giovedì 27 ottobre 2011

LA DAMA BIANCA DI "COZZO REGINELLA" - Favola

    


     I personaggi che animano questa favola sortiscono dalla fantasia, i luoghi sono reali, una volta pieni di mistero, oggi ubicazione di un quartiere con meno di cinquant'anni di vita, realizzato in buona parte con le rimesse degli emigrati in Svizzera, spesso per indicare la zona è diventato d'uso chiamarlo il quartiere svizzero. Con comodi appartamenti e qualche spiazzo a verde, il Cozzo è così appellato perchè trattasi di una piccola collinetta costituita da un banco di calcarinite compatta, affiorata nel miocene inferiore, ricca di piccoli fossili, globigerine, rudiste e molti pectin, piccole conchiglie.
     Ma perchè rubarvi il tempo? Meglio farvi immergere subito nella storia!

                                                                               Buona lettura!


Mario Scamardo











I Racconti del Borgo
La dama bianca del Cozzo Reginella

Cozzo Reginella è oggi un quartiere dell’agglomerato urbano di San Cipirello. Fino a metà degli anni cinquanta era un fondo rustico di calcarinite ciottolosa affiorata dal fondale marino nel miocene inferiore. Non è difficile trovare dei piccoli fossili, globigerine[1], rudiste[2] e qualche pectin[3]. Il fondo era servito da un grosso fabbricato composto di parecchi vani al piano terra e di alcuni ambienti al piano superiore. Sulla stradina d’accesso un pozzo era protetto da una piccola costruzione in muratura e da un coperchio in tavole. Tutt’attorno al fabbricato rigogliosi ulivi e qualche mandorlo.
Cozzo Reginella apparteneva ad una famiglia di possidenti che abitavano a Palermo. Fino a metà del secolo scorso era distante dal centro abitato che di per se, al tramonto, veniva illuminato appena per non perdersi. Limitrofa al Cozzo, passava una delle tante mulattiere che portavano in paese, ma al crepuscolo i contadini, al rientro dai campi, evitavano di attraversarla, in quanto da sempre qualcuno giurava di avere visto un fantasma in quelle case.
Tramontato il sole, la casa s’illuminava a giorno, si sentiva una musica celestiale e veniva fuori una bellissima dama vestita di bianco col viso coperto da un sottilissimo velo e, danzando, raggiungeva il pozzo che era di li a poco. Allo scoccare della mezzanotte, una volta al mese, durante il novilunio, come per incanto, la casa si riempiva di gente e cominciava una grande festa che finiva col sopraggiungere del primo raggio di sole.
In paese, tutte le mamme ammonivano i figli di non recarsi mai nei pressi del Cozzo per giocare, prima perché poteva esserci pericolo, stante che c’era nei paraggi il pozzo e poi perché i racconti sul fantasma erano frequenti. Si parlava di grandi feste, di grandi orchestre, di enormi banchetti, ma soprattutto della dama vestita di bianco. Qualcuno raccontava che all’indomani del novilunio, aveva scavalcato la recinzione in filo spinato ed aveva percorso la stradina che, passando per il pozzo, raggiungeva la casa. Davanti al pozzo aveva trovato mucchietti di gusci vuoti di chiocciole e davanti la porta parecchi carapaci, gusci vuoti di tartarughe. – Cattivo segno! – esclamavano gli anziani, i gusci vuoti erano ritenuti di cattivo auspicio, specialmente quelle delle chiocciole, erano sinonimo di epidemia, di morbi appestanti, di sciagure. La motivazione si legava all’epidemia malarica che all’inizio del secolo scorso aveva mietuto parecchie vittime nel circondario.
I ragazzini, di solito, stavano lontani da Cozzo Reginella, ma la curiosità era una droga, tra loro ne parlavano e nessuno osava incitare a varcare quel filo spinato. Nella loro fantasia immaginavano tesori nascosti, draghi che divoravano lumache e tartarughe e vomitavano gusci vuoti di lumache e carapaci e, alle prime luci dell’alba si eclissavano sotto terra, aspettando che si facesse di nuovo buio per venire fuori.
Alessandro era un ragazzino taciturno, aveva compiuto dieci anni da poco. Di solito ascoltava e di rado interveniva nei discorsi tra compagni di scuola. Della dama del Cozzo, qualche volta, si era parlato a casa sua, ma mentre suo padre sorrideva ai fantastici racconti, sua madre si impensieriva e gli rinnovava le raccomandazioni di non avvicinarsi alla zona.
