sabato 20 aprile 2013

LA PREFICA (Racconto breve)





L'usura, una piaga che affligge l'intero mondo. L'usura si coniuga spesso con l'avarizia, vivono in simbiosi e allignano sul terreno dell'aridità e della non cultura.



Mario Scamardo




I RACCONTI DEL BORGO





LA PREFICA





     Quando don Peppino Mocco l’usuraio fu colpito da infarto, la signora Paolina, sua moglie, cominciò a trovarsi fra le mani le prime banconote di grosso taglio. Non ne aveva mai vista una che superasse la soglia delle cinquemila lire e, a fine settimana era obbligata a rendicontare al marito ogni spesa, dall’ago al rocchetto di cotone, dalla saponetta alla lampadina che s’era fulminata. Non aveva parenti Peppino Mocco oltre a sua moglie, o meglio, li aveva ma stante alla sua avarizia e alla nomea di strozzino, nessuno da anni l’aveva più avvicinato, e lui di ciò era felice, in quanto non aveva mai nessuno a pranzo, non faceva regali, non gli gironzolavano bambini per casa, non doveva provvedere neppure ad acquistare delle caramelle. Costretto dallimmobilità a letto, istruì la signora Paolina sulle scadenze di riscossione dei malcapitati a cui aveva prestato del denaro a tassi elevatissimi, le consegnò una scatola di scarpe piena di cambiali da portare in banca alle scadenze segnate ma non le affidò una chiave che portava appesa al collo con la quale apriva un bauletto in metallo riposto sotto il letto contenente parecchi milioni di lire in banconote di grosso taglio, mazzette da cinquecentomila, mazzette da centomila, mazzette da cinquantamila e mazzette da ventimila, una fortuna!
     Quando dopo un paio di mesi il respiro diventò affannato don Peppino acconsentì che uno specialista cardiologo venisse da Palermo e lo visitasse a casa sua ma, ultimata  la visita, dopo che il professionista gli prescrisse i farmaci, lanziano usuraio ebbe quasi un collasso nel sentire che la parcella era di quattrocentomila lire, tirò da sotto il cuscino un portafogli, cacciò fuori quattro biglietti da cento e non rispose neppure al saluto del medico che usciva. Fino a sera non disse una parola, era come se gli fosse morto un parente caro e, quando la moglie gli portò su un vassoio una pastina, per il dispiacere rifiutò di mangiarla, allungò la mano sul comodino, prese la ricetta con lelenco delle specialità prescritte e le contò:
- Otto pillole diverse per trenta giorni, otto scatole, vuole rovinarmi questo dottore!  Io i soldi li ho sudati, sono stato un pazzo a farmi visitare!
La moglie non disse una parola, gli rimboccò le coperte e nellaltra stanza continuò ad appuntare scadenze e mettere in ordine cambiali, nessuno comprò mai quelle medicine.
     Peppino Mocco aveva frequentato le elementari fino alla terza classe, ma in quasi cinquantanni di usura era diventato un esperto di aritmetica, aveva cominciato col libretto dei conti fatti ma lesercizio di quellorrenda professione lo aveva portato a calcolare ratei, interessi e percentuali a memoria, senza mai incorrere in un errore. Lesborso di qualunque cifra, anche modestissima, anche la bolletta della luce, gli procurava malesseri, lo faceva star male e lo faceva innervosire, spesso non parlava neppure con la moglie e se la bolletta era un po salata, allora cominciava a spegnere le luci di casa, sollecitava la moglie di stirare solo le camicie e, non le aveva mai comprato una lavabiancheria perché sosteneva che la moglie si sarebbe annoiata senza far nulla. Quando gli portarono a casa un frigorifero, si informò oltre che sul prezzo, sul possibile consumo, allora lo fece portare indietro cambiandolo con uno piccolissimo, uno dei frigobar che si trovano negli alberghi. Anche quando comprava la carne ne ordinava due fettine che non superassero 150 grammi, si giustificava col macellaio che anche sua moglie aveva una predisposizione alla gotta.
     Un mattino la signora Paolina nel portare la colazione al marito si accorse che la difficoltà respiratoria era accentuata, gli sollevò il capo e timorosa gli chiese:
- Peppino, credo che tu debba riflettere un pochino sul tuo stato di salute, che importa quanto costa la visita dello specialista, tu continui a peggiorare!
Con un filo di voce don Peppino rispose:
- Magari comprami quelle medicine, ritornando il medico, sempre quelle mi prescriverebbe! Perché farsi rubare i soldi?
Nel paese i debitori seppero la notizia e quasi tutti tirarono un sospiro di sollievo, e tutti da quel momento passavano a chiedere interessati sul suo stato di salute ed in cuor loro speravano che il Mocco tirasse le cuoia, ma quando parlavano fingevano dolore e preoccupazione.
     Quando la signora Paolina spazzava luscio ed il marciapiedi, regolarmente transitava Eufemia, si fermava, chiedeva del marito e facendo dei strani segni, si allontanava a capo chino. Eufemia era considerata in paese una guaritrice, toglieva il malocchio, curava le storte alle caviglie o ai polsi, recitava gli scongiuri contro il morso delle api, delle vespe, dei serpenti, preparava pozioni contro lo spavento e quelle per sciogliere o legare una coppia di fidanzati. Quando moriva qualcuno, veniva chiamata assieme a sua figlia, che era gibbosa, in qualità di prefica, per piangere il morto al posto dei parenti. Per questultima attività si faceva pagare duemila lire allora e duemila per la figlia, per tutte le altre non riscuoteva denaro ma solo qualche dono in alimentari di ogni genere.
     Quando un mattino vide davanti luscio la signora Paolina, come al solito si avvicinò e le chiese di visitare il marito, dopo avere fatto dei gesti strani. La moglie di don Peppino la fece accomodare, si recò dal marito, gliene parlò e, considerato che la sua opera era gratuita, accompagnò Eufemia in camera da letto.


