sabato 28 gennaio 2012

28 gennaio 2012 - SIAMO GIA' ARRIVATI ALLA V FAVOLA !!!!

Secondo i teologi cattolici le virtù sono le propensioni dell’uomo, insite nel suo animo, a prodigare il bene. La carità è l’amore per il Creatore che si tramuta in amore verso le sue creature; essa supera il concetto stesso di giustizia in quanto implica la capacità del perdono. La carità è profondo amore verso il prossimo, capacità di soccorrere quanti manifestano un bisogno.
Di esempi di carità è piena la storia del Cristianesimo, ma anche delle altre grandi religioni, Induismo, Brahmanesimo, Buddismo, Islam, Ebraismo. Cosma e Damiano, martiri cristiani, secondo la tradizione, per spirito di carità, offrirono la loro opera di medici in maniera gratuita.
I monaci buddisti Therevada, vivono unicamente di elemosina, quindi della carità dei fedeli.
Nell’Islam, i Dervisci, membri di alcune confraternite del sufismo, diffuse soprattutto in Turchia e in Iran, vivono di elemosina. La carità è l’argomento di tutti i sermoni, e pratica tra i fedeli.
     Un versetto della Bibbia così recita: “Seduto di fronte al tronco, davanti al tempio di Gerusalemme, Gesù guardava come la folla metteva il denaro nel tronco. Un buon numero di ricchi metteva molti denari. Venne una povera vedova che mise due piccole monetine, qualche centesimo. Chiamando i suoi discepoli Gesù disse loro: “In verità vi dico che questa povera vedova ha messo più di tutti coloro che mettono denaro nel tronco. Ciò perché tutti hanno messo il loro superfluo, lei invece ha messo, nella sua miseria, tutto quello che possedeva, tutto quello che aveva per vivere.”
    La favola di oggi ci racconta della carità, attraverso un monachello, la sua semplicità, la sua propensione a dare incondizionatamente, anche a costo di privarsi del minimo indispensabile per sopravvivere.






