sabato 22 dicembre 2018

FAMMI CONOSCERE I TUOI !... 22/Dicembre/2018





























Tratto dal romanzo "IL FASCINO DELLE MUTAZIONI" di Mario Scamardo

Fammi conoscere i tuoi!...

        Fu un sabato pomeriggio che Rosetta chiese al suo amato di trascorrere la domenica in campagna, possibilmente dai genitori di lui che vivevano in provincia, la risposta fu positiva. Lei indossò un tailleur blue chiaro con sotto un top in seta bianca, lasciò sciolti i suoi capelli, adornò il suo collo con una collana di perle che le lambiva l’attaccatura del seno, ed infilò in un borsone che porse a Mario, un jeans ed alcuni indumenti intimi, aprì poi l’armadio e tirò fuori una giacca a vento color senape.

        Usciti dalla città salirono, curva dopo curva, per una panoramica fino a raggiungere Giacalone, una frazione di Monreale posta a quota settecento metri, da dove è possibile cogliere in un sol colpo d’occhio tutta la città, da Mondello ad Acqua dei Corsari. Si soffermarono a mirare il panorama e cercarono di individuare, facendo riferimento ai campanili, le piazze ed i monumenti più noti della città.

        Rosetta chiese a Mario se quella visita imprevista lo avesse messo in imbarazzo o avesse potuto indisporre i suoi genitori, ma egli la rassicurò informandola che la sua famiglia, pur non aspettandoli, conosceva la sua storia d’amore. Risalirono in macchina e affrontarono la discesa che conduceva in paese. Rosetta fu per un momento taciturna, poggiò la testa sullo schienale e riflettè sulla differenza d’età col suo ragazzo, lei era di quindici anni più anziana. Come era possibile che i genitori di lui potessero accettare tale situazione per l’unico figlio che avevano, come era possibile che in Sicilia, dove regna ancora la famiglia patriarcale, dove il padre padrone impera, nulla avessero obiettato i genitori di Mario o, forse, Mario non aveva fatto cenno all’età di lei. Quella discesa offriva il più incantevole dei paesaggi, coda terminale della Val di Mazara, la Valle dello Jato si apriva da una gola tra i monti e sembrava essere illuminata a festa, mille luci nella campagna e sullo sfondo Castellammare, col tremolio delle sue luci che domina il Golfo.

Castellammare del Golfo

        Un portone enorme di una casa con la facciata a pietra viva, Mario infilò la chiave ed entrarono in un androne illuminato con due enormi fanali che indirizzavano la luce su uno scalone i cui gradini erano usurati dal tempo. In cima alle scale si aprì una porta e venne fuori una giovane signora che portava benissimo i suoi quarantacinque anni, elegantemente vestita. Mario le andò incontro, la baciò e pigliando la ragazza per la mano le disse: - lei è Rosetta. - La ragazza a capo chino, attese che quella bella figura di donna la invitasse ad entrare e, quando l’altra allungò la mano lei gliela strinse ed accennò ad un piccolo inchino. Tutti e tre percorsero un corridoio pieno di specchi che li portò in un salotto Luigi XIV tappezzato in seta damascata tessuta a mano di colore rosso cardinale.

Salotto Luigi XIV

Mario notò la meraviglia di Rosetta, ma non volle chiederle del perché, sapeva benissimo che lei non si aspettava che le case dei contadini siciliani potessero essere talvolta ricche di vecchie nobiltà scomparse, di valori e tradizioni che solo il sud ha saputo conservare con cura nel tempo, e la invitò a sedere in una di quelle poltrone, mentre la sua mamma andò in soggiorno per avvertire il marito che sonnecchiava davanti al televisore. – Li avevi avvertiti di questa visita? – Disse Rosetta a Mario, ed al cenno negativo di lui – è questa una casa di contadini? – Mario assentì e poi disse: - mio padre è agricoltore. - Entrarono il papà di lui e la signora, Rosetta si alzò e andò incontro ad un elegantissimo signore che ebbe solo cura di scusarsi per le sue mani ruvide, poi sedettero tutti e quattro e, mentre la signora s’informò se avessero voglia di cenare con loro, quel signore distinto tempestò il figlio di domande sui suoi studi e chiese a Rosetta, soppesando ogni parola, sulle sue origini, su come si trovasse a Palermo, di cosa vivesse, tutto con la maestria di un grande attore, che assumeva atteggiamenti del volto, di volta in volta che recepiva la risposta.

        Faceva bella mostra in un angolo dell’immenso salone un pianoforte a coda da concerto, con le sue decine di cornici d’argento sopra, Mario volle interrompere l’interrogatorio elegante del padre e disse a Rosetta: - sai, mio padre suona il pianoforte, vuoi che ti faccia sentire qualcosa? – Rosetta chiese al papà di Mario: - lei ha studiato al conservatorio? – No – disse Mario – mio padre è autodidatta, suona ad orecchio – ed indicando un altro angolo del grande salone affrescato – guarda, suona anche il violino ed il mandolino – che facevano bella mostra adagiati su un elegantissimo mobile in maggiolino. Quell’uomo sui cinquanta ben portati, si alzò, sbottonò la sua giacca grigia di vigogna, mettendo in mostra il suo figurino avvolto in un gilè di colore antracite, dal taschino del quale pendeva una catenina d’argento alla quale era attaccato uno Zenith. Si sedette al piano, mentre la moglie chiese il permesso di recarsi in cucina per preparare la cena.

