martedì 28 agosto 2012

LA MAFIA E' FEMMINA !!!




















Tratto dal romanzo di Mario Scamardo "L'ORRENDO FASCINO DELLE MUTAZIONI"




La mafia è femmina!

      Anni dopo la sentenza definitiva, Rosetta aveva chiesto di vivere la sua carcerazione in cella da sola, non era abituata a dividere qualcosa con chicchessia, la promiscuità le procurava insofferenza e ne risentiva molto il suo sistema nervoso. I medici suggerirono al giudice di sorveglianza di accogliere la sua istanza e la donna ebbe per se una cella, dove le era anche permesso di ricevere le visite della vecchia madre, quelle e soltanto quelle, in quanto nessun’altra persona la andò mai a trovare.


 La “pantera” in gabbia sovente ruggiva, era sempre pronta ad azzannare, alternava le sue rabbie ad interminabili silenzi che duravano, a volte, intere settimane. Chissà se aveva rivisitato la sua vita, chissà quali pensieri le attraversavano la mente e quali considerazioni aveva fatto, chissà se era arrivata mai a pentirsi di qualcosa. Il carcere l’aveva abbrutita, i suoi modi, una volta eleganti e compiti, rasentavano il goffo. Il giudice di sorveglianza, una donna di mezza età, di lei aveva descritto solamente l’estremo disagio che la carcerazione le dava, il suo arroccarsi in silenzi interminabili e null’altro. Rosetta difficilmente parlava con qualcuno e, quando sentiva le voci delle altre detenute provenire dai corridoi, fissava la parete di fronte al suo letto e si carezzava il viso. Nel cortile del penitenziario, dove passava la sua ora d’aria, si appartava in un cantuccio e spesso leggeva o rimaneva a mirar nel vago, come ai tempi della sua giovinezza, là, nel giardino di casa sua, alla frescura della siepe di gelsomino, accanto alla palma nana, sotto l’ogliastro piantato il giorno della sua nascita.  
                 