Mario Scamardo


I Racconti del Borgo



V   narrato



Il frate fornaio di Muffoletto



     Su una piccola altura della campagna di San Cipirello, a Muffoletto , si trovava un convento di frati questuanti. Il posto era ameno, pieno di alberi che davano frescura e tutt’intorno vegetavano enormi macchie di gelsomini e vasti roseti di ogni varietà. I frati erano molto attivi, coltivavano un piccolo fondo ad ortaggi ed allevavano alcuni animali da cortile, polli, conigli e finanche un maiale. In un piccolo recinto tenevano tre capre e le mungevano tutte le mattine, risolvendo così il problema della loro colazione. I “munacheddi”, così venivano chiamati dalle genti del posto, erano mattinieri, prima che il gallo cantasse erano già riuniti in preghiera dentro la cappella del convento e, i contadini che passavano a dorso di mulo per recarsi al lavoro, ascoltavano il loro salmodiare e si segnavano.
Appena il primo raggio di sole baciava la cima del piccolo campanile, ognuno dava inizio al suo lavoro. Alcune coppie di frati uscivano per la questua, altri attivavano l’orticello, qualcuno faceva le pulizie e qualche altro curava i roseti e le aiuole tutt’intorno. Frate Giacomo, magro come un grissino, con una tunica addosso che sembrava essere attaccata ad una cruccia, prelevava da un locale attiguo alla cucina un sacchetto di farina, sistemava su due cavalletti di legno una tavola di forma quadrata e, con un setaccio la separava dalla crusca. Prelevava da un piccolo recipiente di coccio il lievito e con l’acqua tiepida impastava la farina. Le sue mani erano celeri, rivoltava l’impasto con destrezza e vi affondava i pugni chiusi fino a rendere la massa uniforme. Sciacquate le mani, procedeva a dividere l’impasto e a realizzare un diecina di filoni che sistemava con cura sul tavolo grande sopra un telo bianco spolverato di farina. A lavoro finito, copriva le forme con altro telo e vi stendeva sopra alcune coperte per far si che, al tepore, avvenisse la lievitazione. Accendeva a questo punto il forno e lo alimentava con la legna che qualcuno degli altri frati aveva portato dentro la cucina.
     Frate Giacomo, infaticabile, era a Muffoletto da cinque anni e, da quando aveva messo piede nel convento, aveva solo fatto il fornaio. Da ragazzo era stato garzone di un panettiere che lo aveva licenziato, perché colto in flagrante, mentre donava, di nascosto, una forma di pane ad una anziana signora che mendicava.
     I frati di Muffoletto ricevevano in dono tanto grano dai contadini del posto, ed il pane non era mai mancato.
     Appena il camino, un giorno si ed uno no, fumava, il viottolo che saliva al convento, veniva percorso da tre bambini, due femminucce ed un maschietto che abitavano con le loro famiglie in due casolari ai piedi della salita. Frate Giacomo li aspettava, - Cristo regni! – salutavano i fanciulli – Sempre! – rispondeva il fraticello sorridendo gioioso della loro presenza. I fanciulli baciavano il suo cordone e pigliavano posto, sedendo su una lunga panca davanti al forno ad aspettare che il monachello, presa una forma di pasta messa a lievitare, la dividesse in quattro,  schiacciasse le parti e le infornasse in un angolino, accanto alla fiamma. A cottura avvenuta le tirava fuori, le apriva con un coltello e le condiva con olio e sale e, assieme ai bambini,  consumava la sua. Tanto gli serviva per controllare la perfetta lievitazione del pane, ma soprattutto perché faceva felici i bambini e soddisfaceva la sua esigenza di donare incondizionatamente. Regalava loro una mela e, appena sfornato il pane, ne avvolgeva tre forme in un tovagliolo, dava uno sguardo attorno per controllare sulla eventuale presenza dei confratelli, le donava ai bambini e li accompagnava al viottolo, seguendoli con lo sguardo fino al raggiungimento delle loro case. Frate Giacomo non aveva perduto l’abitudine di donare di nascosto il pane, ripeteva il suo gesto ogni due giorni e, quando i bambini andavano via, si recava nella cappella e chiedeva perdono al grande Crocifisso che stava nella piccola abside.
Il giorno che non panificava, fra Giacomo lo passava facendo dell’altro, andava al mulino a macinare il grano, impastava la crusca per dar da mangiare al maiale, governava le caprette, aiutava gli altri frati nell’orto.
     Un mattino d’inverno, non dovendo assolvere al compito di fare il pane, si recò in paese per la questua, non era mai andato, prese una piccola bisaccia, la pose sulle sue spalle e s’incamminò verso l’abitato. Il “munacheddu” bussò alle porte e ricevette le offerte, qualche uovo, una piccola forma di pecorino, due bottiglie d’olio, un sacchetto di noci, una manciata di legumi. Sul finire della mattinata, sulla via del ritorno, Fra Giacomo bussò ad una porta, una donna le aprì, era vestita a lutto, attorno aveva una nidiata di bambini, il marito era passato a miglior vita pochi giorni prima. Non era una casa di benestanti, la miseria la faceva da padrona, ma la donna fece accomodare il frate, aprì il cassetto del tavolo, tirò fuori una forma scarsa di pane nero, contò con gli occhi i ragazzini, erano cinque, tagliò in sei parti uguali il pane, ne staccò una e la porse al fraticello, lo vide così scarno, macilento, e pensò che quella che doveva essere la sua porzione, fosse più necessaria al “munacheddu” – tenete, mangiatela – disse – io non ho fame, voi siete così sciupato, vi prego mangiatela! – Frate Giacomo prese il pezzo di pane tra le mani, era raffermo, di farina di segale, la farina dei poveri e lo mangiò. Prese la sua bisaccia, la svuotò sul tavolo della donna, carezzò i bambini e disse al più grande di loro: - sai dov’è il convento? Tutte le mattine vienimi a trovare, promettimelo, ti darò qualcosa che porterai alla tua mamma – salutò la donna ed uscì con le sua bisaccia vuota. Strada facendo, ai piedi della salita, si fermò per ripigliare fiato e notò sotto un pioppo una moltitudine di funghi, si chinò, li raccolse e riempì la bisaccia, si interrogò come mai, in un posto come quello, nessuno li aveva visti, erano commestibili e tanti. I frati del convento si meravigliarono della sua questua, fatta solo di quei funghi, ma da quei buongustai che erano, fecero in fretta a dimenticare.
     Il mattino seguente, il camino fumava, i soliti tre bambini risalirono l’erta e, quando il forno era già pronto per ricevere le forme di pane, comparve il bambino più grandicello della vedova. Fra Giacomo, aveva impastato più farina e quando sfornò, confezionò due involti, uno con tre filoni ed uno con cinque filoni di pane che diede all’ultimo arrivato. Quando entrò nella piccola cappella e si inginocchiò per chiedere perdono al grande Crocifisso, sentì una voce che gli disse: - Fratello Giacomo, perché mi chiedi perdono per un peccato che non hai commesso? – Il fraticello si guardò intorno, non c’era anima viva, soltanto lui ed il Cristo in croce, allora tremò, capì e si prostrò, era Lui che gli parlava – alzati fratello mio, hai forse dimenticato i miei insegnamenti? Ricordalo, dai sempre il superfluo a chi ha bisogno, in te è innato questo sentimento, i bambini a cui hai donato sono, come te, figli miei, tu vuoi che soffrano la fame? – Il fraticello sollevò il capo, fissò il grande Crocefisso e balbettando disse: - Gesù, è inverno, il grano comincia a scarseggiare, io ho forse esagerato, ma da oggi digiunerò per recuperare il pane che ho donato – sei buono ma cocciuto, continua a mangiare il pane, questo è un voto che non puoi mantenere, tranne che tu voglia rinunciare anche a comunicarti, non vedi come sei ridotto? Hai dimenticato che la Provvidenza non abbandona mai i giusti, hai forse perso la fede? Ora vai, fra poco sentirai il rintocco della campana, i tuoi confratelli sono tornati, è ora che tu porti loro il pane. Non pentirti mai di avere donato, quando sarai con me riceverai più di quanto hai donato, io non sono labile di memoria, me lo ricorderò! - Fra Giacomo si segnò e tornò  lesto al suo forno per portare il pane in refettorio.
     I giorni passavano e fra Giacomo continuava a ricevere i bambini e a dar loro il pane quando un mattino, il priore del convento lo convocò nella sua cella. – Fratello Giacomo, sedetevi ed ascoltate quanto vi dirò, la stagione del grano è ancora lontana, mi è stato riferito che la nostra scorta, stranamente, sta per esaurirsi, io non voglio indagare, ma due sono le cose, o voi siete uno sprecone oppure, con mano abbastanza larga, date ad altri quanto serve ai nostri confratelli che vivono di elemosina. Appena usciti dal refettorio, assieme al vice priore, andremo a constatare le giacenze -. Fra Giacomo non disse una parola, si alzò e attese che il priore lo congedasse. Di corsa si recò nella cappella, si inginocchiò, pianse e gli tornò alla mente il suo vecchio panettiere che lo aveva licenziato per aver regalato una forma di pane ad una mendicante, furono quelli momenti terribili, l’angoscia lo colse. Il macilento monachello non aveva nessuno a questo mondo, era trovatello e con i genitori adottivi, deceduti anzitempo, aveva provato la fame e gli stenti, la sua famiglia era in quel convento, a Muffoletto. Temette che lo avrebbero licenziato anche dal convento, gli avrebbero cambiato mansione, lo avrebbero forse trasferito in altro monastero, chissà... – Fratello Giacomo – disse la solita voce – perché piangi, hai dimenticato che sono stato io a dirti di dare? Dove è finita la tua fede nella Provvidenza? – Frate Giacomo si sentì sollevato, si alzò, andò verso il grande Crocifisso e baciò il chiodo che ne trafiggeva i piedi, si segnò e aspettò ancora una parola – Giacomo, asciuga le tue lacrime e non vergognarti mai di avere pianto, solo i forti ed i grandi sanno piangere, i deboli ostentano sempre la sicurezza che non possiedono e sconoscono l’umiltà. Vai con i tuoi confratelli e ricordati di consumare la tua razione di pane. -
Dopo il pranzo, il priore fece cenno al suo vice e, con fra Giacomo, si recarono nel locale attiguo alla cucina e, con grande loro meraviglia, videro accatastati tanti sacchi di grano e tanti altri di bianca farina. Il priore trasecolò, si rivolse al suo vice – perché mi avete detto che mancava il grano, basta e avanza ancora per due anni, e tutte le storie dei bambini che vengono e vanno via stracarichi di pane sono soltanto una vostra invenzione! Che la bugia non sfiori mai le labbra di ognuno di noi, in una comunità come la nostra la menzogna può innescare dei brutti meccanismi. Ricordatevi che siamo uomini, ed il più giusto sbaglia sette volte al dì. Il sospetto non è mai l’anticamera della verità, mai! Esso è soltanto l’anticamera della tragedia! Guai a colui che non può difendersi da un’accusa ingiusta, per qualcosa che non ha commesso!... – No, padre priore – disse fra Giacomo - nessuno vi ha mentito, è vero, io dono ogni volta che faccio il pane, otto filoni ai bambini, ed essi lo portano a casa, tre ai figli dei nostri vicini, cinque al figlio della vedova che sta all’ingresso del paese. Sapete, io ho sempre fatto il panettiere, è difficile mangiare, quando ciò è possibile, soltanto pane di segale, e la vedova quello solo aveva, ha rinunciato alla sua porzione donandola a me. Io, per amore l’ho mangiato, ho svuotato la mia bisaccia sul suo tavolo e andando via, ho promesso che, anche se non avessi più da quel giorno assaggiato il pane, gliene avrei donato tutte le volte che lo sfornavo, ed ho mantenuto quella promessa.- Il priore era un buon cristiano e rimase trasecolato a quel racconto – come mai abbiamo consumato il doppio di farina ed il grano che ci ritroviamo è di più di quanto  ne abbiamo immagazzinato l’estate scorsa? I contadini sono stati generosi, ci vogliono bene, portiamo sempre nelle loro case una parola di conforto, assistiamo talvolta i loro malati, preghiamo per quanti non hanno trovato ancora il sostegno della fede, ma il grano è come se si fosse moltiplicato cento volte! – Perdonate – disse il fraticello fornaio – anch’io non ho capito, di sovente sono frastornato, la mia mente è spesso confusa, ma è certo che qualcuno che sta al di sopra di ogni cosa, ha provveduto affinchè i bambini poveri potessero, ogni due giorni almeno, avere il loro pane fresco e croccante, pane di grano duro anziché di segale, qualcuno che ha messo in moto la Provvidenza -. I frati stupiti da quelle parole, chinarono i capi ed in fila indiana entrarono nella cappella a pregare e ringraziare la Provvidenza.
     Fra Giacomo non subì più controlli, tutti i frati gli portavano rispetto. Ogni due giorni, impastava più farina e riceveva più bambini, - Cristo regni! – Sempre! – Rispondeva, senza stancarsi mai e, a pane sfornato, ritornava in cappella, non più per chiedere perdono ma per ringraziare il grande Crocifisso che gli concedeva, ad ogni levarsi del sole, la gioia di poter donare con amore.
 
