giovedì 26 febbraio 2015

LA SANGUISUGA - Racconto breve - 27. febbraio. 2015


















I Racconti del Borgo

Mario Scamardo



La sanguisuga


         Francesco un giorno ritornò dai campi in groppa al mulo, davanti casa smontò, tirò dalla bisaccia un fascio di biete selvatiche e le porse a sua madre perché le cucinasse, poi liberò il mulo dal basto, gli lavò gli zoccoli infangati, lo abbeverò e lo fece entrare nella stalla.

Dopo essersi lavato, attese che anche suo padre ritornasse con l’altro mulo dai campi. Le biete, pulite, risciacquate e sminuzzate vennero buttate nella pentola e quando la madre vi buttò dentro pure le fettuccine fresche, che con sapienza aveva  ottenuto da una sfoglia di pasta, sedette a tavola in attesa dell’unico piatto. A fine pasto, timidamente, annunciò ai genitori che era nelle sue intenzioni fidanzarsi, stante che aveva già assolto all’obbligo di leva da due anni, e il piccolo vigneto che aveva impiantato, era pronto a dare i suoi frutti.

Una sera Francesco, in compagnia di papà e mamma, dopo avere comprato un fascio di rose rosse, si recò a casa dei futuri suoceri e si fidanzò con Cristina, figlia unica anch’essa di due contadini così come erano i suoi genitori.

Il piccolo vigneto cominciò a produrre frutti, Francesco vendemmiò per tre anni di fila senza spendere un centesimo di quanto ricavato dalla vendita dell’uva, e una sera, davanti ad un unico piatto di ceci, chiese ai suoi genitori il permesso di sposarsi. Conti alla mano, centesimo su centesimo, pochi parenti per il convivio di nozze, mobili accomodati e casetta di due vani a piano terra, accanto alla stalla, e la sua famiglia si spostò il giorno successivo, in casa di Cristina, per concordare la data delle nozze.

Per i primi due anni la famigliola ebbe vita facile, poi, la bufera! Il mercato dell’uva crollò, il lavoro di bracciante scarseggiava e la gente si muniva di passaporto per emigrare nei paesi dell’America del sud, Argentina, Brasile, Venezuela, Uruguay. La vita in paese era diventata difficile, i soldi non bastavano mai, il lavoro nei campi non dava utili e il pancione pronunciato di Cristina che era in attesa di un lieto evento faceva andare in fibrillazione Francesco. Alla nascita della bambina i due giovani coniugi si videro costretti a trasferirsi a casa dei genitori di lui, vendere la loro casetta, munirsi di passaporto ed attendere; undici mesi dopo, la partenza della nave che li avrebbe portati prima a Caracas e poi in Brasile, a Rio de Janeiro, dove li attendevano dei conoscenti, partiti prima di loro, per una prima sistemazione.

La bambina venne affidata alla mamma di Cristina.

- Torneremo, lo facciamo per lei, la ripagheremo del dolore che stiamo per darle, qua non possiamo darle che miseria! Torneremo per riprenderla!

Non ebbe altre parole Cristina, col cuore straziato svezzò la bambina, la teneva stretta al seno anche quando dormiva, pur sapendo che con i nonni non avrebbe mai sofferto di nulla.



Valigie di cartone legate con spaghi, due zaini con gli alimenti e l’acqua e due biglietti di sola andata sul ponte di una motonave diretta in Venezuela! Straziante fu il distacco al molo di Palermo, si sentì mancare Cristina, Francesco staccò dal suo collo la catenina da cui penzolava un minuscolo Crocefisso e la mise al collo di sua figlia, poi si persero tra la folla che sventolava fazzoletti bianchi, tutti uguali, tutti con lo stesso ritmo. Dodici giorni di traversata, dodici di stenti, dodici di pianti, poi Caracas. Rimasti sulla nave Cristina e Francesco attesero che la stessa ripartisse il giorno dopo per Rio e novantasei ore dopo sbarcarono a Rio, incontrarono i conoscenti che li aspettavano e furono ospitati per una settimana, poi furono accompagnati a bordo di un camioncino a Teresopolis una piccola cittadina verso l’interno. Scesero dal camion in una azienda agricola e, presi gli accordi, senza conoscere la lingua portoghese, si misero al lavoro, lui come contadino, lei aiutava altre donne nella stalla e nella lavorazione del latte. Furono assegnate due stanzette e a fine settimana il capoccia del posto consegnò a Cristina 70 Real e a Francesco 95 Real, in totale 165 Real pari a circa 103.000 lire. Negli anni ’50 erano in Italia lo stipendio di un funzionario di banca, loro lo avevano guadagnato in una settimana. Considerando che la casa era gratis e che per il mangiare ci si poteva arrangiare, Francesco e Cristina cominciarono a sognare, progettando di ritornare in Italia con un bel gruzzolo e dare così un avvenire alla propria creatura. Il sogno durò un paio di semestri, poi la crisi! La fattoria in cui lavoravano andò in malora e l’inflazione colpì il Paese sudamericano, di lavori precari ne trovarono pochi e, prima che i loro risparmi finissero divorati dall’inflazione, comprarono due biglietti di terza classe, sul ponte della stessa nave patirono per sedici giorni gli stenti ed un mattino di marzo si ritrovarono sul Molo Santa Lucia a Palermo.