Un giorno, nel braccio di quel penitenziario, arrivò una giovane secondina, nella sua divisa fiammante, dal fascino pari a quello di Rosetta dei suoi anni più belli. La giovane e bella guardia carceraria si intratteneva con lei a parlare, attaccata alle sbarre della cella le raccontava il mondo all’esterno di quella casa circondariale. Ridacchiava Rosetta, talvolta guardava fissa nel vuoto e le scappava un singhiozzo a malapena smorzato. Spesso in maniera copiosa, le sue gote, ormai segnate da due profonde rughe, venivano attraversate dalle lacrime, lei, seduta sul pagliericcio copriva gli occhi con le mani e smorzato a forza il pianto, si carezzava i capelli. Ormai, quella che era stata la sua fluente chioma bionda, era diventata di stoppa e quasi tutta bianca. Le sue mani cominciavano ad aggrinzirsi, anche se sempre curatissime. Sul piccolo tavolo dell’angusta cella, una ciotola in alluminio ed un flacone di gocce che conteneva un diuretico. Le sue caviglie erano gonfie per un eccessivo ritegno di liquidi e, quando portava la mano sul cuore, lo faceva per controllarne il battito diventato aritmico. Sotto gli occhi, due borse stavano a testimoniare che la sua salute era alquanto precaria. Chissà se mai il rimorso aveva sfiorato la sua mente. Diceva Victor Hugo: “ Se Dio avesse considerato opportuno che l’uomo guardasse indietro gli avrebbe posto gli occhi nella nuca”, mentre Seneca: “ Cosa c’è di più bello di esaminare la giornata passata? Come sarà sereno e lieve il sonno che seguirà questo esame della nostra coscienza!”. L’assenza di riflessione su se stessi conduce a considerare responsabile dei mali che  capitano qualcun’ altro: un individuo o più, il fato, Dio stesso. La colpa delle nostre sventure si proietta sugli altri procurandoci sollievi. Così, evitiamo di fare i conti con la nostra coscienza. Se Rosetta avesse riflettuto sul suo passato e avesse considerato le sue responsabilità, si sarebbe messa in discussione e avrebbe rischiato di attribuirsi quelle colpe che prima erano degli altri.
Diceva Giovenale: “La pena più grande è portare sul cuore, giorno e notte, il testimone delle proprie colpe”.
 Fu un mattino, dopo l’ora d’aria, che Rosetta e la giovane ed affascinante secondina percorsero i corridoi per rientrare in cella. Rosetta era nervosa, un paio di giorni prima aveva rifiutato il colloquio con l’anziana madre, un relitto umano che si accompagnava ad un bastone, che aveva consumato da tempo gli ultimi segni di una bellezza e di un fascino andati, seguendo con dolore e con qualunque assenza di rassegnazione i crescendi, sempre più negativi, della vita di Rosetta. Quando fu davanti la cella, la giovane donna le chiese se avesse gradito qualche minuto di conversazione. Rosetta entrò, posò sul tavolinetto il libro che stava leggendo, “Viaggio in Italia” di Goethe, fece accomodare sull’unica sedia la ragazza, poi sfogliò il libro e si fermò davanti ad una frase sottolineata marcatamente in rosso dove stava scritto: “l’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna immagine nell’anima”. Lesse la frase e disse alla ragazza: - io ero bella quanto te, ho avuto il potere di far ruotare attorno a me il mondo. Ho usato la bellezza ed il fascino per ottenere quanto desideravo. – Prese le mani della giovane e le accarezzò: - quanto sono belle le tue mani, sfilate, aggraziate nella forma, mi fanno tornare alla mente dolci ricordi... - lasciò le mani della ragazza e riprese a parlare dopo aver fissato per un po’ le sbarre robuste di quella cella fredda: - l’uomo è un debole, davanti ad un bel paio di gambe, sovente, perde il ben dell’intelletto, si annulla la sua intelligenza e la sua razionalità. Apparentemente sembra che abbia sempre comandato, ma ogni sua determinazione è stata la scelta ponderata di una donna, e la stessa, tanto è più “femmina”, tanto più lo determina in tutte le sue azioni, come un rio Fato. L’uomo è molto superficiale, e noi donne siamo dotate del senso pratico delle cose. I poteri forti sono stati sempre rappresentati dagli uomini, ma nell’ombra c’è sempre stata una donna a condizionarli e determinarli. Le grandi scelte dei politici, dei finanzieri, delle grandi lobbyes di potere, e, financo della mafia, anzi soprattutto di essa, sono state prese da donne. Io ho vissuto tutto ciò, ma sono una delle poche a pagare il conto con la giustizia, tantissime altre continuano a godere dei privilegi