Davvero bravo! – Esclamò la ragazza dopo le prime battute, poi si alzò, si pose accanto al pianoforte ed ascoltò, senza batter ciglio, alcune arie celebri eseguite con buona maestria e spesso con virtuosismi. Mario andò in cucina per dare aiuto alla madre, Rosetta attese l’ultima nota de “Una furtiva lacrima” per applaudire. – Bravo, bravo per davvero, sa che mio padre voleva che studiassi il piano? – E’ sempre a tempo – ribadì il signore – a vent’anni si è ancora in tempo a cominciare se si ama la musica. - Rosetta fu attraversata da un brivido, quel distinto signore non aveva colto la sua età o, l’aveva colta e … aveva fatto finta di nulla, il fatto vero era che ne erano passati quasi il doppio; andò a sedersi seguita dal papà di Mario il quale ebbe modo di mirarla e rimirarla, cogliendo ogni tratto del suo aspetto. – Potevate venire prima, a mio figlio piace tanto andare in campagna, ama tanto gli animali ed il suo cane fa follie quando lo vede arrivare. – Rosetta cercò di scusarsi, come se fosse stata lei la causa del mancato anticipo, e spiegò del suo lavoro, lui seguì minuziosamente, come a voler cogliere la forbitezza del suo parlare e la grazia delle sue fattezze. – Così giovane e così impegnata – accennò l’uomo, ed ancora una volta Rosetta ripensò ai suoi trentacinque anni, quindici più di Mario. Ebbe un attimo di smarrimento, ma seppe sorridere, tanto incantò il simpatico signore che la immaginò al fianco del suo unico figlio e se la vide parte integrante della sua famiglia.

La mamma di Mario, la signora Giulia, entrò in salotto, dietro di lei il figlio – se volete, la cena è pronta – poi al marito: - Giorgio, offri un aperitivo alla signorina, i bicchieri sono sul carrello – Giorgio prelevò una bottiglia di ottimo spumante, col garbo di chi conosce le buone maniere, la sturò, odorò il tappo per verificarne l’integrità e ne offrì una coppa alla ragazza, Mario e Giulia si servirono da soli, tutti sedettero a tavola dove ognuno studiò le posture e le ritualità dell’altro.

        Finita la cena, tutti e quattro si recarono nel grande terrazzo che guardava le campagne d’intorno e le luci dei paesini del circondario che tremolavano, facendo diventare il paesaggio ancora più suggestivo.

        Il signor Giorgio sedette su una poltrona di vimini e la signora Giulia rientrò in casa per preparare il caffè. Rosetta diede uno sguardo ammirato al panorama al chiarore della luna piena, poi chiese a Mario di spiegarle perché nel grande salone campeggiavano, ai tre angoli, le statue di Minerva, di Venere e di Ercole e perché i candelabri sulla enorme consolle non erano tutti identici ma, alla maniera orientale, erano composti da tre, due ed una luce soltanto; lei aveva visto simili candelabri assistendo ad una funzione religiosa di rito bizantino.

        Mario la fece accomodare davanti a lui e le parlò dei simboli e dell’inconscio. – Il simbolismo – disse – riveste una indubbia importanza in campo psicologico e psicopatologico. La psicoanalisi e le psicoterapie ad indirizzo psicoanalitico si sostanziano di rappresentazioni mentali colorite di valore simbolico profondo in quanto rilevanti strati inconsci della personalità. Il simbolismo, pertanto, viene riconosciuto come tappa fondamentale di conoscenza. Tuttavia si rivela subito come campo d’indagine fortemente complesso. - Il pronto ragionamento di Mario faceva notare quanto fresca fosse la preparazione dello stesso che giorni prima aveva affrontato l’esame di criminologia. Il signor Giorgio, ad onta della sua molto modesta cultura, seguiva l’esposizione del figlio ed assentiva col capo. Rosetta cercò di capire meglio e spinse il ragazzo ad andare avanti. Come poteva un agricoltore, pur se raffinato,  penetrare i meandri di argomentazioni così difficili?

        Mario notò le perplessità di Rosetta ma continuò: - Cos’è un simbolo e come definirlo? In greco “siùmbolon” indica il congiungere o l’intrecciare insieme, stante che ogni simbolo racchiude in se più significati. Il simbolo è la rappresentazione di una cosa per un’altra. Simbolo, viene definito un oggetto, un gesto, una rappresentazione in relazione di significante e significato che si trova, inoltre, a differenza del segno, in relazione analogica con quest’altro oggetto. Il simbolo è anche un segno che indica, evoca, rappresenta qualcosa di assente. -

        Entrò la signora Giulia con una caffettiera fumante e fragrante, poggiò il vassoio su un tavolinetto e servì il caffè, incassando i complimenti dei due ragazzi e del marito, poi, anch’essa sedette in poltrona.

Ercole

        Il signor Giorgio aspettò che Rosetta finisse di sorbire il suo caffè e disse: - Io non ho la vostra cultura ma la letteratura attorno al simbolismo mi ha affascinato sin da ragazzo, per fortuna in questa casa non sono mai mancati i libri. – Guardò negli occhi la ragazza come a cercarne il consenso e, quindi, riprese: – Durand dice che il simbolo è una rappresentazione che manifesta un significato nascosto. E’ l’Epifania di un mistero. Mentre per Freud il simbolo è una rappresentazione cosciente di contenuti inconsci ed è altresì costante: sono gli stessi simboli che assumono significato simbolico. Secondo altri, il simbolo rappresenta il nostro spirito, l’anima, la mente. Ma forse, cara signorina, la sto annoiando. - La ragazza, che lo seguiva senza batter ciglio, meravigliata e stupita, rispose: - no, la prego continui pure, la sto seguendo con interesse. – L’uomo sorrise e riprese a parlare: - Cara signorina, le dirò che significato hanno i simboli di casa mia, l’Ercole, che lei ha visto nel salone, sta a rappresentare la forza, Venere la bellezza e Minerva la sapienza, ma lei lo ha sicuramente appreso dalla mitologia greca e da quella romana durante i suoi studi liceali. La vita dell’uomo dovrebbe essere ispirata a questi tre simboli ed ai valori che essi rappresentano. – Rosetta battè le mani: - bravo! – Esclamò, poi, alla signora Giulia che guardava il marito compiaciuta – può essere fiera di suo marito, mi arrogherò il diritto di dargli un bacio – si alzò, si chinò sull’uomo e lo baciò sulla guancia. Si alzarono anche gli altri e poggiarono i gomiti sulla ringhiera che guardava verso la vallata. Rosetta guardò tutt’intorno, quella valle le dava un grande senso di libertà, di serenità, l’attraeva fatalmente e disse: - quest’angolo del creato sembra fatto apposta per indurre alla riflessione, tanto silenzio ma tante luci in armonia col luogo stesso, sembra che il Creatore l’abbia voluto donare a uomini giusti e razionali come lei signor Giorgio. – Poi si fermò, si accostò alla sua poltrona e sedette.