Ospitati dai genitori di Francesco, ricominciò la lotta per la sopravvivenza, ma in compenso potevano stringere al petto la loro bambina che già parlava e camminava.

Non avevano più la loro casa, ma rimaneva il piccolo vigneto che a malapena il padre di lui riusciva a coltivare. Una prozia di Francesco la zia Nunzia, si mosse a compassione, offrì gratuitamente una casetta di tre vani alla giovane coppia, i mobili erano vecchi, ma la cucina ed il forno erano funzionanti, gli fece attaccare la corrente elettrica, l’acqua c’era, gli regalò quattro sacchi di grano e si preoccupò di vestirgli la bambina, poi lo assunse come bracciante nella sua azienda. Francesco nei pomeriggi e nei festivi cercava di riattivare il suo fondo a vigneto, ma ci volevano i concimi, le arature, gli anticrittogamici e gli antiparassitari, non avendo un soldo, pensò bene di chiederli al fratello di sua madre, benestante in quanto strozzino, senza figli, che tutti chiamavano Pippinu a sancisuca, Peppino la sanguisuga, Zecchi per l’anagrafe, come sua madre. Nessuno avrebbe mai pensato che all’unico nipote, per giunta in difficoltà, avrebbe negato il prestito che gli sarebbe stato restituito ad ottobre, a vendemmia ultimata, a distanza di sette mesi. La sanguisuga titubò un po’, ma stretto dalla morsa delle pressioni della sorella e dalla signora Nunzia, concedette il prestito al nipote, centomila lire, però con un interesse di diecimila lire al mese, per cui ad ottobre Francesco avrebbe dovuto rendere allo zio centosettantamila lire. Francesco ritornò in campagna il mattino seguente, passò filare per filare le sue viti, e si rese conto che se trattate a dovere, avrebbe ottenuto almeno il doppio della cifra richiesta, se non li avesse accudite, non avrebbe raccolto nulla e il vigneto sarebbe andato perduto. Accettò il denaro dallo zio e si impegnò a pagare al trenta ottobre, capitale ed interessi.

La giornata di Francesco cominciava all’alba, due ore tra i filari del suo vigneto, poi fino alle sedici del pomeriggio, nei campi della signora Nunzia e, fino a quando faceva buio, ritornava al suo campo e la domenica si concedeva il pomeriggio libero e si godeva la sua bambina. Sia i suoi genitori che quelli di Cristina, aiutavano la coppia come potevano, un paio di scarpe per lei, un pantalone per lui, un vestitino alla bambina. A giugno il papà di Francesco mietette il suo modesto campo di grano e dopo la battitura ne portò dieci sacchi al figlio. Peppino la sanguisuga ogni tanto si faceva vedere in campagna, controllava se l’uva fosse ben curata e regolarmente ricordava al nipote:

- Ricordati che l’uomo ha una parola sola, preso l’impegno deve mantenerlo! Io con te sono stato benevolo, sei figlio di mia sorella, non ti ho chiesto di firmarmi delle cambiali per il prestito che ti ho fatto, ti ho fatto risparmiare anche il loro costo, ma alla puntualità ci tengo, il trenta di ottobre voglio che tu mi ritorni il denaro e gli interessi!

Sdegnato Francesco, non lo cacciava via per non fare un torto a sua madre, ma era tentato di mandarlo a quel paese in malo modo.

- Te li renderò fino all’ultima lira, anche se dovessi patire la fame!