 Sedette ai piedi del letto la prefica, si segnò ed invitò ambedue a segnarsi, poi recitò una preghiera strana ad una santa e chiese alla moglie di portarle un piattino con lolio, una saliera, un moccolo di candela e tre spicchi daglio, quindi si raccolse in meditazione. Don Peppino seguiva, forse era scettico, ma per il semplice fatto che tutto non gli costava il becco di un quattrino, la fece operare e, quando la donna, leggendo le scatole delle compresse disse che erano stati soldi sprecati, ricevette lassenso col capo del paziente.
Accese la mezza candela, pose i tre spicchi daglio sulla fronte del Mocco, intinse il dito nellolio, poi lo infilò nella saliera, scostò il pigiama e gli strofinò il dito sul cuore tracciando trentatrè croci, quindi si fermò. Gli occhi della prefica si posarono sulla chiave attaccata ad una catenina al collo di Peppino ed il suo piede toccò  il piccolo baule sotto il letto e, quando si abbassò  per rimboccare le coperte, lo vide nella sua interezza. Notò il portafogli gonfio sotto il cuscino, ma avvertì la moglie:
- Signora Paolina, stia attenta, il portafogli di suo marito sta per cadere a terra.
Lusuraio con un gesto rapido lo spinse un po più sotto e con gli occhi ringraziò la donna.
- Domattina ritorno, fatemi trovare una bacinella con un po di acqua tiepida, lolio e un asciugamano bianco. Non c’è alcuna fattura, solo un pizzico di malocchio, ma lo toglieremo in tre giorni.
Stranamente, don Peppino si sentì sollevato da quelle parole, e ordinò alla moglie di regalare ad Eufemia un pezzo di caciocavallo che era in un armadietto della cucina.
Passarono i tre giorni e lusuraio chiese alla sua donna di chiamargli il notaio che arrivò in serata per registrare le sue volontà.
- Voglio che nessuno dei miei parenti abbia un soldo, quindi a cominciare da questa casa, tutto deve andare a mia moglie nelleventualità che dovessi morire; qualora morisse prima lei, lascio erede universale la mia parrocchia, a condizione che  alla mia morte, nessuno si presenti a rendere omaggio alla mia salma, non ho visto i parenti in vita, non voglio che siano presenti alla mia morte, si trasformerebbero in sanguisughe, mignatte voraci, lupi famelici, zecche! Voglio essere pianto, pianto tanto, ma solo da Eufemia la prefica e da sua figlia, con una veglia di quarantotto ore, per cui saranno pagate novantaseimila lire alla madre e altrettante alla figlia, per un totale di centonovantaduemila, arrotondate a duecentomila perché desidero lasciare un segno tangibile della mia generosità, quattromila lire di regalia, voglio che la gente continui a ricordarmi dopo il mio trapasso!
Come se avesse avuto un presentimento, uscito il notaio, don Peppino Mocco reclinò il capo e nella notte passò a miglior vita.
Furono avvertite le prefiche ed il prete e la moglie sbarrò la porta per non consentire laccesso ad alcuno, ma finalmente tutte le luci di quella casa si accesero contemporaneamente.
In tanti si soffermarono sulluscio, e si sentirono i pianti strazianti di Eufemia e di sua figlia, non un mazzo di fiori, non una candela, non un lumino, don Peppino non avrebbe consentito tanti sprechi, anche le lapidi per lui erano illusione per i vivi. 