Spero che questo racconto breve vi sia piaciuto. Ritengo, a mio modestissimo avviso che, dopo aver aiutato i più piccoli a penetrare il narrato, si possa da alcuni spunti, tracciare la via per spiegar loro questa grande Virtù che è la Carità.  Vi ringrazio.

domenica 22 gennaio 2012

STRUGGENTI AMORI E GRANDI PASSIONI... POESIA!!!

    


     L'amore, sentimento di affetto vivo, trasporto dell'animo verso qualcuno, istinto naturale che lega due persone. Esso è passione, patimento fisico, sentimento violento che tiene l'animo in uno stato di grande agitazione. Una componente dell'amore è sovente il tormento, questo dolore morale, violento e continuato che ruba la ragione. Allora la mente vaga, si districa tra i ricordi, tra i feticci e, come in un film, si rivedono le scene di una storia che lasciano solchi talvolta profondi e fanno soffrire. Il tempo inclemente che marcia, stranamente, non cancella gli amori struggenti, ancor meno le grandi passioni, provocando ancora erosioni ai solchi profondi. 
     Ancora una volta il sogno, ancora una volta la fantasia, il gravame del ricordo che non si cancella e, ritorna il magone...



... ED IO?...

Tramonta la luna chinandosi al giorno che insorge,
i giunchi piegati dal peso dell'acqua
sei fiume in piena che tutto travolge,
culla le tue braccia per sonni sereni.
Le mani, sorgenti di soavi carezze
e gli occhi, due specchi di un'anima grande
puntati a scrutare nei fondi meandri
di un cuore che marcia ed anela.
Vulcano di grandi emozioni,
infinita ed eterna passione,
sospiro incessante del vento 
che soffia e alimenta gli amori,
che avvince, travolge ed impera...
novella Arianna che segui il tuo filo,
eludi l'inganno e cerca Teseo,
monta Ippogrifo, ritrova il tuo senno!
Due fianchi addolciti da forme perfette,
due labbra rosate, da Venere fatte,
i denti, collana di perle orientali,
e le tette?...
mio Dio, che turbine al petto!...
sfiorarle appena col tatto
e sentir sulla schiena il passare di un treno...
...ed io?...
novello Pindaro mi libro tra i pensieri;
un battere d'ali, un palpito,
una chioma fluente e nera,
profumo di donna fissato alla mente,
un suono, una risata che è melodia...
...vorrei dormire...
ma non ritrovo Morfeo.



     Ci si chiede spesso se l'amore per un figlio o per il padre possa paragonarsi all'amore per una donna. Non è diverso, è anch'esso struggente e colmo di passioni, e l'attrezzo che ti scava dentro è solo fatto di petali del fiore più odoroso. E' un'amore che ti da più sicurezza, che non può abbandonarti, che non ti lascerà mai solo e mai ti darà amarezze, sopravviverà alla vita. 





BOLLI DI SAPUNI                                           
                                                                                    ( A me figghiu Ivanu picciriddu )
Ciusciasti ccu tuttu lu ciatu
'nta nna cannuzza di frasca,
vinni fora un palluncinu
c'avia li culura di la paci.
Nna bolla, nna bolla di sapuni
ca s'alluntanau, vulau, scuppiau...
e poi, unu appressu all'avutru
centu, milli, dumila palluncini
tutti culurati, tutti tunni
comu l'ucchiuzzi tò,
e tu cu li masciddi unci
a ciusciari, a ciusciari
finu c'arristasti senza ciatu...
Sai... su tant'anni
ca eu nun ciusciu cchiù,
mi l'avia quasi scurdatu...
Ora, 'nta ssi bolli
viu li jorna mei chi su vulati,
scuppiati, unu doppu all'avutru,
purtati via di lu ventu...




MITITURI
                                                                                           ( A me patri )
Un bummuliddu d'acqua di vadduni,
un crucchiuluni duru e deci alivi,
appoi la testa 'ntall'anga d'un sidduni,
ti sta sgranchennu l'ossa, manci e vivi.

Ppi nna jurnata sta a facci abbuccuni,
meti, la favuci addiventa arruvintata,
cala lu suli e mancu tinn'adduni
ca all'urtimi so raggi cci arrobbi nna rancata.

E' tardu la carina l'hai accruccata,
si stancu mortu, nun senti mancu fami,
ti etti un saccu 'nterra, nna 'ncirata
e ppi capizzu t'aggiusti li liami.

Prima ca l'arba, ca è sempri puntuali,
spacca ppi fari lustru d'ammatina
ha fattu già ddu uri di 'nfasciari
ddi gregni c'ammurbitutu l'acquazzina.

Sudi, travagghi, stai puru addinucchiuni,
sonni di scafazzari un lettu moddu,
nun vidi o orvu, c'arriva lu patruni
e ti nni vai cu la trarenta 'ncoddu?...




Molti termini dialettali sono ormai in disuso; Il libro da cui ho tratto le poesie I ME SAVUTI A MUNTUNI con sottotitolo "I miei voli pindarici e le voci dei miei silenzi" l'ho corredato di note, nella speranza di recuperare un'identità culturale e non soltanto poetica . Sarei soddisfatto se quanto scritto potesse servire, oltre che a trasmettere sensazioni al lettore, a conservare la musicalità della lingua siciliana e a non far perdere il significato atavico delle parole.

                                      Grazie per l'attenzione.

domenica 15 gennaio 2012

INSEGUIRE UN SOGNO... PARLARE D'AMORE... LUNEDI... POESIA!!!!