Un giorno i genitori di Alessandro furono costretti ad emigrare in Svizzera in cerca di lavoro. Il ragazzo fu affidato alle cure della nonna che abitava un monovano contiguo alla sua casa, appena dopo cena, dava un bacio alla sua vecchina e si chiudeva dentro mettendosi a letto. Al mattino seguente la nonna, che aveva le chiavi di casa, lo svegliava, gli preparava la colazione e lo mandava a scuola. La finestra della stanzetta di Alessandro dava in aperta campagna, proprio di fronte al Cozzo, ed il ragazzino vi si affacciava e stava parecchio tempo a fissare quella casa e quel pozzo, sperava, in cuor suo, di veder comparire una sera la dama in bianco, i commensali o i draghi. Non successe nulla di ciò, ma a luna nuova i suoi occhietti, puntati verso il Cozzo Reginella, notarono delle strane luci attorno alla casa. Sentì il suo cuore battere fortemente, socchiuse le ante della finestra e sbirciò da uno spiraglio, cercando di scoprire gli eventi. Nulla di chiaro, solo bagliori e qualcosa che si muoveva nel buio fittissimo della notte. Il sonno stava per coglierlo, si infilò sotto le coperte e si addormentò. Al mattino seguente, mentre la nonna gli preparava la colazione, staccò dal muro un calendario e cercò il giorno della prossima luna nuova, prese dalla sua cartella una matita colorata e lo segnò.
Per ventotto giorni Alessandro studiò su come andare a Cozzo Reginella, bisognava vincere la paura e bisognava eventualmente trovare una facile via di fuga in caso di pericolo. All’uscita da scuola, dopo il pranzo, cercò tra gli attrezzi di lavoro del padre una tenaglia, percorse la mulattiera, guardò attraverso la recinzione in direzione del pozzo e tagliò i fili, arrotolò il filo spinato e si creò un varco molto agevole. Appena dopo cena, dopo che la nonna si chiuse in casa, Alessandro uscì per la strada e si incamminò nuovamente per la mulattiera. Non ci si vedeva ad un metro, la luce fioca che arrivava dalle ultime case scemava e, man mano, lo faceva immergere nel buio più fitto. Sentiva i battiti del suo cuore, ma la sfida riusciva a vincere la paura. Prima di arrivare al varco che s’era creato, un allocco in cima ad un cespuglio apriva e chiudeva gli occhi. Alessandro si fermò, poi scoprì la presenza dell’allocco e continuò verso la recinzione. Carponi superò il varco, guardò tutt’attorno, e nel buio più fitto non vide nulla. Quando fu davanti al pozzo si fermò, vi girò attorno, ma sentì solo il rumore delle frasche che calpestava, trattenne per un attimo il respiro e si diresse verso la casa. Non c’era un alito di vento ma, un’anta del piano superiore sbatteva ritmicamente. Chiuse gli occhi e contò fino a cento, poi li riaprì e si guardò intorno, non c’era l’orchestra, non c’erano le luci, non c’era la festa e non c’era la dama in bianco. Che avesse sbagliato a fare i conti sul calendario? Si sedette sul sedile di pietra accanto alla porta di centro e rimirò il cielo stellato. Il grande carro, il piccolo carro, l’acquario, il cancro, c’erano tutte, e più le guardava più diventavano numerose, come se le stelle si moltiplicassero. Alessandro pensò nella sua testolina che quanto si raccontava sul Cozzo Reginella era un’invenzione delle mamme per tenere lontani i bambini dal pericolo del pozzo. Tutto d’un tratto sentì una voce dolce e suadente di donna che lo chiamò – Alessandro, Alessandro – il ragazzo scattò in piedi e si girò per ogni dove, - chi mi chiama, chi sei? – La voce suadente rispose – non aver paura, sono la dama che tu stai cercando, non ti sarà fatto nulla di male, vuoi vedermi? – Alessandro ebbe un attimo di esitazione, poi rispose – si, non ho paura, sono venuto di proposito. – Si illuminò come per incanto la casa, si aprì la porta e venne fuori con passo felpato una signora vestita di bianco, con un velo trasparente che le copriva il volto. – Non temere Alessandro, ripiglia a sedere e fammi posto accanto a te, mi farai compagnia per questa notte e scoprirai il segreto di Cozzo Reginella ma, tutto quello che sentirai non rivelarlo mai ad alcuno, non ti crederebbero, anzi, ti scambierebbero per matto e non avresti più pace. – Il ragazzo sedette e le fece posto, stranamente non ebbe più paura, si sentì pervaso da tanta serenità. – Mio caro ragazzo, sono quattrocento anni che ogni notte di novilunio, quando il buio è assoluto sulla terra, io mi affaccio a mirar le stelle, proprio come hai fatto tu stanotte. In questo sito, al tempo c’era un maniero con una oscura segreta, io ero una bella signorina diciottenne – alzò il braccio e scostò il velo che le copriva il viso, due occhi neri e profondi, due gote rosee ed una ciocca di capelli corvini che le copriva un orecchio, un lungo collo di cigno adornato da una collana priva di monile, era una donna bellissima. Ricoprì il suo viso e riprese il suo narrare. –  I miei genitori erano due rampolli della nobiltà spagnola, mio padre era un duca e mia madre una principessa di sangue reale, possedevano questo feudo e alcuni mesi all’anno vivevano qui tra feste e ricevimenti. Mio padre amava molto mia madre, la ricopriva di premure e di regali e, quando era in regime di tenerezze la chiamava “mia reginella”, chissà, forse questo è il motivo per cui questo luogo viene