       Venere

Minerva
 Il papà di Mario, attese che tutti ripigliassero posto e rivoltosi alla ragazza disse: - mia cara signorina, se non l’annoierò, desidero parlarle dell’uomo e dell’uso che può fare della sua razionalità, sempre che lei abbia voglia di ascoltare un anziano agricoltore d’altri tempi. Veda, lei mi attribuisce molti meriti che io non ho, certo, lo fa per essere cortese nei miei confronti e di ciò io la ringrazio, però nella vita non sempre è facile far fede ad ogni impegno morale, l’uomo alla ricerca continua di migliorare se stesso, in quanto tale, talvolta sbaglia, valuta non correttamente, si fa pigliare dall’orgoglio e dalla superbia. – Rosetta avvicinò la sua poltrona a quella del signor Giorgio e rispose: - non mi stancherei mai di ascoltarla, stasera sto apprendendo tanto e soprattutto senza fatica, lei esprime concetti con una padronanza notevole, ed usa le parole come fossero pietre miliari, sono io che le chiedo di parlare, ma deve consentirmi, alla fine, di porle qualche domanda qualora non dovessi capire un concetto. – Il signor Giorgio tirò dal taschino del gilet il suo orologio, lo osservò per leggerne l’ora e, tirato un bel sospiro, così iniziò: - L’uomo ha il dovere di migliorarsi continuamente, fondando la sua vita su quattro elementi indispensabili. Il primo di essi è la LIBERTA’ intesa non tanto nel suo significato esteriore di libertà garantita o talvolta negata dalle leggi, ma il suo significato interiore, ossia la piena disponibilità di tutte le proprie facoltà, non asservite da alcuna di quelle schiavitù, cui spesso è asservito l’essere umano: vizi, passioni degradanti, da ideologie che richiedano cieca adesione, a teorie o a prassi contrastanti con la propria ragione ed i propri sentimenti, si può essere schiavi di preconcetti, siano essi razzisti, religiosi, od antireligiosi, per non parlare della superstizione, il dogmatismo cieco e tanti altri. Essere liberi interiormente significa poter disporre, ad ogni momento, delle proprie azioni secondo il dettame di una ragione illuminata e di sentimenti mossi da null’altro che dalla ricerca del vero e del bene. – L’anziano signore si fermò, guardò negli occhi Rosetta e poi, con la signorilità che lo contraddistingueva, le chiese: - se le sembro logorroico e se la stanco me lo dica pure. – Rosetta, incantata, gli prese una delle sue mani, ruvide ma ben curate e rispose con un sorriso ed un pizzico di humor: - Lei non può promettermi di parlarmi di quattro elementi e trattarne uno soltanto, io sono come una bambina a cui sono state promesse le caramelle, le voglio tutte, quindi svuoti tutte le sue tasche. – Poi lasciò la mano di Giorgio ed aspettò che l’uomo riprendesse. Il papà di Mario accese una sigaretta e continuò: - La DIGNITA’ è il secondo elemento, ossia quel rigore di pensiero, di parola e di azione che debbono caratterizzare il comportamento dell’uomo giusto. La dignità implica una continua vigilanza sul proprio atteggiamento e su ogni espressione del proprio Io. Dignità significa rinuncia a tutto quanto di volgare possa affiorare dal proprio subconscio di fronte alla provocazione, mantenendo la calma e la serenità in ogni occasione, anche in quelle nelle quali, “saltano i nervi”. La dignità consiste nel crearsi una corazza resistente a tentazioni e provocazioni, capace di far abbassare in noi il livello delle nostre reazioni e farci tendere a calma socratica. Dignità vuol dire affrontare le avversità mantenendo l’animo sgombro dal desiderio di ricorrere a mezzi di difesa che non siano onorevoli. – Giorgio prese fiato, guardò in faccia gli astanti ed assicuratosi che non erano annoiati continuò: - L’ONESTA’ è il terzo elemento, essa non sta soltanto nel non rubare, ma sta in un comportamento globale di rettitudine e di rispetto verso di sé e verso gli altri. C’è l’onestà della parola che si esprime nel motto evangelico “il vostro SI sia SI ed il vostro NO sia NO”. Si tratta di quell’aspetto dell’onestà per la quale chiunque abbia a che fare con un uomo giusto sa di poter contare su di una parola veritiera che non nasconde nulla e che non copre secondi fini od interessi particolari. E’ onesto chi mantiene sempre le promesse e ogni impegno preso, chi sa conservare il segreto di una confidenza ricevuta, e chi sa riconoscere obiettivamente i propri limiti e valutare al loro giusto valore le qualità e i difetti altrui. Il quarto elemento è l’UMILTA’. L’Apostolo Paolo, per ben due volte, nelle sue lettere scriveva: “non vi stimate savi da per voi stessi” e motivava la sua raccomandazione dicendo “se qualcuno si stima di essere qualcosa, pur non essendo nulla, egli inganna se stesso”. L’umiltà consiste quindi nel valutare se stessi non per quello che ognuno vorrebbe essere, ma per quello che realmente è. Essere umili significa saper rinunciare alle proprie personali verità o accettare di modificarle quando ci si trova dinnanzi ad una verità più convincente ed evidente, quand’anche fosse quella di un nostro avversario. – L’uomo riscosse il compiacimento di Rosetta che restò sempre di più meravigliata dinnanzi ad un agricoltore della buona provincia siciliana. Perché il papà di Mario l’aveva intrattenuta in un discorso così complesso e profondo? Perché la costringeva a delle riflessioni così importanti? Davvero Rosetta pensò che i genitori di Mario, discreti e traboccanti di buone maniere, si sarebbero fermati alle presentazioni e all’accettazione passiva di lei quale ulteriore membro della loro famiglia? Il mondo è pieno di pregiudizi, Rosetta era una illustre sconosciuta e Mario era soltanto un ragazzo pervaso da un grande ed impetuoso sentimento. Il meridione, nel superamento di taluni pregiudizi, è molto più in ritardo delle regioni del nord. Pur vivendo a Roma i genitori della ragazza la avevano da sempre imprigionata tra i gangli dei loro pregiudizi, delle loro opinioni preconcette, capaci di far assumere atteggiamenti ingiusti specialmente nell’ambito del giudizio o in quello dei comportamenti sociali. Il pregiudizio si presenta alle coscienze come un messaggio, mascherato di saggezza e di verità, che stravolge la nostra ragione. Avevano i genitori di Mario, per analizzare i loro pregiudizi, messo in opera la metodologia del dubbio per mettere alla prova le loro opinioni e le eventuali loro convinzioni sia per modificarle, per confermarle o acquisirne di ulteriori? Rosetta non ebbe mai modo di verificare tutto ciò.