Venne settembre e il venti di quel mese, aiutato dal suocero, dal padre e dalla moglie, Francesco vendemmiò per tre giorni interi la sua vigna, una produzione da record e quando andò a riscuotere presso la cantina a cui aveva venduto l’uva, intascò novecentonovantamila lire, aggiunse la settimana di paga che la signora Nunzia gli doveva e si presentò da sua moglie:

- Cristina, siamo milionari! Un milione e ventimila lire!

Portò i soldi allo zio, centosettantamila, con un mese di anticipo, la sanguisuga sostenne che l’impegno era per sette mesi e che i suoi soldi li prendeva tutti, senza alcuno sconto, il pattuito era pattuito! Francesco uscì per strada e riflettendo sul comportamento della sanguisuga decise che mai più avrebbe voluto incontrarlo!

La coppia comprò un altro terreno limitrofo al primo e con sacrifici lo impiantò e tre anni dopo, dopo la prima vendemmia della nuova vigna, consegnò la caparra alla signora Nunzia che vendette loro la casa rateizzando il pattuito in cinque anni senza alcun interesse e tutto sulla parola. Quando Peppino sanguisuga passava a far visita alla mamma di Francesco, qualcuno lo avvertiva e lui aspettava che uscisse per potere abbracciare i suoi cari. Era odio? No! Era solo sdegno per un usurario!

La bambina passò a comunione, Francesco invitò i pochi parenti che aveva tranne la sanguisuga e sua moglie, ricordava bene che quando era passato lui a comunione, lo zio si era scusato della sua assenza, e tutto perché avrebbe dovuto fargli un regalino, sostenendo che compleanni, onomastici, battesimi e quant’altro andavano festeggiati solo con i genitori e nessun altro!

Il tempo passa, a volte anche velocemente, Francesco si guardò allo specchio e notò che le sue tempie si coloravano di bianco, ma il tempo passava pure per lo zio Peppino, sempre più ricco e sempre più avaro, e quando la pesantezza degli anni cominciò a farlo barcollare, a capo chino si rivolse al nipote.

- Francesco, ricordati che nelle nostre vene scorre lo stesso sangue, io sono il fratello di tua madre, tu non mi parli da tanti anni, io non ti ho fatto nulla, solo del bene, quando hai avuto di bisogno me li sono tolti dalla bocca i soldi per darli a te, certo tu mi hai reso quei soldi, ma sono stati la tua fortuna. Ti ho chiesto gli interessi? Nessuna banca da soldi senza interessi, poi sappi che gli interessi che mi hai dato sono quell’utile che mi serve per vivere. Ora sono anziano, non vecchio ma anziano, andare dal medico o in ospedale mi costa fatica, non possiedo un’automobile, non so guidarla e acquistarla sarebbe stato un pessimo investimento, costo, manutenzione, carburante, bollo e assicurazione, garage da impegnare, una perdita secca! Quei soldi non avrebbero mai dato utili! Chiedo a te, anche dietro ricompensa del costo del carburante, di accompagnarmi se ce ne sarà di bisogno.

Francesco non rispose, quell’uomo gli faceva solo pena, schiavo del suo denaro! Non era mai entrato in un bar la sanguisuga, tranne che qualcuno non lo invitasse a prendere un caffè, per paura che toccasse a lui andare alla cassa. Spesso si fermava davanti la vetrina del pasticciere, ammirava le torte, i dolci, i grandi vassoi con i cannoli, ma non si era degnato mai di entrare, acquistarne due per portarli a sua moglie, ormai assuefatta a quel vivere. La banca in cui depositava i suoi denari l’aveva di fronte a casa sua, dieci passi, quella era la sua seconda casa, la sua chiesa, il suo circolo ricreativo, e anche se non doveva fare operazioni entrava, si avvicinava alla cassa, chiedeva informazioni e, forse, respirava a pieni polmoni il puzzo nauseabondo del denaro! Un Lunedi mattino uscendo di casa Francesco vide suo zio sull’uscio della banca, ne usciva o forse stava entrando, lo vide portarsi una mano al cuore e lo vide barcollare. Gli corse incontro e lo sostenne, lo aiutò a sedersi su uno scalino, non gli usciva la voce a Peppino sanguisuga, quasi un rantolo, allora cercò di sbottonargli la camicia, di allargargli la cravatta, ma Peppino aveva quella mano inchiodata sul cuore, pensò ad una angina pectoris, ad un infarto, lo caricò in macchina e lo portò al pronto soccorso. Peppino non volle togliersi la giacca, non riuscirono i medici a staccarli la mano che pigiava forte sul cuore, ma diagnosticarono un forte dolore intercostale dovuto ad un raffreddore, gli diedero qualcosa e lo dimisero. Quella mano destra sembrava immobilizzata sul costato. Dopo qualche chilometro nella via di ritorno, Peppino sanguisuga, reclinato sul seggiolino sembrò sonnecchiare e il suo braccio perse la rigidezza e scivolò lentamente. La mano non sosteneva il costato, ma il suo portafoglio gonfio come un otre e un rotolo di fogli da centomila grosso più di un pugno. Perse i sensi Peppino e Francesco prelevò dalla tasca interna della giacca ottanta milioni di lire in cartamoneta di grosso taglio e vaglia cambiari al portatore, li intascò e si fece aiutare a scendere suo zio dall’auto, constatandone l’avvenuto decesso.