Nel pieno della notte, mentre la signora Paolina dormiva su una vecchia sdraio, Eufemia staccò dal collo dellusurario la chiave, tirò fuori il bauletto, lo aprì e sistemò quasi tutte le banconote attorno al gibbo della figlia, ripose il baule e risistemò la chiave attorno al collo del defunto poi, si rimise a fare i versi strazianti. Quando il carro funebre si presentò alla porta, la gente era tutta sugli usci, capannelli di persone agli angoli della strada non si davano spiegazione del fatto che nessuno aveva varcato quella soglia per rendere omaggio ad una salma, ed anche il prete si fermò a far capannello e si informò sullaccaduto, e la domanda fu sempre la stessa:
- A chi li lascia tutti i suoi soldi? In banca avrà depositi per miliardi! Chi sarà il fortunato?
Ed anche il prete si pose una domanda:
- Chissà, avrà lasciato qualcosa alla parrocchia?
Don Peppino non andava in chiesa proprio per non dare lobolo!
     Sistemata la salma nella cassa, Eufemia fece uscire la figlia e le raccomandò di andare a casa e di chiudersi dentro fino al suo arrivo, poi si portò nel soggiorno e mentre la moglie dava lultimo sguardo al marito, in attesa che saldassero la bara, raccattò la scatola con le cambiali e sgattaiolò fuori dirigendosi verso casa, il tempo giusto di nasconderla in un posto sicuro e ritornare indietro per accompagnare il morto in chiesa.  Mossi da pietà cristiana, prima alcuni uomini, poi delle signore formarono un piccolo corteo.
Nessuno cercò Eufemia, che scomparve con la figlia per un po di giorni, poi ricomparve e contattò ad uno ad uno i firmatari delle cambiali a favore di Peppino Mocco, contrattò con loro il dieci per cento del valore del titolo in cambio del titolo stesso con limpegno della segretezza delloperazione.  Un bel gruzzoletto, in sei mesi intascò circa trenta milioni di lire.
Tranne pochi, quelli che non erano in debito con Peppino Mocco, si chiesero perché Eufemia avesse rinfrescato la sua casa con un bel prospetto e avesse cambiato i mobili, ognuno manteneva il suo segreto e sfuggiva alle domande.
Eufemia continuò il suo lavoro di guaritrice, continuò a recitare gli scongiuri, a togliere il malocchio e a piangere davanti alle salme. Un mattino fece operare la figliola in una clinica da un ottimo neurochirurgo che le raddrizzò la colonna, riducendo al minimo la scoliosi ed azzerando quasi la gibbosità. Quei soldi prelevati dal bauletto dellusuraio erano serviti a rendere felice una fanciulla. Eufemia non se la sentì di tenersi il resto della somma, sapeva che la signora Paolina aveva ereditato una fortuna, ma lei aveva sulla coscienza quellappropriazione di denaro e ne sentiva il peso. Passò un mattino da una casa di riposo per anziani gestita dalle suore, parlò alla madre superiora e confidò del suo proposito di devolvere a quella struttura tutti i soldi che le rimanevano, inventandosi una piccola bugia, dicendo che in punto di morte le erano stati affidati da don Peppino Mocco per donarli ai vecchi pensionanti della casa. Volle trattenere per se appena i soldi per una piccola lapide in marmo che fece scolpire.
Tre giorni prima della commemorazione dei defunti si recò  al cimitero, davanti alla tomba del Mocco, si segnò e lesse:
Qui giace Peppino Mocco uomo di mirabili virtù, la moglie pietosamente  pose. Mirabili virtu? La pietà piglia sempre il sopravvento e le lapidi sono quasi sempre bugiarde, la verità quasi sempre rimane attaccata negli attrezzi dello scalpellino. In vita luomo può essere deriso, beffeggiato, schernito, ingiuriato, ma al suo trapasso, tutto si annulla e allora, anche il peggiore degli uomini diventa buono, degno, pieno di virtù!
Eufemia si inginocchiò, scartò la sua piccola lapide con la scritta uomo generoso, tirò un tubo di mastice dalla borsa e la incollò di seguito alla scritta preesistente poi, accese un lumino. Si segnò nuovamente e, prima di allontanarsi, quasi sottovoce sussurrò:
- Grazie don Peppino, grazie dalla prefica e da sua figlia, ora puoi riposare in pace!