Castellammare del Golfo

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venerdì 16 novembre 2018

IL COLPO DI FULMINE -- 16/11/2018






























Il colpo di fulmine

 Tratto dal romanzo "Il fascino delle mutazioni" di Mario Scamardo 

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        E’ un mattino sereno, l’aria è cristallina, una brezza leggera ha spazzato ogni cosa, Rosetta spalanca la finestra della sua camera, che si affaccia sul golfo di Mondello, e viene investita dai raggi di un caldissimo sole che le attraversano la finissima camiciola di seta, dando risalto ai contorni del suo corpo perfetto. I capelli, alla luce immensa, sembrano più biondi, le sue palpebre socchiuse danno la sensazione del piacere che la pervade e della serenità in cui si trova immersa. 


        L’albergo è il migliore della città, sonnecchia immerso da un lato in un immenso verde protetto dai colli e dall’altro su un mare verde smeraldo. Grandi saloni illuminati da enormi lampadari liberty, sono ricoperti da tappeti di seta; una passatoia di velluto rosso si spiega lungo i corridoi smisurati che accompagnano tutti al grande scalone centrale che porta al primo piano. Camerieri in livrea e guanti bianchi si spostano celermente per i piani. In uno dei salotti Ducrot, una signora ingioiellata se ne sta adagiata con in braccio due yorkshire dai collari di pietre dure, quasi a perpetuare un rito che la nobiltà isolana, salottiera, celebra e ripete accedendo dai tempi della realizzazione di questo Grand Hotel.


        Rosetta, in tailleur rosso e i capelli sciolti, cadenti a grandi onde sulle spalle, esce dall’ascensore centrale, lascia la chiave alla ricezione, infila la porta girevole e, dopo avere dato il primo sguardo attorno, fa cenno al primo taxi e si fa accompagnare al centro della città, nei pressi della facoltà di giurisprudenza.