     Tutti inseguiamo i sogni, tutti lavoriamo di fantasia! L'uomo senza sogno e senza fantasia non può vivere! Realizzatone uno, ne insegue subito un'altro, ed il sogno, alimentato dalla fantasia, pian pianino si avvia verso la sua realizzazione, a volte, come d'incanto svanisce, senza lasciare segno e subito se ne cavalca un'altro.        
     Altre volte il sogno si infrange lasciano vuoti incolmabili e pene capaci di spegnere il sorriso. Anche l'amore è sogno? Cos'è l'amore? Ardua impresa dir cos'è! Definizioni? Un numero infinito, tante quanti sono i cioccolatini che abbiamo gustato nella vita. Ognuno di noi ha un suo postulato, lo immagina alla sua maniera, lo sogna e lo vive con unicità, ma esso cos'è? Forse, per cercare di definirlo sarebbe bene cominciare ad elencare cosa non è, probabilmente, per esclusione ci arriveremmo? Il dubbio è legittimo! Quando ognuno di noi con la propria cultura ne parla, usa terminologie che sembrano simili a quelle degli altri, ma si trova davanti una persona diversa da se e da tutti, che ha una cultura diversa, una sensibilità diversa, una intelligenza diversa, un raziocinio diverso, allora le parole che sembrano tutte uguali, sortite dagli involucri dei cioccolatini, assumono diversi significati, pur essendo esse sempre un melodioso canto che sgorga dal cuore palpitante dell'innamorato.
      Cantare un'amore è dar sfogo a tutta la fantasia che si possiede, esso è di per se bello, ma chi lo esterna ha bisogno di renderlo sublime, per far si che chi l'ascolta, abbia contezza del suo concetto d'infinito, deve stupire e, spesso, riesce a stupire anche se stesso.



D'IMPROVVISO...

Come d'incanto un sogno,
un desiderio mai nato,
un turbine alla mente
e un tuffo al cuore...
d'improvviso come folata
in giorno sereno.
Scemo che sono!...
Mai m'ero accorto
di avere ad un passo
la cosa più bella
da sempre sognata.
Cieco son stato,
con gli occhi di latta!
Un'anima enorme
e due grandi braccia
 capaci di darti la vita.
Un fascino colmo
 di ragioni sennate,
di grazia che avvampa,
di sentimenti maturi,
di scelte volute,
di attimi rari,
di voglie aberranti,
di sete d'amore,
di eccelsi pensieri...
La cosa più bella
è scoprire che esisti
e dividi il pensare
con la dea più ardita;
come vorrei rinascere ancora...
rinascere dentro di lei
e recuperare il tempo perduto!
Forse mi resta soltanto il sogno,
ma io non dispero.
Tanto, che importa se devo aspettare,
un solo mattino
di sole splendente
vale con lei una vita!
Mi manca, da farmi soffrire,
mi manca il suo tono argentino,
i gesti delle sue mani,
la sua intelligenza,
il suo fascino antico,
il suo fare aggraziato,
il suo odore che sa d'ogni fiore,
la sua cocciutaggine,
il suo lieve sorriso.
Come fiume in piena
ha attraversato la mia valle,
ha travolto ogni cosa
e mi ha fatto sognare.
Indomata puledra
ha scalpitato nel mio petto,
e mi ha tolto la pace.
Forse, ancora cent'anni,
forse, son mille e più,
ma io son felice per lei
e le voglio più bene.
Paletti? Quanti ne vuole!
Argini? Io son muratore!
Il pegno? La vita mia!
Domani? Sarò ancora a pensarla,
fino al cessar del cuore.
Se sull'Olimpo fossi a comandare
di lei farei un bruco variopinto,
l'attrezzerei con due grandi ali
per completare la sua libertà.




IL MIO BRUCO VARIOPINTO


Cosa c’è di più bello
di una notte di luna,
di un cielo ammantato di stelle,
del sorriso di un bimbo,
del volo di un uccello,
del rumore dell’acqua,
del canto del vento,
di una farfalla su un fiore,
di due libellule amanti,
del silenzio del deserto,
del profumo dell’erba,
del sole che sorge,
del rosso di un tramonto,
del germinare di un seme,
di due occhi lucenti…
Rimanere incantato
davanti ad un bruco variopinto
e godere del suo muoversi lento
su foglia di rosa scarlatta.
Ogni giorno a guardarlo
ed amarlo silente
per interminabili ore,
e sognare, sognare…
Poi, metter le ali e vederlo andar via
attratto da mille colori,
da un campo di grano,
da un prato disteso,
da mille lustrini…
Ed io che l’ho amato,
accarezzato con gli occhi,
costruito i miei sogni,
l’ho perso di vista,
s’è confuso tra i campi…
S’è portato via la speranza
e mi ha spento il sorriso.



Per gli amanti della poesia in vernacolo, volendo rimanere in tema.



... VULATI VERSI!...


Ti fermi o penna mia, nun vò cchiù scriviri,
la fogghia c'haiu davanti arresta bianca,
haiu tanta siti e nun mi va di viviri,
nun c'è cchiù forza 'nta sta manu stanca.

Si tu o menti mia ca stenti a cerniri
ti cerchi li paroli a destra e a manca,
sugnu siddiatu e vulissi fingiri,
mi trovu 'nta sta mauta comu tenca.

Di paruleddi ti vulissi inchiri
ccu lingua sciota, e ppi dilla franca,
stu ciriveddu lu vulissi munciri,
ma lu pinzeri è cumu un purci all'anca.

Ccu la me fantasia, rinesciu a vidiri
tutti li denti soi di pasta bianca
e sentu la so vuci e lu so ridiri,
mentri lu cori meu patisci e arranca.

Si fussi ventu mi mittissi a curriri
in cerca di la musa ca mi manca,
... vulati versi!... sinnò sbuttu a chianciri,
nun mi lassati affrittu 'nta sta conca.


         Non so se vi son piaciute, io ve li offro con amore, eventualmente perdonatemi!

mercoledì 11 gennaio 2012

REMINISCENZE CULTURALI... I SALONI DA BARBA... TRADIZIONI, MUSICHE E NARRATI.













    

     Pezzi di cultura di ogni regione d'Italia, ogni giorno si dileguano in una nebbia sempre più fitta. Per fortuna, i volenterosi non mancano, c'è sempre qualcuno che si piglia la briga di conservare, facendo si che questo grande patrimonio non passi definitivamente all'oblio. Gaetano Pennino e Giuseppe Maurizio Piscopo si sono curati di raccogliere in un volume una quarantina di testimonianze ricordo attraverso le penne di scrittori siciliani. Non sapremo mai come ringraziare tutti per averci regalato le loro perle, per averle coordinate in un volume, scrigno che gelosamente le custodisce per offrirle ai posteri. Grazie!

    Tratto dal libro di cui sono coautore "Musica dai Saloni" suoni e memorie dei barbieri di Sicilia, con prologo di Andrea Camilleri, edito da Nuova Ipsa Editore.

     Il mio racconto è storia locale, di un paese dell'entroterra palermitano, quello in cui sono nato, quello in cui vivo, San Cipirello. I nomi di alcuni dei protagonisti sono di fantasia, siamo ai primi degli anni '50.