Si può ironizzare anche sulla morte? ... Vi auguro una ottima lettura.

sabato 6 aprile 2013

IL LADRO DI LUMINI (Racconto)





















Mario Scamardo



I RACCONTI DEL BORGO



IL LADRO DI LUMINI




          Alberto aveva appena sette anni quando nel 1957 una brutta influenza, l’asiatica,  gli rubò ambedue i genitori.

La sua anziana nonna lo prese con se e lo accudì finché ebbe le forze.


 Una misera pensione da bracciante e una piccola resa scaturente dal fatto che le due capre che erano del papà di Alberto, producevano quattro litri di latte al giorno e con la vendita del latte le consentivano di non far mancare mai nulla sulla tavola del fanciullo. Nell’orticello accanto alla modestissima casa crescevano rigogliosi alcuni ficodindia e tutt’attorno cresceva buona erba. Dopo un mese che le capre partorivano, nonna Laura vendeva i due capretti e tanto le serviva per vestire il fanciullo e comprargli libri e quaderni.

     Alberto a scuola seguiva con impegno e meritava, ogni tanto, che il suo anziano maestro passasse da casa della nonna e si complimentasse con lei.



 Una volta la domenica, dopo la messa mattutina, in compagnia della nonna si recava al cimitero, liberava la piccola lapide con le foto dei genitori dagli aghi di pino che cadevano sul viale, tirava dalla borsa della nonna un lumino e la scatola degli zolfanelli, lo accendeva e lo posava ai piedi della tomba riparandolo dalle correnti d’aria, affinchè non si spegnesse e si consumasse per intero.

     Giunto il momento di prepararsi a fare la prima comunione, Alberto iniziò il suo corso pomeridiano di catechismo, nella sacrestia della parrocchia tenuto dallo anziano sacerdote padre Salvatore. Il premio dopo la lezione di catechismo era una fetta di pane con una spennellata di crema al cioccolato preparata dalla sorella nubile del sacerdote ed una buona ora di giocare al calcio-balilla o a tennis da tavolo in oratorio. Dopo circa un mese padre Salvatore introdusse il tema della pietà, del sentimento di compassione che si prova davanti alle sofferenze degli altri, della commiserazione e della misericordia, della devozione e del culto e, a proposito del culto, accennò a quello per i defunti, al loro ricordo, al modo di esternare l’affetto per loro, testimoniato con le visite ai cimiteri, al dovere di ricordarli nelle preghiere, ai fiori da deporre sulle loro tombe, ai lumini da far ardere. Alberto ascoltò il suo parroco e capì un po’ di cose che per lui erano solo abitudini e nulla più. Consumata la fetta di pane con la crema di cioccolato, invece che cercarsi il compagnetto per una partita al bigliardino, si avvicinò a padre Salvatore e chiese il permesso di parlargli in disparte.



 Il sacerdote incuriosito, lo portò con se in chiesa, ambedue si segnarono e sedettero su un banco.

- Dimmi figliolo, cosa vuoi chiedermi?

- Nulla padre, una inezia, lei oggi ha parlato della pietà, del culto, di quello dei defunti. Io vado tutte le domeniche, dopo la santa messa, in compagnia della nonna, al cimitero. Porto due o tre garofani raccolti nell’orto, ed un lumino che accendo ai miei genitori, avendo cura di ripararlo per farlo consumare fino in fondo, ma mi accorgo che tutt’attorno i lumini non si consumano del tutto e nessuno si preoccupa, una volta accesi, di ripararli dal vento.