        La visione d’insieme della scenografica Fontana Pretoria lascia Rosetta a bocca aperta. Lei, architetto, ha occhi soltanto per il complesso statuario della fontana, col suo fantastico paradiso mitologico di figure umane e di animali esotici, che esprime il ciclo della natura e della vita secondo uno schema quaternario che si ricollega alla “Croce cosmica” e al teatro “cosmologico” di Piazza Villena, o, come i palermitani la chiamano, “I quattro canti di città”.
Al tema quaternario dell’ottangolo espresso dalle quattro stagioni, dai quattro sovrani spagnoli e dalle quattro vergini protettrici di Palermo, fanno riscontro le quattro scalinate della Fontana Pretoria con le allegorie di quattro fiumi e con quattro coppie di Termini, disposti tutti agli antipodi di vaghe ellissi concentriche. Il rumore dell’acqua che fuoriesce dai cento zampilli, come sirena ammaliatrice, la chiama tra le sue mille statue la cui nudità pudica invita a liberarsi sia dalle pastoie delle convenzioni che dagli abiti. Rosetta, tra le statue diventa un Termine, un Tritone, una nereide, il fiume Maredolce, Diana, Pomona, il Genio dell’acqua; ogni statua è la sintesi di una bellezza, Rosetta, come Venere, le sintetizza tutte.
        Ancora uno sguardo a Palazzo delle Aquile ed alla loggia barocca che sovrasta la chiesa di San Giuseppe dei Teatini, poi, varca la soglia dell’ateneo. Si sofferma un attimo al centro del grande porticato, apre la borsetta e tira fuori un foglietto piegato in quattro, lo spiega per leggervi dentro qualcosa. Ad un bidello impettito nella sua divisa fiammante e gallonata chiede: - perdonate, sapreste dirmi dove trovare il professor Renato Brunelli? – Il bidello, folgorato dalla sua grazia: - scusate, volete ripetere?… - Dove posso trovare il professor Brunelli… - il titolare di Diritto Canonico? – Si. – E’ nell’aula A, alle vostre spalle, se volete v’accompagno… - no, grazie, aspetterò che finisca la lezione e quando uscirà lo fermerò -.
        Rosetta lesse tutti gli avvisi alle bacheche, tutti i calendari d’esame, ma gli occhi erano sempre puntati verso l’uscio dell’aula A. Sortirono decine di studenti, quasi tutti ventenni, il professore forse si attardava. Rilesse la targa alla porta: Aula A, entrò ma all’interno non c’era anima viva, che vi fosse un’altra uscita? Ritornò al centro del porticato invaso da centinaia di giovani, si guardò attorno quasi smarrita, chi sa chi fosse il professor Brunelli, poteva averlo visto non uscire dall’aula? Ma lei non lo conosceva , le avevano dato il suo nome a Roma, doveva incontrarlo perché amico di amici comuni. Il bidello impettito ripassò, si soffermò e interrogò la donna scoprendo che non conosceva quel ragazzino ventisettenne che si confondeva con gli altri ragazzi, ma che era titolare della cattedra di Diritto Canonico. – Scusate signora, ma voi conoscete il professor Brunelli?… E’ uscito un attimo fa, con quattro o cinque allievi… se volete trovarlo è qui di fronte, al bar sotto il Teatro Bellini. - Rosetta ringraziò con un cenno del capo e, muovendosi verso l’uscita, ebbe il tempo di reindossare quegli abiti che il bidello le aveva con gli occhi strappato di dosso.
        Renato Brunelli, figlio di un alto funzionario del Vaticano, approdato a soli ventisei anni all’Ateneo palermitano chissà per quali meriti, era sotto l’aspetto fisico una figura insignificante. Due lenti spesse da miope su una montatura metallica e due orecchie a sventola lo rendevano solamente buffo, seduto su una falsa sedia viennese, sorbiva spaparanzato una coppa di granita di limone, accompagnandola con una brioche a forma di minuscolo panino tondo, che solo a Palermo i fornai riescono a creare. Uno degli alunni, quando Rosetta stava per avvicinarsi al tavolo, stava per emettere uno di quei fischi sibilanti, che servono solo ad esprimere meraviglia, ma lei lo battè sul tempo e chiese all’uomo buffo, che aveva capito essere il Brunelli: - Scusate se disturbo, professor Renato Brunelli?… - L’omino con gli occhiali dalle lenti spesse leccò in maniera sgraziata la palettina colma di granita e ricomponendosi sulla sedia: - in cosa posso esservi utile… - mentre uno dei tre goliardi al tavolo del docente, notò la grande villania del Brunelli  che non fu capace di alzarsi e rendere omaggio a tanta grazia, notò pure come l’avvenente donna non volle dar peso alla enorme scortesia del cattedratico.
Fu quando Rosetta si presentò che venne invitata a sedere al tavolo e Mario, il perspicace goliardo, le porse subito la sua sedia sistemandogliela all’atto di accomodarsi e approfittando per pigliare posto accanto a lei. Gli amici che l’avevano indirizzata da Brunelli non avevano tenuto in considerazione la differenza di stile che correva tra i due, mentre, l’aveva colta Mario che non sapeva toglierle gli occhi di dosso e, per quanto breve fosse stato il dialogo tra loro, aveva colto in lei un velo di sdegno malcelato dalla voglia eccessiva di interrompere il dialogo e andare via.
Mario chiese a Rosetta se le servisse un’auto e, togliendole la sedia di sotto, con un ulteriore gesto di cavalleria, le cedette il passo verso il posteggio dei taxi. Nessun turbamento sembrò sortire dall’espressione della donna ma Mario, con garbo: - vuole che l’accompagni al prossimo posteggio, quello vicino la cattedrale? … forse due passi le consentiranno di scaricare un pochino di tensione e, se poi sono tanto fortunato, potrò farle da Cicerone. – Rosetta stava quasi per chiedere al tassista se fosse libero, ma guardò Mario e si accorse che i suoi occhi neri chiedevano una risposta positiva ai suoi desideri, poi, quasi per giustificare la decisione, guardò l’orologio, forse non vide manco l’ora: - si, lei è una persona simpatica, forse è bene che scarichi, purtroppo le titolarità all’università non conferiscono le doti per diventare galantuomini. Signori si nasce, farò volentieri due passi con lei, ma non ho voglia di visitare la cattedrale, magari domani, voglio pigliare un aperitivo a condizione che sia io a pagare, voi siciliani, tutti uguali, ve la pigliate se una donna ha il piacere di pagare il conto al ristorante o al bar. A mio padre sono occorsi trent’anni per imparare, anche lui è siciliano, è nato qui a Palermo, permette? … - e pigliandolo sottobraccio: - mi accompagni lei. –
        Mario è un giovanotto bruno di media statura, due occhi grandi, i capelli con la riga di lato, due mani grandi ma curatissime. Dai tratti del volto spagnoleggiante si intravede la sua origine contadina, trabocca da tutte le parti il suo essere distinto, educato ma soprattutto cavaliere, senza mai eccedere nel cerimonioso o trascendere nel banale. La sua educazione è quasi perfetta, non v’è un gesto, una postura, un atteggiamento, una parola che trasgredisce alle regole dettate da Monsignor della Casa.


        Sembrano una coppia perfetta, non si nota la differenza d’età, pur avendo lui vent’anni, quindici meno di lei. Imboccano Via Maqueda e passeggiando si ritrovano davanti al Teatro Massimo. Rosetta si sofferma davanti lo scalone di accesso al teatro dove sulla sinistra si trova una scultura bronzea che rappresenta una donna che simboleggia la “Lirica”, mentre suona uno strumento a fiato, adagiata su un leone. – Lo sa che questa opera è di Mario Rutelli? – dice il giovane alla donna, e lei con un sorriso: - ho origini anch’io palermitane, e poi, come architetto potrei anche offendermi di fronte al suo dubbio, anzi, le dico che l’altra scultura, quella sulla destra, quella donna che stringe al suo seno, adagiata sull’altro leone, rappresenta la “Tragedia”, ed è stata realizzata nel 1899 da Benedetto Civiletti. – Anche Mario sorride e guardandola negli occhi le chiede: - non mi faccia sentire vecchio, la prego, mi dia del tu, e poi… mi fa sentire più vicino… -
Rosetta non rispose, ma capì di aver trovato un posto nel cuore di Mario e, senza che se ne fosse accorta, visitò il suo e scoprì che il giovane era già entrato dentro di se con grande turbolenza; riprese Mario sottobraccio e tutti e due si avviarono verso il grande bar a fianco della Banca d’Italia. Seduti ad un tavolinetto consumarono lei un analcolico e lui un caffè. Rosetta non volle dare la sensazione di quanto le stava succedendo dentro ed incollò Mario con una bordata di domande sui suoi studi, sulla sua scelta universitaria, sulle materie date e su quelle in fase di preparazione e, quando ebbe tutte le risposte, erano già le tredici.