 
Il barbiere Mastru Pippinu Curamasi
di Mario Scamardo

Mastru Pippinu Curamasi, col sindaco, il farmacista e il parroco era ritenuto un'autorità a San Cipirello. Di professione mastru Pippinu era barbiere ma esercitava altri mille mestieri che lui chiamava "nobili professioni": attaccava le mignatte, tagliava su richiesta le code ai cani, cavava i denti, estirpava le unghie incarnite, faceva le punture a domicilio e, quando occorreva, faceva le medicazioni, castrava i gatti, suonava il banjo e la chitarra.
Panciuto come un'orcio, un occhio quasi spento, ai suoi clienti soleva ripetere con la munificenza di un cattedratico: "Per fortuna in questo paese c'è stu pezzu di peddi!", puntando l'indice della mano sinistra verso il suo petto, mentre con la destra roteava in aria forbici e pettine. "Senza il sottoscritto avrei voluto vedere!", poi ripigliava a sforbiciare aritmicamente attorno al capo dell'avventore e, una su venti, buttava giù una ciocca. Ogni tanto si fermava, guardava gli astanti seduti sulla lunga panca addossata alla parete di destra, tirava su gli enormi pantaloni sorretti da un paio di bretelle rosse, aggiustava il suo papillon a pois e iniziava a raccontare, romanzandolo, un episodio di storia romana, le guerre servili, quelle puniche, la conquista di Cartagine. Era così affascinato mastru Pippinu della storia di Roma che aveva chiamato la sua unica figlia Lavinia e sulla porta d'ingresso della sua bottega campeggiava una grande insegna realizzata in legno laccato bianco con la scritta in rosso carminio: "QUO VADIS" SALONE; la cosa più strana era che il cognato, a trenta metri dal suo salone, influenzato da tanto sapere di mastru Pippinu, aveva chiamato la sua impresa di pompe funebri "QUO VADIS ?".
     Il salone del signor Curamasi si trovava a piano terra di una strada che, pur non essendo quella principale, "a chiazza", era transitata da parecchi carretti trainati da muli, dalla corriera che portava a Palermo e da qualche vettura che negli anni '50, per la verità, era molto rara. All'interno, tre grandi specchiere erano attaccate al muro e avevano davanti tre poltrone in legno con il poggiatesta; sotto le specchiere tre lavabi in porcellana senza rubinetteria. L'acqua mastru Pippinu la prendeva da un catino con una vecchia caffettiera di zinco. Il servizio di fornitura dell'acqua non aveva raggiunto tutte le abitazioni, però le strade del paese erano tutte un cantiere per la posa della condotta principale. Ad aiutare il maestro c'eranu due aiutanti, "i giuvani". Giorgino, il più grande, circa vent'anni, che sapeva già usare le forbici, aveva appreso il taglio, ed era stato autorizzato dal vecchio Curamasi a lasciarsi crescere l'unghia del mignolo della mano destra che gli conferiva il titolo di "mastru"; ciò lo esentava dal liberare il pavimento dalle ciocche di capelli, dal passare la spazzola sulle spalle dei clienti e dallo svuotare la sputacchiera che era posta, entrando, nell'angolo di sinistra. Questi compiti erano affidati a Coconeddu, di appena quindici anni, allievo già da cinque, che sapeva fare le saponate, radeva qualche barba facile, qualche altra la faceva a domicilio e cambiava tutte le mattine, dopo aver prelevato il giornale dal tabaccaio, l'acqua alle mignatte tenute in bellavista tra le due specchiere centrali, dentro un grande barattolo di vetro. Diventava pallido Coconeddu quando, dopo un sermone aulico sulla pietà, il suo maestro lo mandava a radere un morto che i parenti stavano ancora vestendo con l'abito di "sciollaru" col quale era convolato a nozze.
     Quasi per rincuorare il ragazzo, dopo avere avvolto i ferri in un foglio di giornale della settimana precedente gli declamava dei versi:

Tutti i stessi l'epitaffi...
tomba ppi tomba,
balata ppi balata.

Cu passa si sufferma
leggi, poi va via
e passa all'avutra...

"Luminare della scienza..."
"Uomo rispettoso..."
"Donna e madre di grandi sentimenti..."

E' strana ppi davveru
la differenza ca cc'è
tra lu munnu barraccusu di li vivi
e chiddu tranquillissimu ddi morti.

Qual'è lu mistiriusu levitu 
chi tramuta lu marvagiu
in omu di virtù da mortu?...

U mortu nun pò cchiù nociri!...
e i vivi parturiscinu pietà...

Quando nel salone, intorno all'ora di pranzo non c'era gente, ai due "giuvani", dopo un frugalissimo pasto, era affidato il compito di rifare il filo ai rasoi passandoli sulle cinghie di cuoio o sul semibastone di ferla.
     Alla fine dell'affilatura, controllata minuziosamente, l'anziano maestro  staccava dalla parete il banjo e la chitarra e dopo una minuziosa accordatura, affidava quest'ultima a Giorgino e iniziava la sua performance da virtuoso che durava fino all'avvento del primo cliente serale.
     Il lunedì pomeriggio QUO VADIS SALONE si trasformava in una sala da concerto, arrivavano alla spicciolata altri due barbieri, mastro Giacomino che suonava il violino e mastro Sisino che suonava il mandolino, poi, un pò più tardi veniva da Camporeale, a dorso di mulo, mastro Antonio detto "u miricanu": suonava il contrabasso che aveva portato dall'America dove era stato per sei mesi a far visita alla sorella emigrata vent'anni prima. Quando l'orchestra era completa di tutti gli elementi, il vecchio Curamasi apriva la porta e si formava un capannello di gente ad ascoltare il concerto.
     Con l'avvicinarsi del Natale era consentito disporre, su un piccolo tavolinetto, un vassoio con sopra un cartoncino con la scritta "Buone Feste" e, solo dopo che il cliente aveva dato la mancia, mastru Pippinu tirava fuori da un cassettino una bustina trasparente che conteneva, munito di fiocchetto rosso o azzurro, un calendarietto tascabile che odorava di borotalco. Vi erano raffigurate le "bellezze al bagno", donnine in costume a dire il vero molto castigato; "tieni, rifatti l'occhio", diceva "i clienti affezionati meritano questo e altro". Poi, sull'uscio gli spruzzava addosso una colonia il cui odore accompagnava il cliente fino alla prossima festività.

     Una volta al mese, l'ultimo venerdì, mastru Pippinu ospitava il suo vecchio allievo ormai quarantenne, che si era trasferito in cerca di migliori fortune, certo Topolino (sarà stato un nomignolo o un nome d'arte) che veniva da Palermo, carico di un paio di valigette di legno contenenti l'attrezzatura da parrucchiere per signora. Il salone per quel giorno era impedito ai maschi. Topolino esponeva davanti l'uscio una tabella in compensato con la scritta: "TOPOLINO Coiffeur pour dame - permanente a freddo". Le signore entravano alla spicciolata e dopo un paio d'ore uscivano con i capelli arricciati come curatissimi barboncini.
    Il tempo, che sembrava non essere stato un parametro nel salone, scandì inesorabilmente le ore, i giorni, le settimane, gli anni, e il vecchio maestro, ultraottantenne varcò la soglia dell'impresa di pompe funebri del cognato, QUO VADIS?...
     Quando nell'America post colombiana moriva un capo indiano, era come se si fosse bruciata una grande biblioteca. La dipartita di Mastru Pippinu si portò via un pezzo di cultura del territorio, il paese intero perse un importante punto di riferimento ma, per i cinquant'anni successivi nessuno dimenticò il panciuto barbiere, le guerre servili raccontate alla sua maniera, l'eroico Muzio Scevola, gli Orazi e i Curiazi, lo splendore di Cartagine e i benefici ottenuti dai suoi salassi e dalle sue mignatte.
     Cadde la tabella sulla porta del salone, Giorgino e Coconeddu emigrarono, la strada venne asfaltata e passarono sempre più macchine e sempre più corriere. Oggi in quello stabile ristrutturato campeggia un'altra insegna, luninosa, BANCO DI SICILIA. Ma questa è un'altra storia!














domenica 8 gennaio 2012

LUNEDI'... VERSI IN LINGUA E IN VERNACOLO... ANCORA POESIA!!!!!!!