chiamato Cozzo Reginella. – Alessandro la guardava in viso estasiato e registrava nella sua mente tutto quanto proferito dalla dama. La donna poi continuò col suo narrare - Un giorno tra gli ospiti c’era un giovane ufficiale, nel salone delle feste che era su al piano nobile, mi invitò a ballare ed io accettai il suo invito. Era un bel ragazzo dell’alta borghesia palermitana, aveva due occhi neri e profondi e le sue mani erano grandi e forti, era galante e cortese, dalle maniere raffinate, ci innamorammo perdutamente, io staccai il mio medaglione dalla collana e glielo donai, pregandolo di portarlo sempre con se. Veniva spesso a trovarci, con qualunque scusa, il suo destriero aveva la bardatura che riportava i motivi ornamentali della sua divisa. Quando andava via lo seguivo con gli occhi fino a vederlo scomparire giù nella valle. Mia madre aveva scoperto il mio segreto e, quando mi chiese quale fosse il rapporto tra me ed il giovane ufficiale, io le mentii, le dissi che era solo una sincera amicizia tra ragazzi della stessa età. Passò quasi tutta l’estate, il mio giovane ufficiale, Vladimiro, mi disse di essere intenzionato a chiedere la mia mano a mio padre. Gli chiesi di temporeggiare e di aspettare l’inverno, quando ci saremmo trasferiti a Palermo. Vladimiro era impaziente ed un mattino, proprio davanti al pozzo, si avvicinò a mio padre e chiese la mia mano. Mio padre non rispose, lasciò in asso il mio giovane ufficiale e rientrò rintanandosi nel suo studio. Poco dopo mia madre entrò nella mia camera, mi venne accanto e, con voce ferma, mi invitò a raggiungere mio padre. Entrai nello studio ad occhi bassi, sapevo che Vladimiro non era nobile e non avrei potuto sposarlo, ma ero decisa a lottare per il mio amore. Mio padre si alzò dalla sua poltrona e mi apostrofò severamente e mi ammonì di rivedermi con Vladimiro, lo stesso non sarebbe più stato invitato ad alcuna festa e non avrebbe più varcato la soglia del nostro maniero. Uscii da quella stanza a testa bassa, ma sull’uscio gridai a mio padre che amavo perdutamente il mio giovane ufficiale e non avrei sposato nessun altro fuor che lui. – E tuo padre? – disse Alessandro – Mio padre non mi parlò più, diede ordini di ritornare in città. A primavera nessuno parlò di trasferirsi in campagna, questo posto rimase in balia dei guardiani e di un minimo di servitù. A estate inoltrata mia madre, all’uscita della cappella di famiglia, dopo le funzioni, mi chiese se ero preparata ad incontrare la giovane nobiltà dell’isola, mi parlò di giovani duchi, giovani conti, tutti desiderosi di farmi la corte ed attese invano la mia risposta. Io ero innamorata di Vladimiro, per la mia mente passava solo la sua immagine, impettito nella sua divisa, i suoi occhi sorridenti e la sua immensa tenerezza.  Un giorno uscii con la mia nutrice che era diventata la mia dama di compagnia, appena salimmo sulla carrozza mi abbracciò con tutta la sua tenerezza e mi disse sommessamente che saremmo passati davanti al comando militare dove prestava il suo servizio Vladimiro. I miei occhi si riempirono di lacrime e timidamente le chiesi se era possibile poterlo rivedere. Rosina, la mia nutrice, mi fece cenno di si col capo ma mi raccomandò di mantenere il segreto, pena la sua vita. Assentii anch’io col capo e quando la carrozza imboccò la strada delle casermette, Rosina chiese al cocchiere di fermarsi perché doveva fare delle commissioni. Scese dalla carrozza e quatta quatta si infilò dentro una casermetta, dopo un po’ venne fuori seguita da Vladimiro che scostò le tende della carrozza e mi sorrise con tenerezza, sbottonò appena la sua giubba gallonata e mi mostrò il medaglione che gli avevo donato. “Ringrazio il cielo per averti rivista, sei l’unico sogno della mia vita” mi disse ed io non potei per la gioia proferire parola. Rosina montò in carrozza ed il cocchiere fece schioccare la frusta. Ripresa la marcia, la mia nutrice mi consegnò un biglietto, era di Vladimiro, lo lessi: “Unico grande amore mio, nulla mi convincerà a pensare ad altra donna, ti amerò tutta la vita, tuo Vladimiro”. Disobbedendo a Rosina che mi ha suggerito di distruggere il biglietto, lo conservai gelosamente nel mio seno e arrivata a casa lo nascosi nel mio secretaire. Prima che finisse l’estate la mia famiglia si preparò per venire qui in campagna, partimmo coi servitori e, come se nulla fosse accaduto, la vita riprese come prima. Le feste ripresero e sempre più pompose ed una sera vidi arrivare tre ufficiali in grande uniforme, uno di loro era Vladimiro. Mi tremarono le gambe, il mio cuore batteva forte, e non capii nemmeno perché Vladimiro avesse voluto sfidare mio padre. La sorpresa fu più grande quando il mio austero genitore volle