        A piazza Castelnuovo, accanto al teatro Politeama-Garibaldi, un attimo prima di avvicinarsi ai taxi, Mario propose a Rosetta di pranzare assieme e, al rifiuto garbato di lei le propose una cena in un locale tipico del centro storico, ma la donna trovò il modo di declinare l’invito col garbo e la gentilezza che la contraddistinguevano. Mario credette per un attimo che la sua fiamma improvvisa stesse per spegnersi troppo repentinamente, ed i suoi occhi neri e profondi diventarono immediatamente tristi. Rosetta chiamò un taxi, Mario le aprì lo sportello e lei, prima di salire, con immensa tenerezza: - domani voglio visitare la cattedrale, ho bisogno di un Cicerone, alle dieci in punto sarò davanti all’ingresso, approfitterò della tua disponibilità. – Sorrise ancora e sedendosi in macchina diede istruzioni all’autista. Gli occhi del giovane brillarono, gli aveva dato del tu e, lei dal finestrino, colse la gioia del ragazzo.


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sabato 3 novembre 2018

Divagazioni sul BENE E SUL MALE -


         



Mario Scamardo


BELZEBU' IL SIGNORE DELLE MOSCHE
Divagazioni sul BENE E SUL MALE





Il bene e il male


In filosofia la dicotomia bene/male appartiene soprattutto all’etica, che la intende come opposizione fra ciò che possiede un valore morale, ovvero ciò che è desiderato e appetito dall’uomo e ciò che è moralmente cattivo o sbagliato, ovvero ciò che arreca danno, dolore sofferenza. Oltre che all’etica, la dicotomia bene/male ha operato nella metafisica e nella teologia. Provo ad affrontare in maniera semplice le principali concezioni, rispettivamente del bene e del male, che si sono confrontate nella storia del pensiero filosofico.

Occorre innanzitutto distinguere fra una prospettiva metafisica e oggettivistica di intendere il bene, come la realtà suprema e perfetta che viene desiderata in quanto tale, e una concezione soggettivistica, che relativizza il bene in riferimento al soggetto che lo desidera. Il modello della prima concezione è offerto dalla filosofia di Platone, in cui il bene costituisce il vertice del mondo delle idee: come il Sole dà vita alle cose sensibili e ne consente la visione, così l’idea del bene è fonte di verità e di conoscenza del mondo ideale. Riallacciandosi a Platone, nel III secolo d.C. Plotino fa coincidere il bene con l’Uno, ossia col principio e la causa di tutto l’essere; in rapporto a esso il male costituisce un non essere, così come un non essere è la stessa materia: Plotino paragona alla zona d’ombra lasciata dal cono di luce proiettato dal principio primo. Anche il pensiero cristiano della scolastica medievale concepirà il bene come l’essere perfetto e lo identificherà con Dio: tutto ciò che proviene da Lui è quindi bene, per quanto il grado di perfezione di ogni cosa dipenda dalla posizione che essa occupa nella gerarchia degli enti, a seconda che questi siano più o meno vicini a Dio. Tuttavia il pensiero cristiano non potrà identificare la materia con il non essere e con il male, essendo la materia stessa creata da Dio.

La teoria opposta a quella metafisica del bene afferma che il bene è tale in relazione a un soggetto che lo desidera. In altri termini esso non è desiderato perché è il bene, ma è ritenuto bene perché è oggetto del desiderio. Nella sua forma più coerente, la teoria soggettivistica fu affermata in età moderna da Hobbes, il quale scrive: “L’uomo chiama buono l’oggetto del suo appetito e del suo desiderio, cattivo l’oggetto del suo odio e della sua avversione”. Anche Spinoza si muove in questa prospettiva quando afferma che “noi non cerchiamo, vogliamo, appetiamo una cosa perché riteniamo che sia buona; ma, al contrario, noi giudichiamo buona una cosa perché la cerchiamo, la vogliamo, la appetiamo, la desideriamo”. Pur mantenendosi all’interno di una prospettiva soggettivistica, Kant fece valere l’esigenza di universalità del bene che era propria della teoria oggettivistica: egli infatti sostenne da un lato che buono non può essere detto di un oggetto o un’azione in quanto tali, ma solo della volontà buona, dall’altro concepì quest’ultima come una volontà che si determina secondo una legge morale universale.

Non sono mancate nella storia del pensiero dottrine intermedie fra quelle oggettivistica e soggettivistica del bene. Socrate identifica la virtù nella scienza del bene e del male e afferma che nessuno commette il male volontariamente, ma solo perché ignora ciò che è il bene; quest’ultimo, nella concezione di Socrate, riguarda essenzialmente l’anima. L’identificazione fra bene, virtù e felicità diventerà importante nelle teorie etiche (dette “eudemonistiche”) successive a Socrate. Dal canto suo Aristotele intende il bene come “ciò cui ogni cosa tende”, e dunque, nel caso dell’uomo, la felicità come fine ultimo cui egli aspira: nel senso più pieno essa consiste nella vita contemplativa, ma accanto a essa si dispongono anche altri beni di ordine pratico. Aristotele intende così il bene in relazione all’uomo, ma d’altronde concepisce anche una gerarchia di beni secondo il loro grado di perfezione, avvicinandosi così alla teoria oggettivistica del bene.

Il problema della natura e dell’esistenza del male è alla base anzitutto delle principali religioni, passando poi alla filosofia e dando luogo a soluzioni che oscillano fra la negazione dell’esistenza del male e la negazione dell’onnipotenza di Dio.




Secondo l’insegnamento indù, per voler fare un esempio, il male non esiste poiché fa parte del mondo illusorio dei fenomeni; per lo zoroastrismo, antica religione persiana, così pure per l’antica setta dei manichei, il male dipende dall’esistenza di una divinità malvagia, contro cui è costretta a combattere la divinità buona. Nel libro biblico di Giobbe non si dà ragione per le sue sofferenze: la Scrittura suggerisce che le misteriose vie del Signore eccedono l’umana comprensione.

