tutti la fine!>>
            Gli occhietti del folletto si inumidirono, e chinò la testa, quasi ad offrire il suo berretto rosso. Il giovane divenne pensieroso, una lacrima luccicò sui suoi occhi grandi, allungò una mano e lo carezzò dicendogli: <<Cosa vuoi che io faccia?>>
            <<C’è un modo per essere tutti felici,>> rispose il folletto, <<nascondimi sotto la tua palandrana, portami accanto al torrione di ponente, lì c’è una grande pentola, io te la darò e tu verserai il contenuto in un sacco. Prima che spunti l’alba, scendi al fiume, dove troverai un cavallo bardato, che ci porterà in una fantastica villa di campagna dove potrai accudire alla tua nutrice e rendere serena la sua vecchiaia.>>
            Rosario si estraneò come per incanto dal mondo che lo circondava, seguì passo passo le indicazioni del folletto e si ritrovò in una fastosa villa, nel mezzo di una pineta, in compagnia della sua nutrice e tanti servitori. Nel patio, ricco d’acqua e di verde, quattro scalpitanti morelli erano attaccati ad una carrozza dorata. Fuori, nel cavo di una grande quercia, se ne stava, con la sua pignatta colma di monete d’oro che non avevano mai fine, il folletto gioioso, con la sua barbetta brizzolata, e il suo berretto rosso, che saltellava di siepe in siepe, con gli occhi ridenti.










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sabato 7 dicembre 2013

SICILIA ARCHEOLOGICA - S E G E S T A


















Descrivere sommariamente un sito archeologico, da non addetto ai lavori, è alquanto difficile. Provo a farlo perché affascinato da una terra ricca di storia, ricca di passato. La Sicilia, posta al centro del Mediterraneo, crocevia di culture millenarie e moderne, dove ogni metro quadro nasconde un tesoro, credo meriti di essere trattata, anche da un semplice visitatore quale io son sempre stato.
 Segesta è facilmente raggiungibile percorrendo l’Autostrada Palermo – Trapani. All’uscita dallo svincolo autostradale, la provinciale porta direttamente al sito archeologico munito di ampi parcheggi e di un buon posto di ristoro.

Sicilia Archeologica
S E G E S T A





Quell’antica popolazione mediterranea dell’estremità occidentale della Sicilia, assoggettata dai Cartaginesi nel IV secolo a.C., gli Elimi, fondò Segesta in epoca pre-ellenica. Ben presto assurse a grande importanza, sia per la sua posizione strategica, al centro di un’area dominata da città puniche delle coste settentrionali ed occidentali, che per quella economica. Nel 409 a.C. i Cartaginesi, venuti in aiuto di Segesta, rasero al suolo Selinunte, sua acerrima nemica. Fu dalla distruzione di Selinunte che la città entrò nell’orbita punica, ma ciò non ebbe influenza alcuna sui costumi, anzi si affermò sempre di più l’ellenizzazione. La dominazione romana non fu oppressiva, per una non definita “parentela” tra i due popoli, ma non tardò ad arrivare il degrado e la decadenza, fino ad essere dimenticata, fino alla non citazione nelle carte da parte dei geografi del tempo. Il Monte Barbaro domina l’altopiano sul quale la città sorgeva; dell’abitato, attraverso il rilevamento aerofotogrammetrico, ci si può fare un’idea, un impianto regolare ed una serie di terrazzamenti che consentivano di superare i dislivelli talvolta notevoli. Costruita tra il VI ed il V secolo a.C. o, come qualcuno suppone, dai reperti dell’archeologia dispersa che spostano la datazione alla conquista agatoclea. La città era protetta a valle da una doppia cinta muraria di epoca probabilmente classica o ellenistica. L’unico edificio noto all’interno del perimetro urbano è il teatro, e nelle adiacenze di esso il noto tempio, sembra mai finito, e il grande santuario arcaico e classico in contrada Mango. L’interesse a saperne di più sul sito non è mai sopita, ma i tempi sono quelli archeologici.


Il Teatro 

Fondato nel V secolo a.C. in cima al monte Barbaro, venne riedificato in età ellenistica, conservando di questo periodo, fino ad oggi tutte le peculiarità. La cavea è stata in parte ricavata dalle pendici della collina, il resto è sostenuto da un muro in blocchi calcarei estratti nel sito. E’ andata perduta la parte alta della cavea che era cinta da muro perimetrale. Le venti gradinate superstiti, restaurate, sono divise in sette settori a forma di cuneo, in cima alle quali, tutto è andato perduto. La forma della cavea è semicircolare con prolungamenti fino all’edificio scenico, che delimitano l’orchestra. Anche se mai trovati, l’architrave della scena, doveva essere figure, una sembra essere il dio Pan. Le parodoi scoperte separano la cavea dall’edificio scenico, mentre l’esterno dell’edificio scenico è recintato da un muro di fattura non pregevole. Sotto la cavea è stata rinvenuta una grotta con materiali preistorici.








Il Tempio

Il Tempio è l’edificio più importante di un santuario suburbano tuttora inesplorato. Venne eretto nel V secolo a.C. ed è un esastilo periptero. Il tempio è rimasto incompiuto in quanto non vi sono tracce sia della cella che della copertura; le colonne non presentano scanalature. La posizione in cui si trova, solitario, è molto suggestiva, esso è uno dei più perfetti e meglio conservati di arte dorica.
L’edificio a forma rettangolare misura m.21 x m.56, si presenta come un peristilio di 6 x 14 colonne su un basamento, il Krepidoma di tre gradini coronato da architrave e fregio, sulle due fronti, da bassi timpani.
Mai il tempio è stato adibito a misteriosi culti indigeni o a culti a cielo aperto, solo un’incompiuta, mancante di tetto, cella e scanalature nelle colonne. Tutto ciò ha fatto del Tempio oggetto di studio e di interesse per gli archeologi, e di ammirazione per i visitatori. Dal punto di vista stilistico, le sue qualità architettoniche ne fanno un prodotto di serie del 430- 420 a.C., così dimostrano le proporzioni quanto l’esagone dell’echino dei capitelli.







Il Santuario 

Al confine orientale della città un sentiero porta al santuario. Di proporzioni notevoli il santuario è in buona parte inedito: un muro di Témenos a blocchi poderosi, recinge un’area vastissima di circa m. 84 x m. 48. Alcuni muri assicurano la presenza all’interno dell’area l’esistenza di più edifici, ma si rilevano capitelli dorici e altri reperti. La testimonianza elima è data dalla presenza di ceramiche attiche con iscrizioni graffite in alfabeto e lingua elima.



Monete segestane