Il sacerdote, quasi a volerlo rincuorare, gli rispose:

- Alberto, l’importante è che i parenti si ricordino dei loro morti, il buon Dio apprezza il loro gesto, che è quello che conta, se poi i lumini non si consumano del tutto, pazienza,

quella è un’inezia, il valore sta nelle intenzioni non nel consumarsi a fondo del lumino.

- Sa, padre, mia nonna salta una volta la settimana la sua colazione e col latte che risparmia compra una confezione da quattro lumini.

Il sacerdote lo accarezzò, infilò la mano nella tasca della sua tunica e tirò fuori una caramella.

- Vieni con me, andiamo in sacrestia. Tanti parrocchiani tutte le settimane provvedono alle candele per la chiesa, portano tanti lumini, proprio in confezioni da quattro, te ne darò quattro confezioni, le porterai alla nonna e le dirai che non rinunci alla sua colazione, il buon Dio non consente che ci si privi degli alimenti. Il lumino acceso è soltanto un simbolo, una testimonianza, un mezzo che ci permette di compiere un atto di pietà.

Accompagnò il ragazzo sul sagrato e lo guardò allontanarsi verso casa, rientrò in chiesa, si inginocchiò e pregò.

     Un mattino, mentre la nonna era nell’orto a mungere le due capre, Alberto prese da una vetrinetta un lumino, si munì di un coltello, incise la carta cerata che avvolgeva il cilindro, lo tirò fuori, notò che in fondo c’era un lamierino rotondo con un foro al centro dove usciva lo stoppino, poi tagliò il cilindro in due e si rese conto di come era fatto, avvolse il tutto nella carta del pane e lo ripose nel cassetto del suo comodino.

     La domenica successiva, si recò come al solito al cimitero con la nonna e, dopo aver compiuto il rituale pietoso accompagnò la vecchietta a casa e ritornò in quel luogo consacrato.




 Il vecchio guardiano era sempre seduto sulla soglia della guardiola, la sua pipa fumava come una vecchia locomotiva, vedendo rientrare Alberto gli disse:

- Hai dimenticato qualcosa figliolo?

- No signore, ho voglia ancora di pregare sulla tomba dei miei genitori.

- Capisco, sono cinquant’anni che vivo in mezzo ai morti, mi portano da mangiare i miei figli, mi portano la biancheria, il sapone, qualche frutta, da quando mia moglie è qui, ci dormo pure, ogni tanto sento il bisogno di parlarle, allora mi siedo sulla sua tomba e comincio un lungo monologo, poi raccatto tutti fiori appassiti e cerco di riaccendere qua e la i lumini spenti, ma il vento, quasi a dispetto, li spegne e sento l’odore della cera che brucia mentre fuma lo stoppino. Sai, il silenzio qua è imperante, gli unici rumori sono quelli delle pigne che cascano di tanto in tanto e, nelle giornate uggiose il gracchiare delle taccole sulle cime dei cipressi. E’ strano, ragazzo mio, qui è sempre primavera, tutto pieno di fiori, tutti i giorni, ed io so in che periodo dell’anno siamo, proprio guardando i fiori, rose e margherite nella bella stagione, crisantemi e tulipani in inverno. Lumini consumati nella bella stagione, lumini spenti in inverno, questo è il mio calendario.

      Alberto sorrise, aspettò l’ulteriore folata di fumo che fuoriusciva dalla pipa del guardiano e percorse il viale centrale. Si fermò a guardare ogni tomba, arrivò in fondo al grande viale, poi percorse tutti i camminamenti, come se cercasse qualcosa, accanto ad una cappella gentilizia sovrastata da un grande angelo in marmo bianco, contò più di venti lumini, nessuno acceso, solo un paio consumati a metà, il resto appena accesi e poi spenti. Riprese il vialone centrale, si avviò all’uscita e, dopo avere salutato il vecchio guardiano, si avviò verso casa.