Nel III e IV secolo, all’affermarsi della teologia cristiana, divenne urgente una trattazione teorica del problema del male, poiché la dottrina del cristianesimo si fondava sull’esistenza di un Dio onnipotente e buono, ma contemporaneamente riconosceva la reale esistenza del male.

Col vertere del IV secolo Sant’Agostino formulò la soluzione maggiormente accettata dai pensatori cristiani successivi. Prima aveva accolto la teologia dualistica del manicheismo, in un secondo tempo, dopo la lettura di opere neoplatoniche e attraverso l’insegnamento di sant’Ambrogio, si convertì al cristianesimo ed accettò la teologia cristiana di un Dio buono, creatore dell’universo, con la presenza del male nel mondo.

Secondo Sant’Agostino il male non può essere opera di Dio, perché quanto creato da Dio non può che essere buono; il male, è privazione, o assenza di bene, così come il buio è assenza di luce. Può accadere, tuttavia, che qualcosa, pur creato buono, si corrompa, permettendo al male di insinuarsi nel mondo, qualora ogni creatura dotata di libero arbitrio, angeli, demoni e uomini, rifiutino i beni supremi, o assoluti, optando per quelli inferiori e relativi.  Secondo Sant’Agostino, può accadere che, da analisi immediata e superficiale, sia additata a male qualcosa che potrebbe risultare bene se considerata sub specie aeternitatis; dalla prospettiva eterna di Dio, ogni cosa è bene.

Le teorie agostiniane esercitarono un profondo influsso sui teologi cattolici del Medioevo come san Tommaso D’Aquino, e sui teologi della Riforma protestante, particolarmente su Martin Lutero e Giovanni Calvino.

Gottfried Wilhelm Leibniz, filosofo tedesco del XVII secolo, asserì l’irrealtà del male, definendo il mondo creato da Dio il”migliore dei mondi possibili” . L’ottimismo metafisico di Leibniz, durante l’Illuminismo, venne criticato sia da Voltaire che da David Hume, i quali respinsero la dottrina secondo cui la quantità di dolore immenso e la sofferenza possono essere giustificati perché facenti parte di un benevolo disegno divino.

La credenza nella certezza del progresso fu indebolita dalle guerre e dalle persecuzioni del XX secolo. Il male diventò l’oggetto di analisi di teologi e filosofi. In relazione alla Shoah ci si è chiesti se la sofferenza estrema possa trovare una giustificazione teologica. Sulla scia di Nietzsche alcuni pensatori hanno teorizzato la non esistenza di Dio; altri, ripartendo dalla teoria di Giobbe si sono fermati davanti alla imperscrutabilità delle vie del Signore. Il dibattito sul bene e sul male rimane sempre aperto in quanto bene e male sono in eterna lotta.

Sia nel pensiero del primo cristianesimo che nella tradizione del tardo ebraismo, Satana, il diavolo, fu visto come l’avversario di Dio. Certamente l’influenza dello zoroastrismo che oppone le potenze del bene Ahura Mazda ad Ahriman potenze del male, non si può escludere; sia nell’ebraismo che nel cristianesimo il dualismo è relativo e temporaneo, essendo il diavolo sottomesso a Dio. La letteratura apocalittica e quella apocrifa ci fanno riscontrare decine di figure diaboliche ed angeli decaduti. Nei manoscritti del Mar Morto si riscontrano dette figure ed il diavolo viene chiamato Belial , spirito del malvagio. In molte correnti del pensiero rabbinico, il diavolo è collegato con “l’impulso malvagio”, e cristiani ed ebraici convengono sulla possessione di Satana o da demoni che gli obbediscono.

Nel Nuovo Testamento Gesù libera dal male in tutte le sue forme, anche quelle legate alla presenza del diavolo. (Luca 10:18) Gesù disse: “Io vedevo cadere Satana dal cielo come folgore”.

Una parte importante ebbe il diavolo nel Medioevo, rappresentato sempre come creatura malvagia, munito di corna, coda e zoccoli caprini, in compagnia spesso da demoni subordinati.

L’Islam, riconoscendo l’ispirazione divina sia dall’ebraismo che dal cristianesimo, trasse da queste fonti la raffigurazione del diavolo, riportato nel Corano col nome di Iblis, l’angelo che rifiuta di inchinarsi ad Adamo. Allah maledice Iblis, lasciandolo però libero di tentare gli incauti.


Proviamo a fare una riflessione su una parola, un nome, un epiteto che è sinonimo di paura, di male, Belzebù, e sul pregiudizio causa del male.