     E' possibile parlare ad uno specchio? Alla nostra immagine virtuale in esso riflessa? A volte capita e, spesso, abbiamo l'impressione di parlare ad un'altro, ad una persona amica, alla quale confidiamo il nostro intimo più segreto. Guardandoci, notiamo quello che di solito non riusciamo a vedere in noi stessi, i nostri occhi stanchi, le nostre rughe, culla dei nostri sorrisi e delle nostre lacrime, la nostra espressione e, stranamente, siamo spinti a far tornare alla nostra mente alcuni dei nostri ricordi, belli o brutti che siano stati, nostalgici o gioiosi, ricordi che hanno tracciato profondi solchi nel nostro cuore, rimembranze che ci hanno afflitto, e parliamo con noi stessi come se parlassimo ad un'altra persona. Alla nostra immagine riflessa siamo disposti a dare consigli, a consolarla, a compiacerci, ad esortarla e, quando lo facciamo, siamo a nostra volta compiaciuti, si, forse siamo paghi di avere sfogato! Stranamente diventiamo saggi, o pensiamo di esserlo e, come un buon medico, non diamo alla nostra immagine soltanto sciroppi dolci, ma anche pillole amare.
     La poesia di oggi non è altro che un dialogo con la propria immagine riflessa in uno specchio. Racconta le cause e la fine di un grande amore e con essa i tormenti che accompagnano fino alla morte.




ORLANDO ALLO SPECCHIO

Quale prezzo per uno sbaglio
avvenuto per ria voglia
di quale malefica maga,
che ha trasformato la pace
in battaglia continua e irruenta.
Quale arcigno demone
si porta via l'anima,
ti ruba il senno, e tu
non sai che fartene delle ragioni
e anneghi in un pelago
di cui nulla conosci, e scopri
che non hai un perchè.
Ora, hai perso senno e ilarità;
no, non sei entrato per nulla
in illusori fantastici mondi,
in dimensioni al di la del reale.
Crudeli promesse vuote
costellate di zuccherini,
nascoste bugie e intricate trame,
migliaia di lustrini a fare da esca,
e tu, credulone, ti sei fatto irretire!
I suoi mondi?... fantasie contorte,
famelici mostri di insano senno,
secretati a costo della vita!
Il prezzo per uno sbaglio,
indotto errore in assenza di volontà;
alto il prezzo per una ragione assente!
Nei tuoi occhi pieni d'angoscia
non c'è più una lacrima
per piangere sulle tue sventure.
Mai aggiungerai dolore al suo dolore,
che lo stiletto affondato
 con crudeltà nelle tue viscere
continui a scavare senza pietà,
preferisci che ti trapassi il cuore;
preferisci aver per compagni 
il panico crescente e la paura,
ma le tue labbra rimarranno serrate
per custodire un maleficio.
Senza luce la tua vita grama,
tutto spento attorno a te
tranne l'eterna speranza
dell'amor che non muta e mai finisce,
la tua ultima dea...
L'ultimo dei grandi amanti si spegne,
non l'ultimo dei grandi amori!...
E poi?... La speranza dell'oblio,
follia di novello Orlando...
Gli aquiloni son scappati di mano,
si son spezzati i fili
in picchiata, sui cavalloni,
ricoprono lembi di mare in tempesta.
Crudeli destini si abbattono
e come castelli di sabbia
svaniscono i sogni più belli.
Gli usignoli son tutti corvi,
le fioriere grovigli di sterpi,
che prezzo per un'ingenuità!...
Credere che il sole sortisca dai poli
e che gli elefanti han messo le ali,
che sciocco sei stato!...
... e il pugnale affonda sempre più
e lacera le tue carni straziate,
cerca i tuoi organi vitali per colpirli,
ti vuole agnello sull'ara, 
cerca la tua gola.
Non sa che ti ha già scannato 
e ti colpisce ancora senza ragione,
come novello Maramaldo si abbatte
su te inerme, capace solo d'amare...
Che strana gelosia,
tentativi di conquista d'un amore
e pugnalatrice di un affetto carnale...
Lotta senza quartiere con qualunque mezzo,
e dentro il petto colmo di sedicente orgoglio 
la stolta frase che sottende odio per tutti:
o mio o di nessuno!...
Quanto male vi ha fatto!
Due soli si vanno spegnendo
e nel crepuscolo famelica iena ride,
sbrana le vostre carni
e nel freddo della notte 
assapora la vendetta: nè mio nè di nessuno!
Piano piano, con guidata sapienza
ti hanno spento il sorriso,
le stanno spegnendo anche il suo,
e tu, stavolta, nulla potrai,
fino a quando lei, accecata,
non capirà che le si vieta
quello per cui il suo aguzzino
ancora combatte!
Le morali valgono solo per lei,
mentre il tempo passa inesorabile
e mette nella sua bisaccia tetra
i tuoi desiderata, financo la tua vita!




Le liriche in vernacolo servono a riportarci all'essenza ed alla immensità dell'amore vissuto, tanto da poter dare ancora più senso alla poesia in lingua. Come è diventato, com'era! Cosa è diventato, cos'era!





RIVUGGHIU DI LA ME FUDDIA

Mi sentu comu un mulu chi baschia
cu quattru sacchi misi a celu i varda
la me tistazza dura mulinia,
pensa e ripensa a tia, gran jatta parda!

Grigna a lu ventu, la imenta inia,
va maistusa comu n'alabarda
ma cu lu sapi si sta pinzannu a mia
ca cu lu ciatu l'accarizza e guarda...

Ti chiamu ogni minutu, e s'un si surda
senti stu pettu comu vattulia,
riguardati e nun essiri tistarda!

T'aspettu comu fussi lu Missia,
nun senti a nuddu sta me menti tarda,
si tu, rivugghiu di la me fuddia!
 




VULISSI!...

Vulissi essiri lu megghiu fotografu,
ppi firmari di tia tutti l'immagini;
lu megghiu artista c'un pinseddu 'mmanu,
e li biddizzi toi putiri cogghiri;
lu megghiu scarpillinu ccu lu geniu,
ppi 'mmurtalari a vita sti capiddi.
Si fussi pasticcieri lestu e abbili,
di tia facissi nna pupa di zuccaru,
sunn'è piccatu dillu, e fussi Diu,
ddu ali ti facissi, di farfalla,
e siccomu cumannassi sulu iu,
ti cullucassi 'nta nna rosa gialla,
e cu li fogghi ti facissi culla.
Di tuttu u celu, bella fra li belli,
l'occhi ddu stiddi, tunni comu palli
e dintra la to vucca milli perli.