che uno Stato debole e talvolta cieco consente loro. – La secondina ascoltava quasi esterrefatta, guardando negli occhi Rosetta che, quasi con enfasi, le stava raccontando il suo ruolo in quel mondo di malaffare in cui si era cacciata. Poi, quasi con riverenza le chiese: - ma allora lei sostiene che la mafia è femmina? – Rosetta la guardò, poi, carezzandole una ciocca di capelli che le sfuggiva dal basco azzurro le rispose: - inverosimile, vero? Così credono in molti, i più arguti, inquirenti, magistrati, politici. Si, la mafia è donna, ed è difficile da estirpare anche per il fatto che eliminando i “pupi”, agiti dalle donne, le stesse, rimaste indisturbate e soprattutto libere, costruiscono altri “pupi” e li manovrano con l’intelligenza e l’arte della seduzione, talvolta subentrano nel ruolo. Le donne hanno sempre avuto una parte importante nelle organizzazioni criminali, ed il ruolo è divenuto  indispensabile col lievitare dell’”affare”droga. Le donne della mafia sono sempre state le “depositarie della tradizione mafiosa”, in quanto da sempre hanno trasmesso ai figli il senso del silenzio e dell’omertà. E più facile che il più incallito dei mafiosi collabori con la giustizia , una donna di mafia mai! Se si pensa che la donna non abbia peso nel contesto territoriale in cui è inserita, si commette un grave errore, ad “essere mafiosi”i figli vengono educati dalle madri, in ogni angolo dove il fenomeno alligna. In Barbagia, le donne addestrano i figli a compiere la vendetta che loro hanno organizzato, secondo le rigide regole del Codice del luogo. Basta visionare gli atti processuali per capire che, morto o arrestato il “pupo”, la sua donna finisce di comandare nell’ombra e assurge al ruolo di “Capo”in maniera palese. Le più note: Pupetta Maresca, Rosetta Cutolo, Giuseppina e Maria Zaza[1], Angela Salvo, Anna Vitale, Grazia Santapaola[2]. - Rosetta fissò negli occhi la sua interlocutrice e, quasi volendole fare un regalo, le sussurrò: - Vedi, tu sei una donna giovane e splendida, hai tutte le doti per essere una femmina dominante, saresti in grado di arrivare, così come ho fatto io, all’apice del potere che sfida lo Stato! – Nessun pentimento era approdato alla coscienza di Rosetta, i suoi sentimenti erano avvizziti, la sua mente era bacata e il carcere, che avrebbe dovuto rieducarla, l’aveva ancora di più incrudita.  Poi riprese: - ti sei accontentata di così poco, hai accettato quasi passivamente il lavoro che fai, reclusa volontaria tra le recluse. La natura ti ha dotato di un corpo perfetto e tu, come un maiale in un letamaio, non ti accorgi della perla che hai sotto gli occhi! – La ragazza si sentì offesa e si alzò di scatto: - ma cosa dice, io non ho voglia di finire i miei giorni in fondo ad una cella, io odio i delinquenti, mi fanno schifo! Ho scelto di stare da questo lato della barricata, anche se misera la mia,  voglio che sia una vita di libertà. Un solo attimo della mia libertà, della mia autodeterminazione, vale molto  più di tutti i tesori che la malavita del mondo intero può accumulare. – Rosetta la guardò fissa negli occhi, il suo sguardo sembrava solo di commiserazione, diede le spalle alla giovane donna, aprì lo sportello di un pensile, tirò fuori, di nascosto, uno stiletto realizzato con un manico di cucchiaio, appuntito e ben affilato e, con ferocia, si avventò contro la giovane cogliendola alla sprovvista. Le gridò a squarciagola: - Ti odio! Non meritavi di essere così bella, ti odio! – e a denti stretti: - miserabile aguzzina, la tua bellezza non può diventare la mia tortura, ti odio maledetta! -  Le trapassò parecchie volte il cuore facendola accasciare a terra senza vita. Quando accorsero altre detenute e altre guardie trovarono Rosetta serena, con le mani insanguinate, come una belva che aveva finito da poco di consumare il suo pasto. Guardava fissa la ragazza esanime a terra e, come se si mirasse allo specchio, accarezzava i suoi capelli, stopposi, ormai senza luce che le cadevano sulle spalle disordinatamente. Una settimana dopo, prima che il giudice incaricato di svolgere le indagini relative all’omicidio la sottoponesse ad interrogatorio, legò un lenzuolo alle sbarre della finestrella della sua cella e si suicidò impiccandosi.    Dai giornali, il giudice Palagonia apprese la morte della Bianchi, provò pena e rabbia, si disperò e pianse. Andò al suo funerale e pose l’ultima rosa rossa sulla sua bara.