Gli ebrei davano al diavolo, alla quintessenza del male, proprio questo nome. Ebbene, stranamente, il significato letterale di Belzebù dice chiaramente che il potere del male è solo apparenza, inganno, illusione, menzogna e, in ultimo, pregiudizio. Nei fatti, Belzebù, tradotto letteralmente, è “signore delle mosche”, un epiteto che suscita il ridicolo, il patetico. Qualcosa o qualcuno che nella realtà vera del mondo come la creazione, la meraviglia, lo stupore, il miracolo, la varietà, ha il potere di comandare solo sulle mosche, dunque, un titolo e un potere riduttivo. William Golden, noto scrittore inglese e premio Nobel per la letteratura, a tal proposito, scrisse un libro di grande successo dal titolo “Il signore delle mosche”, dove è contenuta un’analisi serrata dei meccanismi psicologici inconsci  che mettono in moto il nostro falso ego e che prendono origine dalla paura dell’ignoto, dai bisogni primari di sopravvivenza e organizzazione sociale, in grado di soddisfare questi bisogni nel modo, apparentemente, più economico, ovvero, con la violenza e l’esclusione dell’altro da Sé. Come conseguenza, assurdi sacrifici ad altri “signori delle mosche” e agli archetipi delle nostre paure inconsce. In ultimo, con la persecuzione del diverso, di colui che non accetta le regole piramidali di una società che semplifica e soddisfa i propri bisogni con la violenza. Stranamente, però, in questo mondo e in questo universo si può definire paradossale chi persegue la logica del pregiudizio e della violenza verso gli altri, come per Ate, cioè per maledizione divina, ne è esso stesso vittima. Ogni azione violenta contro “l’altro Sé” è destinata a ricadere su chi questa logica persegue, in una coazione a ripetere che è danno, incapacità ad incedere. Tutto questo è semplice da spiegare, infatti, l’uomo che vive nel pregiudizio sbaglia, dimenticando di essere solo una piccola parte di una totalità più vasta di cui partecipa, ovvero l’umanità e il mondo di cui fa parte e da cui deriva, allora, vive una fase egocentrica ed è incapace di uscirne per paura. Stranamente la psicoanalisi ha scoperto che ciò che noi rimuoviamo e riteniamo inaccettabile e che generalmente neghiamo, vive nel nostro inconscio di vita propria, si costituisce come seconda personalità e, più questa viene negata e perseguitata, più diventa forte e ci si contrappone. Solo il riconoscere che “l’altro Sé” non è nient’altro che un possibile noi, porta ad un abbassamento della tensione e del conflitto interiore, tanto che, l’accettazione del diverso diventa guarigione e ricchezza per chi, in questa difficile impresa, riesce ad amare ed accettare chi si ritiene, con pregiudizio, nemico e pericoloso.

        Cristo diceva che amare gli amici è facile, difficile è amare i propri nemici! Il perseguire e perseguitare il diverso da noi porta perciò al vero male, ad una scissione della psiche che in analisi viene definita come schizofrenia. Anche qui il diavolo può darci una mano a capire di cosa siamo vittime, essendo “diavolo” un termine che in greco significa dividere in due, ovvero negazione di una parte di se che, per pregiudizio, si ritiene inaccettabile.

        La natura, il creato, nel senso più vasto del termine, per una esigenza evolutiva di tipo ontogenetico, ha posto in ognuno di noi l’esigenza di trovare un’armonia nella totalità dell’essere e la spinta a raggiungere una completezza che, in definitiva, è ricchezza e, se è consentito un neologismo, eu-evoluzione (evoluzione buona) a cui opporsi, che causa il malessere e la nevrosi. Si viene ad innescare così uno strano meccanismo, da definire gioco crudele che fa del pregiudizio e di chi lo pratica, vittima e carnefice di se stesso. In ultima analisi, il pregiudizio è antieconomico perché rifiuta la ricchezza della varietà e della diversità. Una volta praticato e lanciato, torna indietro come un boomerang per colpire chi lo scaglia. Come in un gioco di specchi che, a riflesso oppone altro riflesso identico, che ha uguale forza e uguale intensità nell’opporsi, generando il “polèmos”, il conflitto interiore e sociale. La capacità, invece, di aprirsi agli altri, a ciò che apparentemente è diverso da noi, ma che con noi partecipa di un valore più alto, che è l’umanità e la conoscenza vera nello spirito di un riconoscimento di fratellanza, è anche la capacità di arricchirsi di cose nuove. La capacità di vivere la vita come un’avventura alla scoperta di ciò che da noi è diverso, porta alla comprensione e ad una pacificazione del vero io interiore che, di luce propria vive e non necessita di modellarsi con meccanismi assurdi di difesa. “Avventura”, dal latino “ad ventura”, cioè andare incontro a ciò che deve avvenire, un viaggio nella vita e dentro noi stessi, alla scoperta della vita, dove anche il rischio, gioca un suo ruolo fondante.






 Apollo 11

 Scoprire il mondo e le sue meraviglie anche nei risvolti che all’apparenza sembrano assurdi, contraddittori, pericolosi, estranei, non graditi è, in ultimo, il senso vero della vita; se così non fosse, bisognerebbe giudicare assurdi, pericolosi e folli i versi di Dante che fa dire ad Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza”. Questo verso ha trovato collocazione a Cape Canaveral, ai piedi della base di lancio dell’Apollo 11, dove per primi alcuni uomini partirono alla conquista e alla scoperta della luna, quella vera, quella che illumina la notte, ispira i poeti e fa sognare gli amanti, un verso che vuole ricordare agli uomini che il vero propellente della scoperta e della conquista è, e resta, la conoscenza, strumento vero dell’evoluzione. E’ possibile affermare che la virtù e la verità non stanno nella parzialità e, a maggior ragione, nel pregiudizio che ne è il paladino e il difensore più strenuo. Virtù e verità, stanno nella totalità delle cose e chi nega queste verità vive nel pregiudizio, nella menzogna e nell’autoinganno, generando sofferenza. I pregiudizi, hanno la qualità propria dell’argilla, quella di mutare forma e di adeguarsi alle necessità del momento, secondo le esigenze ed i bisogni del falso ego, nell’illusoria speranza di farci pagare il prezzo più basso e ricavare il maggiore guadagno.



Proteus

        Il pregiudizio ha la stessa capacità di Proteus, il mitologico mostro capace di assumere ogni forma per sopravvivere e sopraffare, fin che un eroe, nel compimento del suo destino, non lo svela e lo uccide. Cambiare forma in modo proteiforme, vale quanto le ragioni che sostengono i pregiudizi, logiche ed accettabili in apparenza, sufficienti alla ragione perché comodi per le paure e le vigliaccherie quotidiane. Il pregiudizio soddisfa pienamente il falso ego, un ego che dimentica di essere solo una parte del tutto, una parte che, se non in armonia con “l’altro Se”, non ha valore alcuno.

        Albert Einstein disse in proposito: è più facile spaccare un atomo che un pregiudizio!


Non essendo io filosofo, ma un lettore di tutto quello che capita sottomano, vi chiedo venia se qualcosa di questa modestissima divagazione
può presentarsi non chiara.

                        

                            Grazie!