riceverli personalmente, riservando loro attenzioni e premure. Non credetti ai miei occhi, pensai che forse si sarebbe realizzato il mio sogno. – Accarezzò il volto di Alessandro e gli disse - la notte è ancora lunga, questa è la mia ultima notte, la tua presenza, ma soprattutto la tua innocenza, rompe l’incantesimo che mi costringe a ritornare in questo posto ad ogni novilunio. – Perché l’ultima? – disse Alessandro – Ragazzo mio – riprese la dama – se l’alba non ci coglierà prima che finisca il racconto, allora potrò raggiungere Vladimiro nell’aldilà e per l’eternità coroneremo il nostro sogno. Tu sei il mezzo, la tua curiosità prima ed il tuo coraggio e la tua innocenza dopo, consentiranno il realizzarsi del mio unico sogno e mi daranno finalmente la pace interiore. – Allora continua il tuo narrare – disse Alessandro, poi prese la mano della dama, la baciò e teneramente le sussurrò – prima che venga l’alba regalami una carezza, la mia mamma è lontana per lavoro e mi mancano tanto le sue coccole. – La dama si alzò, prese il capo del ragazzo e lo strinse al su seno con tenerezza, poi lo baciò sulla fronte e risedette accanto a lui riprendendo il racconto. – I miei desideri non avevano prospettive, mio padre era uno di quei nobili inflessibili che contavano tanto al tempo, ed aveva un grosso potere decisionale. Durante il ballo, i due ufficiali che erano in compagnia di Vladimiro, ad un cenno di mio padre, lo invitarono ad uscire dal salone delle feste con loro e, per tutta la serata non rientrarono più. Dal grande finestrone notai l’allontanarsi di tre cavalli, ma uno era senza cavaliere, quello di Vladimiro. Mia madre aveva trovato il biglietto nascosto nel mio secretaire, l’aveva dato a mio padre e questi si era vendicato, attraverso il tradimento dei due ufficiali, ed aveva rinchiuso nelle segrete Vladimiro. L’indomani la mia famiglia rientrò a Palermo, mio padre lasciò a guardia delle segrete due sgherri che incatenarono con lunghissime catene i piedi di Vladimiro per consentirgli di uscire all’aperto e nutrirsi di quello che la natura gli offriva, chiocciole e tartarughe. Io seppi della tortura imposta all’uomo che amo e da quel giorno tentai di lasciarmi morire di fame. Rosina mi stava accanto, soffriva quanto me, mi aveva nutrito al suo seno e, quando si rese conto che non era in grado di convincermi a desistere dalle mia volontà, si rivolse ad un vecchio sapiente che abitava un quartiere popolare della città. Raccontò la mia storia ed ottenne una pozione, me la propinò dicendomi che avrei potuto realizzare il mio sogno, a condizione che avrei potuto raccontare la mia storia in una notte di novilunio ad un fanciullo coraggioso ed innocente. Tutti mi avrebbero creduta morta, mi avrebbero seppellito nella cappella di famiglia, ma io ogni notte di luna nuova sarei resuscitata e mi sarei trovata in questo luogo dove visse gli ultimi giorni Vladimiro e dove morì di stenti ed incatenato e si alimentò solo di chiocciole e di tartarughe. – Alessandro tirò un lungo sospiro, prese ambedue le mani della dama e le disse – il tuo racconto è finito, ora scopri nuovamente il tuo viso, voglio fissarlo alla mia mente, tra poco vedremo l’aurora. – La dama bianca si tolse il velo, lo pose al collo di Alessandro e gli disse – questo è tuo, te lo regalo, tutte le volte che lo metterai al collo potrai esprimere un desiderio. – Io ho un grande desiderio, quello che ritornino a casa i miei genitori e che trovino in Sicilia un lavoro – disse Alessandro. In cielo comparvero i primi albori, la dama si alzò, carezzò nuovamente in viso il ragazzo e si avviò verso il pozzo, ebbe ancora un sorriso per il fanciullo che agitò la mano per salutarla. Dal fondo della stradina comparve un cavallo bianco riccamente bardato, montato da un giovane ufficiale, Vladimiro. La dama l’attese, alzò un braccio ed il giovane la tirò a se in groppa al destriero, staccò dal suo petto il medaglione e lo riattaccò alla collana della dama, baciò la sua chioma corvina e spronò il cavallo. Allo spuntare del primo raggio di sole scomparvero dissolvendosi nel nulla, ora, potevano vivere il loro sogno agognato. Davanti all’uscio delle vecchie case, tanti carapaci di tartarughe, accanto al pozzo mucchietti di chiocciole vuote. Alessandro attraversò il varco nella recinzione e ritornò a casa. A pranzo la nonna gli consegnò una busta che gli aveva lasciato il postino, l’aprì, dentro c’era un contratto di lavoro di una grande ditta che offriva una occupazione al padre. Alessandro richiuse la busta, accarezzò la sua sciarpa di velo bianco che portava al collo, se la tolse e la depose piegata nel cassetto del suo comodino. Una settimana dopo rientrarono dalla Svizzera i suoi genitori.