Spero di non avervi delusi, se così fosse... vi chiedo venia.

domenica 1 gennaio 2012

AMORI TORMENTATI... AMORI SOFFOCATI... AMORI E SEMPRE AMORI... POESIA!!!!




 Sugli amori si possono scrivere poemi, interi poemi stracarichi di gioie, di momenti sublimi, di passioni travolgenti, di felicità, di sorrisi, di sospiri, di attese trepidanti, ma anche di piccole illusioni, di piccoli e grandi momenti di tristezza, di grandi e piccoli patemi, di pianti e di rimpianti, di piccole storie senza storia colme solo di lustrini, traboccanti di fiele, di nodi alla gola, di grossi rospi non digeriti, di piccoli e grandi tradimenti, di scempio dei sentimenti altrui, di piccoli e grandi bari, di illusioni e di menzogne, di piccole e grandi tragedie, di doppi giochi, di sentimenti belli che si tramutano pian piano in stizza, in rabbia, in odio.
     Un poeta osserva, coglie l'intera gamma delle emozioni, delle reazioni, dei comportamenti, le fa proprie, le vive e le rivive nella sua fantasia, e piange e ride, gode e si dispera poi, le trasforma in versi che devono rendere a chi li legge gli stessi patemi degli amanti.
     Spesso non ci accettiamo per quello che siamo, non siamo in grado di mettere un punto fermo nella nostra vita, per sapere da dove partire o su cosa star fermi se ci piace, su come costruire e da dove cominciare a migliorarci o, se proprio vogliamo a perderci! E l'amore che è l'unica vera libertà, talvolta ci imprigiona, ci condanna, ci trasforma in relitti senza vita!
     Le poesie di questo post tracciano in maniera diversa delle
tragedie, capaci di avere spento il sorriso dei protagonisti. Storie intricate, colme di grandi passioni ma, trasbordate in un pelago senza uscita.



LETTERA AD UNA PRINCIPESSA

Non ricordo più quasi il colore dei tuoi occhi
ma so che sono gli occhi più belli del mondo, principessa.
Se mi avessi sentito un momento
anzichè farmi accusare ingiustamente,
se avessi dato ascolto alla ragione,
se avessi meditato sul passato,
se veramente non mi avessi usato,
se un sentimento ti avesse attraversato
non avresti di me fatto un depresso,
un relitto pieno di malinconie
un locomotore in un binario morto,
un astro spento in dissoluzione
in uno spazio infinito senza vita.
Stupidi e vuoti orgogli tuoi!...
Il sospetto su uno scherzo da prete
che maldestramente qualcuno t'ha fatto
che hai trasformato nella tua verità,
in una terribile ed ingiusta accusa.
Non hai trovato il coraggio per parlarmi,
lo hai fatto per interposta persona
e l'anticamera delle tue certezze
è diventata la mia tragedia.
Che strana donna sei, non hai coraggio!
Mi hai trasformato in un bambino,
mi nutrivo accarezzandoti con gli occhi,
ascoltando la tua voce ammaliatrice,
piccola principessa, io sono innocente!...
Il destino cupo a cui m'hai legato
non è certo quello che m'hai fatto sognare,
non è quello in cui speravo,
non è quello che meritavo.
Come hai dimenticato facilmente,
come hai gettato tutto nell'oblio, 
pur sapendo che oggi o fra mille anni
son disposto a donarti la vita.
Tribolata esistenza è la mia, 
mi hai sinanco tolto il saluto.
Mi manchi oggi, mi mancherai sempre,
fino al cessar dell'ultimo respiro
ed io non mi do pace eternamente.
Quando ho sbagliato, e sai che cosa dico,
l'ho fatto per proteggere un amore,
il mio, il tuo, il nostro sogno.
L'ho ritenuto l'unico rimedio
pur sapendo del rischio che correvo.
Son caduto nella trappola di chi
ci aveva da sempre avversato
e sull'altare della gelosia
ha immolato i tuoi sentimenti.
Il perdono che t'ho chiesto allora,
non ha fatto breccia nel tuo cuore,
te lo richiedo oggi e con ardore.
Vorrà il destino che è stato rio
avvicinarmi a te un istante,
regalarmi la tua immagine agognata
e poi chiuder per sempre gli occhi
con te eternamente nel mio petto.
Non dormo ormai da tanto tempo,
e se talvolta il sonno mi coglie
a tenermi compagnia ci sei tu,
con la tua risata argentina,
con i tuoi denti di pasta d'avorio,
con le tue labbra di corallo rosso,
con le tue mani diafane,
con i tuoi occhi, i più belli del mondo!
Breve è il sogno, pochi attimi fugaci,
il risveglio è sempre l'angoscia
e mi riprende il magone...
una stretta soffocante alla gola,
una fitta penetrante allo sterno.
Vorrei essere la suola delle tue scarpe
per carezzarti i piedi come un tempo,
o la tua spazzola per sfiorarti i capelli.
Il mio sole non splende più,
eri tu che gli davi la vita.
Principessa, il tuo pollice è verso
ed io gladiatore son destinato alla morte!
Le lacrime le ho esaurite
e sai che non so manco pregare,
il dolore mi ha inaridito...
I fogli del calendario della vita
volano via trasportati dal vento,
e sento già il gravame del fardello
che mi hai caricato sulle spalle,
gravi accuse per quanto non commesso,
e tu, per salvare le tue storie senza storia,
mi hai sacrificato come agnello sull'ara 
certa del mio silenzio a costo della vita.
Se avessi voluto farti del male
avrei fatto attorno a te terra bruciata,
 ma l'idea non ha mai sfiorato la mia mente.
Io non posso farti del male e tu lo sai,
e quando ti sentirai sola,
quando la tua mente rinsavirà,
quando la ragione prevarrà sui torti,
quando avrai smaltito la tua cieca ira,
quando non sarai più l'eterna ragazzina,
quando avrai trovato il tuo equilibrio vero,
quando vorrai ancorarti in modo serio
all'amore più grande che hai incontrato,
quando gli altri non ti daranno più nulla
e i tuoi capelli e i miei diventeranno bianchi
e sarà la solitudine la nostra compagna,
mostruosa, fatta di lunghi sospiri e di tanti rimpianti,
io sarò sempre quì ad aspettarti,
senza chiederti nulla, principessa...
... a presto!...


D'IMPROVVISO...