     Alberto pensò che fosse ora di imparare un mestiere, si recò dallo stagnaio che aveva bottega accanto alla chiesa e chiese se poteva imparare quel mestiere, stagnare le pentole di rame, saldare i manici nelle pentole di alluminio, confezionare imbuti in lamiera zincata, confezionare “quartare”, recipienti per l’acqua, e una serie di piccole riparazioni ai suppellettili di metallo. Lo affascinava la forgia e il mantice che alimentava la fiamma fino a far diventare il metallo di colore bianco.  Dopo la prima settimana, lo stagnaio infilò la mano nella tasca del suo grembiule e gli diede la prima paghetta, duecento lire, l’equivalente di due litri di latte. Alberto imparò subito il mestiere e la sua paga diventò dopo tre mesi di mille lire, dieci litri di latte, allora pensò di valere quanto una capra.

     Quando lo stagnaio andava fuori a montare una grondaia o qualcos’altro, Alberto con le cesoie ritagliava dalle strisce inutilizzate della lamiera, tanti piccoli tondini sul modello di una moneta da cinque lire, li forava al centro e li conservava in un sacchetto. Poi confezionò una piccola pentola con in cima un imbuto dalla cannuccia sottile. Un  pomeriggio passò dal merciaio e comprò due grossi gomitoli di spago bianco, un po’ di fogli di carta cerata di colore rosso ed paio di cartoncini anch’essi cerati .

     La sua cartella di cartone pressato era ancora attaccata in fondo ad una parete della sua cameretta, la liberò dal sussidiario, dai quaderni, dal suo libro di lettura e la spolverò. La domenica mattina, dopo avere riaccompagnato nonna a casa, sgattaiolò dentro il cimitero e, tomba per tomba, raccolse tutti i lumini spenti, aspettò che il vecchio custode si allontanasse e ritornò senza destare sospetti . Fuori, nell’orto, si mise a lavorare ai fogli di carta, al cartoncino, ai fondelli in lamierino dotandoli dello stoppino, si procurò della colla e, quando i recipienti furono pronti, sciolse la cera nella sua pentola e la versò, aspettando che si raffermasse. Era meticoloso nel suo lavoro, i lumini sembrava fossero usciti da una fabbrica, non avevano una scritta, ma erano perfetti. Si trovò una scatola e li portò da una vecchia merciaia che glieli pagò venti lire ciascuna per poi rivenderle a quaranta.

Seicento lire, una bella cifra, calcolò che cento lire gli era costata la carta oleata, il cartoncino e lo spago, allora pensò che si poteva fare di più, anche perché la nonna, in condizioni precarie di salute, non poteva più badare alle due capre, non poteva più mungerle e non poteva più tagliare l’erba o raccogliere le pale dai fichidindia. Un pomeriggio di sabato si recò in chiesa e raccontò al suo parroco tutto quanto. Il vecchio sacerdote sorrise, lo condusse in sacrestia, aprì una cassa dove c’erano tutti i mozziconi di candela, tanti, ma tanti da potere realizzare centinaia di lumini e gli disse:

- Porta un sacco domani, questi mozziconi sono tutti tuoi, io te li conserverò ed una volta al mese li verrai a ritirare.

- Grazie, padre Salvatore, ne confezionerò una scatola solo per la chiesa.

Il sacerdote sorrise, lo portò davanti un altare della navata di destra e gli fece notare che i lumini rossi senza alcuna scritta erano già arrivati in chiesa da parte dei fedeli.

- Non portarli, vendili alla merciaia, qualcuno li porterà qua, molti si spegneranno e io li metterò nella cassa dei mozziconi,  ed il ciclo ricomincia.



     Alberto programmò il suo lavoro in maniera che, durante la settimana avesse pronti i lumini vuoti e la domenica pomeriggio potesse colarvi dentro la cera, mentre al mattino, ancor prima che fosse pronta la nonna, scavalcando il muro di cinta, raccoglieva tutti i lumini spenti.

Confezionare lumini fu un lavoro, ma anche un gioco, il ragazzo difficilmente si trastullò con i compagni della sua età, volte sporadiche all’oratorio.