Quei soldi erano maledetti, erano stati rubati con l’usura ai poveretti di quel paese, tanti, tanti e per troppi anni. Il mattino dopo la inumazione di Peppino sanguisuga, Francesco, senza dir nulla ad alcuno, si recò all’orfanotrofio delle Servi dei Poveri, contattò la superiora e le affidò la somma inventandosi che il dono era nelle ultime volontà dello zio.

- Madre, pregate per la sua anima! Questi erano soldi dei poveri, prima di morire ha voluto renderli ai legittimi proprietari, ai poveri che assistite, agli orfani. Cristo regni!

- Sempre, figliolo!

Francesco tornò a casa, abbracciò sua figlia e sua moglie, ma non disse nulla di quanto aveva fatto.

La vedova della sanguisuga ereditò un paio di miliardi di lire e per la prima volta si comprò un abito decente e, quando chiamò il nipote per dargli un ricordo dello zio, un bel po’ di banconote, Francesco le rifiutò e la convinse a donarle alla casa di riposo per anziani, affinché i vecchietti potessero godere di un po’ di benessere.

Quando fu ultimata la tomba di Peppino Zecchi, la moglie la abbellì con una grande lastra di marmo di Carrara dove campeggiava in cima un angelo dalle grandi ali, davvero una imponente scultura! Sulla lapide un epitaffio bugiardo: “Qui giace Peppino Zecchi uomo buono e generoso”. Pochi giorni dopo, qualcuno volle rendere l’epitaffio  veritiero, aggiunse con gli stessi caratteri: Tutti lo conobbero bene come “la sanguisuga”. Nessuno mai cambiò quella lapide, anche la moglie l’accettò, Peppino anche per lei, in vita, non aveva mai lasciato spazio alla spesa per un mazzo di fiori, e lei ne depose mai su quella tomba!




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                                              Grazie!