Come d'incanto un sogno,
un desiderio mai nato,
un turbine alla mente
e un tuffo al cuore...
d'improvviso come folata
in giorno sereno.
Scemo che sono!...
Mai m'ero accorto
di avere ad un passo
la cosa più bella
da sempre sognata.
Cieco son stato,
con gli occhi di latta!
Un'anima enorme
e due grandi braccia
 capaci di darti la vita.
Un fascino colmo
 di ragioni sennate,
di grazia che avvampa,
di sentimenti maturi,
di scelte volute,
di attimi rari,
di voglie aberranti,
di sete d'amore,
di eccelsi pensieri...
La cosa più bella
è scoprire che esisti
e dividi il pensare
con la dea più ardita;
come vorrei rinascere ancora...
rinascere dentro di lei
e recuperare il tempo perduto!
Forse mi resta soltanto il sogno,
ma io non dispero.
Tanto, che importa se devo aspettare,
un solo mattino
di sole splendente
vale con lei una vita!
Mi manca, da farmi soffrire,
mi manca il suo tono argentino,
i gesti delle sue mani,
la sua intelligenza,
il suo fascino antico,
il suo fare aggraziato,
il suo odore che sa d'ogni fiore,
la sua cocciutaggine,
il suo lieve sorriso.
Come fiume in piena
ha attraversato la mia valle,
ha travolto ogni cosa
e mi ha fatto sognare.
Indomata puledra
ha scalpitato nel mio petto,
e mi ha tolto la pace.
Forse, ancora cent'anni,
forse, son mille e più,
ma io son felice per lei
e le voglio più bene.
Paletti? Quanti ne vuole!
Argini? Io son muratore!
Il pegno? La vita mia!
Domani? Sarò ancora a pensarla,
fino al cessar del cuore.
Se sull'Olimpo fossi a comandare
di lei farei un bruco variopinto,
l'attrezzerei con due grandi ali
per completare la sua libertà.




IL MIO BRUCO VARIOPINTO


Cosa c’è di più bello
di una notte di luna,
di un cielo ammantato di stelle,
del sorriso di un bimbo,
del volo di un uccello,
del rumore dell’acqua,
del canto del vento,
di una farfalla su un fiore,
di due libellule amanti,
del silenzio del deserto,
del profumo dell’erba,
del sole che sorge,
del rosso di un tramonto,
del germinare di un seme,
di due occhi lucenti…
Rimanere incantato
davanti ad un bruco variopinto
e godere del suo muoversi lento
su foglia di rosa scarlatta.
Ogni giorno a guardarlo
ed amarlo silente
per interminabili ore,
e sognare, sognare…
Poi, metter le ali e vederlo andar via
attratto da mille colori,
da un campo di grano,
da un prato disteso,
da mille lustrini…
Ed io che l’ho amato,
accarezzato con gli occhi,
costruito i miei sogni,
l’ho perso di vista,
s’è confuso tra i campi…
S’è portato via la speranza
e mi ha spento il sorriso.

HO LETTO LA TUA ANIMA
E' successo poche volte!
Ho visto sprizzare la gioia
dai tuoi occhi apposta celati
da occhiali marcati di scuro.
Brillavano come non mai
ed in essi soddisfatto ho letto
le pagine della tua tenerezza.
Eri tu, senza il tuo velo grigio,
con tutta la carica affettiva,
senza alcuna corazza,
ed il fulgore del tuo sguardo
mi ha fatto chiaramente leggere
il pieno della tua anima,
le grandi pagine del tuo cuore,
candide, talvolta immacolate,
piene di spazi vuoti,
non pagine ingiallite
ma nitidi fogli delicati
come i petali del gelsomino.
Profondi e luminosi fanali
incapaci di mentire
che han portato fuori
quella bellezza interiore
tanto somigliante a quella esterna
che ti ostini a celare.
Sai, ora ho davvero capito
quanto la mia istintività 
è stata precisa nel tempo.
Io, quanto te son testardo,
ed ora ho avuto ragione,
il bello che tieni nel cuore
è pari al fascino tuo.
Non è stato il tempo capace
di strappare la tua innocenza;
vorrei che i giorni a venire
possano darti momenti migliori.
Ora sei tu padrona del campo,
gli altri, la gente, inezie da nulla,
minuscole menti vaganti nel vuoto,
tu, invece, regina del senno
regali i tuoi pensieri con amore
e fai che ognuno si disseti
alla coraggiosa fonte del tuo sapere.
Brava Lulù, complimenti!
Sai quanti muri hai abbattuto?
Ora sei un'impeto, una forza vera,
eppure, nella tua semplicità,
nella dignità che ti distingue,
sei sempre la stessa,
una passione infinita,
e nulla sai chiedere
perchè hai solo e sempre donato.
Grazie di avermi onorato
or mi posso con orgoglio fregiare
di essere veramente tuo amico.
Che la fortuna assista i tuoi passi
e ti renda quanto dovuto,
Grazie Lulù, ti voglio bene. 



 VIA DEL SILENZIO

Ciao Veronica, ricordi?...
la nostra viuzza stretta,
allargavamo le braccia
e toccavamo le due murate.
Stringevi forte le sbarre
del piccolo balcone
ed io dalla finestra di fronte
ti accarezzavo le nocche.
Non c’era mai il sole
nella nostra stradina,
passava soltanto il lattaio
ed il vecchio maestro di piano
e noi, spennacchiando un geranio
lasciavamo che i petali rossi
come farfalle si librassero in aria
per poi vederli adagiare
sui piccoli coti del basolato.
Più grandi, ci stringevamo le mani
e il sorriso fu il nostro padrone
fino a quando la scuola ci separò
preparandoci ai nostri destini.
Cominciasti ad inseguire chimere,
sembravi già donna ed io,
eternamente bambino!
Sul tuo balcone rigogliosi gerani
alla mia finestra solo foglie verdi,
io ripetei ogni dì il gioco,
lasciando librare i petali,
non sorrisi più, divenni serioso
e guardandomi allo specchio
mi accorsi del mio naso più tozzo,
di una strana peluria sul viso.
Son diventato brutto, pensai
e fu quasi una rassegnazione,
allungai le braccia e strinsi,
come per un addio
le sbarre che stringevi tu.
Ricordavo appena il colore
verde intenso dei tuoi occhi,
ma sapevo che erano
gli occhi più belli del mondo!
Ricordi Veronica?...
Non ebbi nemmeno il tempo
di fare progetti allora,
eri il mio impegno quotidiano,
l’unico, allietato dai petali volanti
e dai nostri silenziosi sorrisi.
Cinquant’anni dopo,
quasi per caso, ti cedetti il passo
in quel budello stretto,
ambedue ci girammo di colpo, e
istintivamente presi le tue mani
e carezzai le tue nocche,
anche tu non dicesti una parola
ma dolcemente, con un polpastrello
raccogliesti sul mio viso una lacrima.
Ciao Veronica…



TURMENTU

Dintra nna vesta tutta arraccamata
cu pizzi e trini carrichi d'argentu,
nna rosa la to facci di cassata,
l'occhi, li luci di lu firmamentu.

Comu nna gran Madonna si parata,
a brazzu vai d'un vecchiu a passu lentu,
ridi la vucca tua 'ncuraddata
mentri lu chiantu è trattinutu a stentu.

Darreri nna culonna di cummentu
chianciu la sorti mia disgraziata,
nesciu fora, circannu ca lu ventu,

ciusciannu, 'nta nna so vulata
pozza alluntanari ogni turmentu,
purtannusi sta vita sfurtunata.




Spero che le poesie siano state all'altezza della premessa. Se così non fosse, vi chiedo venia.

                                                                      Ottima lettura!

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