[1] Genere di foraminiferi.

[2] molluschi lamellibranchi estinti che, comparsi nel periodo giurassico dell’era mesozoica, ebbero massima espansione nel Cretaceo.
[3] Bivalvi del Miocene.







       


                                                   

domenica 23 ottobre 2011

E' l'ora della poesia





Fra qualche ora è lunedì... son quà!

                              Buon inizio di settimana a tutti. 


La malinconia cos’è se non una dolce e delicata tristezza. Talvolta, il pessimismo ti avvolge e, senza una causa apparente adeguata, ti porta verso la sfiducia. Essa è quasi sempre romantica, scaturisce dai ricordi che ti son cari, e per un po’ diventa la tua padrona, lasciando sfogo al pianto.
Non c’è un’età per essere melanconici, essa coglie il bambino, l’uomo maturo, il vecchio. Il poeta la supera, librandosi sulle ali della fantasia, e narra con pochi versi la sua tristezza.

L’ULTIMA COMMEDIA

L’ultima maschera calzata,
l’ultima battuta sul proscenio,
l’ultimo pubblico composto,
l’ultimo atto, l’ultima comparsa,
l’ultima chiusura del sipario,
l’ultimo applauso sfumato,
l’ultima luce che si spegne…
L’ultimo guitto,
l’ultimo fragore,
l’ultima quinta vista dal retro,
 l’ultimo chiodo in fondo al camerino,
l’ultima lacrima,
l’ultimo cerone che va via.
L’ultima sortita dal retro del teatro,
l’ultimo saluto del portiere,
l’ultimo lampione sulla via,
l’ultimo sguardo alla città di sera e
al grande palcoscenico, la strada…
Il grande teatro della vita
ti offre un altro ruolo,
puoi solo accettare,
sei l’interprete assoluto della senilità,
della vita che sfugge di mano,
del tempo che s’accorcia,
della giovinezza che non è più,
dello scorrere dei ricordi…
Tanti rimpianti,
ma rimorso alcuno…
Il copione ti è noto,
conosci la trama e non puoi scantonare,
sarà la tua ultima grande opera,
forse lunga assai o troppo breve!
Un’opera di mille atti o d’uno soltanto,
la tua commedia,
dove il sipario inclemente
si chiude una volta sola e tu lo sai,
e mai più si riapre
nemmeno per l’ultimo applauso.