mercoledì 4 febbraio 2015

LA SUOCERA - Racconto breve - 04. febbraio 2015






















Mario Scamardo




I Racconti del Borgo


La suocera



Tutti, prima o poi, si ritrovano una suocera, la mamma dell’uomo o della donna amata. L’immaginario collettivo l’ha sempre vista come una figura deleteria nella vita della coppia; non c’è stato attore comico che non abbia affrontato il personaggio “suocera” per allietare la platea, ed anche il cinema non è stato da meno. La migliore commedia di Terenzio Afro in epoca romana fu Hécyra, incentrata sulla figura di una suocera molto generosa e tanto assennata, anche se il pubblico romano non la gradì perché incapace di cogliere il messaggio morale e l’introspezione psicologica dei personaggi. In Malaysia la suocera riveste un ruolo molto importante, è colei che unge col tika la fronte della futura nuora, in segno di benedizione.
Elina, cresciuta bene in una famiglia di agricoltori, era la più piccola di tre fratelli; già da quando aveva finito con successo la scuola media, mostrava i segni di una bellezza mediterranea, due occhi grandi e neri, una fronte larga, capelli corvini ed un sorriso a trentadue denti che arricchiva il suo fascino. Il liceo la portò alla maturità e gli spasimanti facevano la fila per intrecciare con lei una storia. Elina conversava con tutti, sorrideva a tutti, ma non sentendosi pronta ad affrontare impegni per il futuro, non affrontò nessuna storia che potesse chiamarsi tale. L’università? Lo desiderava molto frequentarla, ma la perdita repentina del genitore fece precipitare la famiglia in un disagio economico non da poco, allora Elina pensò bene di trovarsi dei lavoretti per poter racimolare almeno quei soldi per non gravare in toto sulla famiglia, un po’ estetista, un po’ truccatrice e qualche altro lavoro precario. Il tempo, sempre puntuale, la portò un giorno a pensare ad un futuro che non fosse vissuto da sola. In un supermercato un mattino si trovò faccia a faccia con un giovane, sceglievano lo stesso dentifricio e, quando Elina allungò la mano per prendere l’astuccio, la mano del ragazzo, che stava pigliando lo stesso astuccio, sfiorò la sua.
- Pardon!
- Di nulla, prego, faccia con comodo.
- Che buffo, prendevamo lo stesso dentifricio.
Elina sorrise, prese il dentifricio, poi si diresse alla cassa e dietro di lei quel ragazzo impettito, in giacca e cravatta. La cassiera batté lo scontrino.
- Due euro e quindici.
Elina aprì il suo borsellino, cercò gli spiccioli, ma aveva solo due euro, quattro monete da cinquanta centesimi, li ripose nel borsellino e consegnò alla cassiera una banconota da cento euro.
- Mi dispiace signorina, non ho il resto, provi a vedere se li ha spicci.
- Mi dispiace, ho solo due euro.
Il ragazzo tirò fuori i quindici centesimi e li porse alla cassiera.
- Li ho io quindici centesimi.
Elina imbarazzata ritirò lo scontrino ed attese che il giovane completasse la sua operazione alla cassa. All’uscita, tirò fuori il suo splendido sorriso.
- Grazie, lei è stato gentilissimo, permette? Io sono Elina.
- Io sono Doriano, non mi ringrazi, mi mette in imbarazzo.
- Sono spiccioli, ma io voglio renderglieli.
Il ragazzo sorrise, poi:
- Vuole ringraziarmi davvero? Allora mi consenta di offrirle un caffè, il bar è proprio qui di fronte.
- Davanti a tanta gentilezza non posso sottrarmi, accetto!