     Il vecchio custode del cimitero, che ogni mattina passava in rassegna tutte le tombe, notò che mentre i fiori, secchi o freschi inondavano quel camposanto, i lumini scomparivano e quelli che c’erano risultavano sempre accesi. Strano, pensò, i parenti sono diventati tutti diligenti da togliere quelli spenti e lasciare quelli accesi, e perché no con i fiori appassiti! Controllò i cassonetti della spazzatura posti sul viale centrale ma non vide l’ombra di un lumino spento, diede un paio di boccate alla pipa e si preparò mentalmente per scoprire il mistero. Ogni pomeriggio prima della chiusura faceva il suo giro, lumini accesi e lumini spenti ma, la domenica pomeriggio notò che erano spariti i lumini spenti, allora nella notte del sabato il ladro aveva passato in rassegna le tombe! Calzò il suo vecchio pastrano di velluto a coste, calcò sul capo il suo cappello gallonato e, pipa in bocca, si recò alla stazione dei carabinieri che distava appena cento metri, bussò, entrò e raccontò al comandante di stazione quello che era accaduto.

- E voi pensate ad un ladro che ruba i moccoli dei lumini?

- Si maresciallo, non è mai successo, sono cinquant’anni che nessuno piglia qualcosa dal camposanto!

- Ma voi non credete agli spiriti!

- Comandante, io ci dormo i sonni più tranquilli in quel luogo santo, non ho mai visto muovere una foglia! L’unico rumore lo fanno le taccole e i corvi nelle giornate uggiose.

- Ma voi avete visto mai i corvi mangiare la cera, o le taccole, o i conigli?

- Mi avete messo un dubbio in testa, da un po’ di tempo vedo anche delle gazze, un bel numero di gazze che prima non c’erano, io non so se le gazze mangiano la cera.

- Va bene, lei controlli le gazze, noi faremo delle indagini, se sapremo qualcosa le faremo sapere.



Il vecchio custode si alzò, tirò fuori la scatola degli zolfanelli, accese la sua pipa, inondò la stanza di fumo, salutò ed imboccò l’uscita. Il comandante di stazione guardò in faccia il carabiniere che aveva appuntato su un brogliaccio il racconto e sorridendo disse:

 - Bisognerà interrogare taccole corvi e gazze, povero vecchio, sarebbe ora che andasse in pensione.

Il mattino dopo il maresciallo si incontrò in farmacia col parroco e per strappargli un sorriso gli raccontò dell’incontro col custode del cimitero. Il parroco che sapeva di Alberto disse al comandante:

- Vedrà, oggi pomeriggio verrà da me, ritenendomi uno che conosce lo scibile umano, mi chiederà se le gazze sono ghiotte di cera, ed io gli dirò che sono ghiotte e che non mangiano i lumini accesi perché hanno paura del fuoco.

Il comandante sorrise, gli strinse la mano e andò via.

Dopo l’incontro col sacerdote, anche il vecchio custode si convinse che bisognava sistemare nel cimitero dei dissuasori per le gazze e la voce del ladro di lumini si sparse per l’intero paese. I parenti si diedero un gran da fare, si attrezzarono di mortaretti a tempo da sistemare accanto alle tombe, di fischietti che ad ogni quarto d’ora sibilassero al soffio di bombolette, di marchingegni a pila che facessero frastuono. Il sindaco, allertato dai cittadini, convocò il consiglio comunale ed ordinò persino al comandante dei vigili di censire gazze, piccioni, corvi, taccole e segnalare la presenza di eventuali uccelli strani.

Il vecchio custode sembrò soddisfatto, ma il suo sonno non fu più tranquillo, fischietti, mortaretti, piccole sirene, marchingegni vari, lo svegliavano ad ogni ora, la sua pace non era più. Avvilito, una notte smontò tutte le sorgenti di quel continuo frastuono, accatastò tutto in un angolo e si recò in paese, dal barbiere, grossa camera di risonanza, per dare la lieta notizia che il ladro di lumini era stato sconfitto, con la sua armonica a bocca, quando arrivavano le gazze, intonava una marcetta militare e gli uccelli volavano via lasciando intatti i lumini.

Alberto, consigliato dal suo parroco, lo andò a trovare una mattina e disse al vecchio custode che avrebbe provveduto lui a togliere i lumini spenti, per evitargli di ricorrere allo stratagemma dell’armonica e per far si che le gazze si abituassero a cercare altrove le loro prelibatezze. Il vecchio non potè tirarsi indietro e il ragazzo, da quel giorno, con la sua autorizzazione, tolse tutte le domeniche, al mattino, tutti i lumini spenti, evitando così alle gazze di rubarle.



Ottima lettura, se vi va, lasciate le vostre impressioni in un commento.