La malinconia talvolta ti piglia per mano e ti conduce anche dove non vorresti andare, tra vecchi ricordi struggenti, quelli che ti hanno tolto il fiato, ed il più delle volte, ti hanno spento il sorriso


                                     Ma chi t’avia fattu?...

Si tu la me rabbia duci,
forsi, si sulu ‘nna duci rabbia,
forsi  m’illudu ancora…
fuvi  lu to jocu capricciusu…
Fusti jurici siveru
e…  m’appizzasti a un croccu![1]
Ccu cori duru mi fa piniari
e m’ammazzi adaciu adaciu.
‘Nta lu priatoriu, ca è già accupusu
 nun mi truvasti postu,
mancu n’agnuniddu piatusu.
Nun ci fù nné pirdunu nné fidi,
nuddu scuntu di pena,
mi sbattisti a lu ‘nfernu!...
e ancora m’addumannu,
ma chi t’avia fattu?...
T’avia sparagnatu un gran duluri,
chiddu d’uddiari lu to stessu sangu,
ca tanti voti ti fù tradituri
e ti tirau spissu ‘nta lu fangu…
 Vulennu iu la paci ppi forza,
mi carricavi tutta la visazza,[2]
la portu ancora e nun haiu cchiù vrazza,
l’haiu sigillata sta vuccuzza!
E’ megghiu uddiari a mia ca a to suruzza,
maestra di ‘mpirugghi e di ‘ntrallazza…
sulu ogni tantu m’acchiana la stizza,
nnuccenti, ppi tia sugnu la fezza,[3]
un catu[4] ammunsiddatu di munnizza,
un cantaru chinu di pisciazza,[5]
un fummiraru[6] chi ti duna puzza,
lu cagnuleddu di la peggiu razza.
Ma chi t’avia fattu?...
Nun viu cchiù suli e stiddi,
nun viu cchiù celu e luna,
nun cci su strati nnè camminamenti
cc’è sulu friddu e scuru
e tu, davanti a mia notti e jornu,
davanti a st’occhi sicchi,
chini di sali e di pruvulazzu,[7]
occhi di cani ‘mmistizzi[8]
scammusciuti comu li fanfazzi[9].
‘Nta sta negghia, nun lu capisciu
si sugnu ancora a chistu munnu…
viu lu mecciu ca già fumulia,[10]
l’ogghiu già finiu ‘nta la lanterna…[11]
cchi vali la me vita senza tia,
sulu nna sputazzata[12], o picca cchiù!


Tradurre questa poesia in lingua è come spogliarla dal dramma che racconta, quindi, ho aggiunto le note, là dove ho ritenuto fosse difficile interpretare.

Giorno 28 di Ottobre vi regalerò, come promesso, il secondo racconto : "La dama bianca di Cozzo Reginella" tratta dal mio volume I RACCONTI DEL BORGO.

 
Grazie per l’attenzione.


[1]M’appizzasti a un croccu – Mi hai considerato come carne da macello.
[2] Visazza – Bisaccia, fardello, peso.
[3] Fezza – Feccia, sedimento di sostanze liquide, per antonomasia delle sostanze vinose – Rifiuto della società – La parte peggiore di chicchessia.
[4] Catu – Secchio.
[5] Un cantaru chinu di pisciazza – Un vaso da notte pieno di pipì.
[6] Fummiraru – Concimaia – Letamaio.
[7] Pruvulazzu – Polvere.
[8] ‘Mmistizzi – Cani bastardi, talvolta dall’aspetto triste e da commiserazione, in quanto trattati senza alcuna cura e dolcezza. Il termine ‘mmistizzu veniva usato, ma sempre in senso dispregiativo, per indicare i meticci o i figli naturali nati fuori del matrimonio. ‘Mmistinu è il termine che significa “venuto fuori dalla placenta” da ‘mmesta, placenta.
[9] Scammusciuti comu li fanfazzi – Ammosciati come le foglie esterne di un cespo di verdura che il contadino butta a terra prima di sistemarlo in cassetta.
[10] Viu lu mecciu ca già fumulia – Vedo lo stoppino che già fa fumo.
[11] L’ogghiu già finiu ‘nta la lanterna – L’olio è quasi finito nella lampada. – Nel linguaggio figurato: il percorso di vita è quasi al termine.
[12] Nna sputazzata – Uno sputo.