I due ragazzi sedettero ad un tavolinetto, ordinarono due caffè e dialogarono per una buona oretta. Lui l’accompagnò alla macchina, le chiuse lo sportello e prima che lei avviasse il motore:
- Elina, è stato un piacere averti incontrato, se posso osare, possiamo rivederci?
Elina lo fissò, quel giovane era davvero simpatico, ma soprattutto galante ed educato:
- Segnati il mio numero di telefono, mi fai uno squillo ed io memorizzerò il tuo.
Doriano eseguì e quando squillò il telefono di lei:
- Quando vuoi che ti chiami.
- Quando ti va, ma sempre di pomeriggio.
- Grazie, non sarò mai invasivo.
Ancora un sorriso ed Elina avviò il motore della sua utilitaria, poi, scomparve tra le viuzze.
La sera andò a letto molto presto la ragazza, ma il sonno non la colse subito, come un motivetto che non puoi toglierti dalla testa, il volto di Doriano le ritornava alla mente e lei non faceva nulla perché ciò non accadesse, sperò che trillasse il telefono, chissà, forse anche lui non riusciva ad addormentarsi, poi il sonno la colse e dormì profondamente. Al risveglio pronunziò sillabandolo il nome del ragazzo, poi fece la doccia e riordinò la sua attrezzatura di estetista nella sua enorme borsa. Davanti al caffè che la sua mamma le aveva preparato, fissò la tazza e scoprì una certa impazienza, il pomeriggio era lontano, l’avrebbe chiamata Doriano? Alle diciassette in punto il ragazzo la chiamò:
- Ciao Elina, come stai?
- Bene, grazie, e tu?
- Bene anch’io, scusami, forse ti ho disturbata.
- Per nulla! Stavo solo sfogliando una rivista di moda.
- Ti va di vederci?
- Si, ma dammi il tempo di cambiarmi, almeno venti minuti.
- Dove ci vediamo.
- Se ti fa piacere al bar dove ieri abbiamo preso un caffè.
- Allora fra venti minuti.
Chiuse il telefono Doriano ed Elina corse a vestirsi, prese la sua borsa e montò in macchina.
Fu quello il primo vero incontro tra i due, con meno imbarazzi, con sfilze di domande e serie interminabili di sorrisi.
Elina si innamorò di Doriano e lui di lei. Il ragazzo lavorava in uno degli uffici postali, non era suo concittadino, la sua famiglia risiedeva a cento chilometri di distanza e lui era soggetto a trasferimenti nell’attesa che la sua sede diventasse definitiva in una cittadina vicina a quella dei suoi genitori.
Fu un mattino di domenica che Doriano chiese ad Elina, se dopo il trasferimento definitivo volesse sposarlo. Elina chiese un paio di giorni di riflessione e poi acconsenti alla richiesta del suo amato. La ragazza informò i suoi del rapporto col ragazzo e lo stesso fece lui ed un pomeriggio Elina lo invitò a casa sua per farlo conoscere alla mamma e ai fratelli. Una settimana dopo fu la ragazza a varcare la soglia di casa dei genitori di Doriano. Mamma, papà, e due sorelle l’attesero, la fecero accomodare, la squadrarono da capo a piedi, la fecero parlare e l’unica il cui volto non fece una grinza fu la mamma del ragazzo, la sua futura suocera. Elina, intelligente, attentissima, non giudicò, attese gli eventi, aspettò che la futura suocera si scoprisse, nel mentre sorrise. Dopo due settimane ritornò la ragazza, in compagnia del fidanzato a casa dai suoceri, e mentre per Doriano furono abbracci e moine da parte della madre, per Elina furono le solite domande sulla scuola frequentata, sul suo lavoro precario, sui rapporti con la propria madre, qualche piccola pacca sulle spalle e nulla più. Elina non aveva minimamente pensato alla normale gelosia che hanno le mamme nei confronti dei figli maschi, un legame spesso morboso, una voglia di essere sempre al centro dell’attenzione. La signora Giulia, la mamma di Doriano era una bella cinquantenne, molto appariscente, con una voce tonante ed una personalità non indifferente, spesso seriosa, alquanto accigliata, con uno sguardo difficile da sopportare. Elina era quasi a disagio, Doriano non sembrava proprio suo figlio, dolce, pacato, raffinato nei modi. Non si spiegava perché tutte le volte che si recava a casa del ragazzo, rientrava a casa sua con un cerchio alla testa, talvolta era colta da nausea e da indigestione, il viaggio in macchina per cento chilometri? Forse! Ma al ripetersi degli eventi pensò a qualcosa di irrazionale, alla negatività di quella donna, quegli occhi così cupi della suocera la facevano vivere nel terrore. Non era simpatica alla suocera? Doriano sosteneva di si, ma lei non ci dormiva la notte e, da quando l’aveva incontrata per la prima volta, le erano successe delle cose molto strane, aveva perso un lavoro part-time, le si era bruciata la frizione nella sua utilitaria, le si era rotto il fornetto per fissare lo smalto alle unghia, aveva anche perso il suo sorriso. Parlò di tutto ciò con Marisa, la sua migliore amica, mostrò la foto della suocera che teneva nel suo telefonino, ne parlò col suo confessore che la rassicurò e la consigliò di non pensarci e di pregare, ma Elina non si dette pace, Doriano era la sua vita, il suo futuro. L’amore di una madre verso il figlio poteva generare negatività nei confronti di chi questo figlio glielo stava portando via con un amore diverso? La gelosia è una brutta bestia, può portare fino all’odio, e la ragazza si sentì odiata. Giovanbattista Marino  definì la gelosia: “Nel giardino dell’amor, loglio e l’ortica”.


Un sabato pomeriggio, munita di un piccolo Crocefisso attaccato ad una catenina, di un rosario benedetto ben riposto in tasca, Elina ripercorse con Doriano i cento chilometri che la portarono a casa della suocera, gli abbracci di rito e poi le solite domande talvolta senza senso, cenò e poi uscì col fidanzato in cerca degli amici per trascorrere la serata.


 Rincasarono e trovarono la suocera che, forse per ammazzare il tempo, faceva un solitario con le carte siciliane sul tavolo della cucina. Il marito? Apparentemente una figura di secondo piano, lavoro, commissioni, un pizzico di tv e un profondo sonno. La ragazza che sconosceva quel gioco diventò cupa, si irrigidì, e considerando la suocera una donna avvezza alla cartomanzia si segnò e strinse il rosario che teneva in tasca. La suocera si alzò dal tavolo e abbracciando il figlio lo sbaciucchiò ripetutamente. Elina si scusò e andò in bagno che era sul corridoio, di fronte. Quando stava per uscire sentì la suocera parlare animatamente col figlio, rimanendo dentro, lasciò la porta socchiusa per ascoltare:

- Doriano, il matrimonio è una cosa seria, io non le ho mai sentito dire qualcosa in questa direzione, prima di parlarne seriamente accertati che sia una ragazza a posto, che ami la famiglia, che accetti il peso che un matrimonio impone. Io non ho visto nulla di tutto ciò, quindi lei per me è una tra tante, una sconosciuta che tu mi hai portato in casa, e poi quel suo sorriso, mi fa rabbia la tua scelta, non mi hai chiesto un parere, un consiglio….
- Ma cosa dici mamma, Elina è una ragazza seria, educata, garbata, sempre col sorriso sulle labbra schietto e sincero.
- E’ quel sorriso che mi convince poco, si proprio quel sorriso!
- Mamma smettila, ora ho sonno! Finisci il tuo solitario se ti va, ottenuto il trasferimento ci sposiamo!
Giulia si accigliò, raccolse le carte e le cominciò a mischiarle quasi a scaricare il suo nervosismo.
- Ti ha incastrato a dovere la signorina! Impiegato, stipendio sicuro, gruzzoletto, un affare!.... E io che speravo….
- Buonanotte mamma, io vado a letto!
Elina uscì dal bagno e Giulia, convinta di non essere stata ascoltata le andò incontro:
- Cara, io vado a letto, la tua camera la conosci, se ti serve qualcosa in cucina, questa è casa tua! Dormi bene!
Non riuscì a rispondere Elina, avrebbe voluto esplodere, le tremavano le mani, strinse ancora il suo rosario e si infilò nella camera a lei riservata, si buttò sul letto e pianse fino a farsi venire il mal di testa. Il mattino seguente, all’uscita della doccia, notò che la sua borsa, lasciata sul letto rifatto, era stata rovistata, cosa cercava la suocera nella sua borsa o cosa le aveva messo dentro, e perché? Si rivestì Elina, attese che anche il fidanzato fosse pronto e  si recò in chiesa. Fu taciturna tutta la mattina, dopo pranzo si rimise in macchina con Doriano per ritornare a casa sua. Il mattino seguente corse da Marisa, la sua amica più cara e, tra un singhiozzo e l’altro, raccontò quanto aveva dentro.  Marisa, che le esperienze della vita avevano reso forte e razionale, non accettò l’idea di Elina di rivolgersi a indovini e guaritori per capire cosa la suocera eventualmente avesse operato contro di lei, la persuase che solo la gente ignorante e irrazionale ricorre a consultare chi delle debolezze degli altri ne fa un modo per spillare denaro agli stolti, la persuase invece di affrontare la suocera, chiarire e capire se davvero il suocero contasse poco o nulla in quella famiglia o se invece fosse all’oscuro dei comportamenti della moglie.
- Elina, invita i tuoi suoceri a casa tua, avvisami quando arrivano, verrò io a parlare col papà di Doriano, assieme a te, vedremo il suo reagire e poi si vedrà se affrontare di petto tua suocera.
- Tu pensi?
- Si Elina, a volte, di fronte a donne esuberanti, i mariti, per il quieto vivere si eclissano, magari sono innamorati ed anche molto. Tua suocera è una bella donna, ancora giovane, tranne che non abbia altra storia, ha un marito anch’esso giovane, un bell’uomo che certo non ha raggiunto la pace dei sensi! Proviamoci, può sembrare mogio mogio, ma anche lui ha a cuore il bene di suo figlio, proviamoci, vedrai, quello che può sembrare a prima vista un sottomesso, potrebbe esplodere e zittire tutti.
Elina invitò i suoceri a casa sua, li ospitò e quando dopo il pranzo tutti sedettero in salotto per il caffè, la ragazza invitò il suocero a farle compagnia in automobile per andare a prendere le sigarette. Nessuno si aspettava quella mossa, tanto che Doriano si offrì lui di accompagnarla, ma il padre si alzò, prese sottobraccio la futura nuora e disse:
- Vado io, anzi, dopo aver comprato le sigarette faremo un giro in paese per visitarlo.
Giulia guardò tutti negli occhi, ma poi riprese il dialogo con la mamma di Elina mentre sorbivano il caffè.
Suocero e futura nuora si fermarono davanti la villetta in cui abitava Marisa, scesero e furono accolti.
- Ti presento il papà di Doriano.
- Accomodatevi, vi aspettavo, ho mandato mio marito ad accompagnare i ragazzi.
Il suocero interrogò con gli occhi Elina.
- Si, mi permette di chiamarla papà?
- Certo figlia mia, ti ringrazio, prima o poi ci saremmo arrivati, anche se non sei obbligata, e se ti va chiamami soltanto Alberto, sarò contento lo stesso.
- Ho bisogno di parlarle senza sua moglie, in presenza della mia amica, ma soltanto perché io potrei non trovare le parole giuste.
- Prego!
Si accomodarono in salotto, il dialogo durò una ventina di minuti dove Elina con sicurezza svuotò tutto quanto aveva dentro e Marisa integrò quando la ragazza mostrò titubanze. Il suocero ascoltò attento, batté in segno di stizza le sue mani sulle ginocchia,  fissò Marisa negli occhi, poi alla nuora:
- Figliola, se ti dicessi che non ho colto i tuoi disappunti tutte le volte che ci siamo incontrati, ti direi una bugia, io non sono avvezzo a mentire e non mi piace l’ipocrisia. Amo mio figlio come la tua mamma ama te, né più né meno. Ho sposato tua suocera quando avevo venticinque anni, l’amavo e l’amo, così come credo mi ami lei; carattere esuberante il suo, spesso al limite della sopportazione, ma ho la certezza che ami alla follia suo figlio. Sai, le donne spesso si convincono che sono le uniche in grado di gestire la famiglia e allora considerano il compagno della vita un bagaglio, che serve quando serve, come uno strumento, che non deve pigliare parte alle decisioni importanti perché il loro senso pratico le rende del tutto autonome. Per evitare qualunque discussione spesso mi isolo, faccio finta di non sentire e di non capire, le lascio la convinzione di essere l’unica guida della famiglia, cosa vuoi figliola, a ciascuno la sua croce! Ne ho parlato a letto la sera con mia moglie del futuro di Doriano, che ritengo sia anche il tuo futuro. Sarò estremamente sincero, ti stimo più di quanto tu non possa immaginare, ma ti do la consegna del silenzio su quello che sto per dirti. Mia moglie, aveva nella sua mente una ragazza, vicina di casa, laureata in giurisprudenza, di buona famiglia, figlia di amici, da fare sposare a suo figlio, ma lui si è innamorato di te, quasi avesse fatto un torto a sua madre. Non ce l’ha con te ma con suo figlio che quasi l’ha tradita. Io ti voglio tranquillizzare tu sposerai Doriano se lo vorrai, nessuno dovrà mettersi di traverso, Giulia pian pianino diventerà non soltanto docile ma dolce, perché quando vuole sa esserlo, anche se per te potrebbe diventare difficile perdonarla, ma a questo provvederà il tempo che è ottimo guaritore. Non vivrai con noi, dopo il trasferimento di mio figlio compreremo casa nel paese dove risiederete, io non ho nulla da chiederti, solo che quando potrete  andrete a pranzo dai genitori, a casa mia o da tua madre. Di quanto ti sto dicendo io, se Iddio vorrà tenermi in vita, sarò il garante! Non incrudirti, non farti avvinghiare dai risentimenti, non pensare a vendicarti quando lo potrai fare, credimi, non paga la vendetta! Difficile da digerire mia moglie, spesso parla senza riflettere, io ormai ci ho fatto il callo, ma io l’amo, tu non sei tenuta ad amarla, ma ti consiglio di rispettarla, il legame tra madre e figlio non spezzarlo mai, anche tu diventerai madre, allora forse proverai a capirla, e anche tu col tempo diventerai suocera e sarai costretta a dividere l’amore di tuo figlio con un’altra donna. E’ la vita che nei suoi cicli ci offre sempre ruoli diversi!
L’uomo non disse più nulla, ma Elina sapeva che i siciliani quando danno la loro parola la mantengono fino alla morte!
Elina guardò negli occhi il suocero, si alzò, lo abbracciò e lo baciò più volte. Il maturo signore non diede spazi a nessuno essendo stato del tutto esaustivo. Si licenziarono la ragazza e il suocero da Marisa, e prima di salire in macchina l’uomo disse alla ragazza:
- Ora passiamo dal tabaccaio, io non fumo ma lei si, le porterò due pacchetti di sigarette, così nessuno sospetterà dei nostri discorsi.
Quattordici mesi dopo Elina e Doriano vennero uniti in matrimonio e abitarono nella  casa che il padre di lui aveva regalato loro.  Elina rispettò il suocero come se fosse stato suo padre, ma ci volle tanto tempo per regalare uno dei suoi splendidi sorrisi alla suocera.




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