         La metamorfosi si era compiuta in tutte le sue fasi, Rosetta aveva riempito tutti i vuoti della sua esistenza ed era approdata all’ultimo, il peggiore!


[1] A. Baglivo, Camorra S.p.a., Rizzoli, Milano, 1983.
[2] C. Stajano (a cura di), Mafia. L’atto di accusa dei giudici di Palermo, Editori Riuniti, Roma, 1986.

lunedì 13 agosto 2012

"I VIRGINEDDI" ... LE CENE DI SAN GIUSEPPE ... "I PARTI" ...CULTO E TRADIZIONE



SAN GIUSEPPE    Tradizioni
Di Giuseppe si parla nei primi due capitoli dei Vangeli di Luca e Marco. In numerosi altri passi dei Vangeli, compreso quello di Giovanni si parla di Giuseppe come padre di Gesù. La sua famiglia proveniva da Betlemme e discendeva dalla stirpe di Davide. Si rifugiò con Gesù e Maria in Egitto a seguito dell’editto di Erode ed alla sua morte si stabilì a Nazareth, dove per dodici anni crebbe Gesù in seno alla famiglia. I Vangeli parlano di Giuseppe un’ultima volta, quando con Maria ritrova Gesù dodicenne nel Tempio. Si ipotizza, visto che nessuno scritto ne parla, che fosse già trapassato all’epoca della Passione di Cristo. Sia la Chiesa ortodossa che quella cattolica lo venerano e quest’ultima lo considera il patrono della Chiesa universale. Spesso si incorre nell’errore di appellare San Giuseppe come “patriarca”,  titolo ecclesiastico conferito ai vescovi delle cinque principali sedi cristiane: Roma, Alessandria, Antiochia, Costantinopoli e Gerusalemme.  Il Giuseppe patriarca, come riportato nell'Antico Testamento e nel Corano, è l’undicesimo figlio del patriarca Giacobbe, partorito dalla sua moglie prediletta, Rachele, poi venduto dai fratelli. Secondo il racconto di Genesi 30-50, Giuseppe era il primogenito di Rachele. Il Corano fornisce una versione simile a quella biblica e lo chiama Yusuf.
El Greco realizzò tra il 1595 ed il 1600 “Sacra Famiglia” dove Sant’Anna, madre di Maria, e Giovanni Battista bambino, si uniscono alla Madonna e San Giuseppe per adorare il Bambin Gesù. (Il dipinto è conservato a Washington alla National Gallery). Francesco Primaticcio ritrasse anch’egli la Sacra Famiglia con Sant’Elisabetta e San Giovanni Battista fanciullino, opera che si trova al museo dell’Ermitage a San Pietroburgo. Ritrassero la Sacra Famiglia tantissimi pittori, tra cui i più noti: Murillo, Poussin, Tiepolo, Portoghesi, Cambiaso.
 In tutto il meridione d’Italia, San Giuseppe trova ampio spazio nella fede, patrono degli artigiani, patrono del lavoro, patrono di tantissimi comuni, tanto da essere uno dei nomi di battesimo più diffusi.
In Sicilia, in moltissimi comuni, il giorno 19 di marzo si festeggia il santo in maniera solenne e, per ricordare la fuga in Egitto ed il peregrinare della Sacra Famiglia, si allestiscono come ex voto le famose “Cene di San Giuseppe”. Nella valle dello Jato dette cene pigliano il nome di “I virgineddi” (i verginelli) ; l’offerente, che ha fatto una promessa al santo (a purmisione), allestisce a casa sua, con tutta la famiglia, una enorme cena da offrire a tre bambini poveri  che impersonano Gesù, Maria e Giuseppe. Allestita una grande tavolata dove campeggia o una immagine della Sagra Famiglia o quella di San Giuseppe con in braccio il Bambinello, vengono disposte novantanove portate, trentatré per ogni commensale, composte da un primo che è la pasta con le sarde ed i finocchietti, fritti di pesce, baccalà, frittate in tutte le salse, di cardi, di carciofi, di asparagi, di verdure amare, portate di frutta fuori stagione, ed una serie di portate di dolci che vanno dai panzerotti di ricotta alla cassata siciliana, dai cannoli ai taralli dal marzapane alle glasse. La tavola è cosparsa di fiori e di rametti di rosmarino. Ai piedi dell’immagine sacra delle forme di pane che sono dei capolavori d’arte in cui si cimentano i fornai. Tre grandi pani centrali con le iniziali dei tre personaggi G M G, la scaletta che servì a deporre il Cristo dalla Croce, il bastone su cui si appoggiava San Giuseppe, gli arnesi del falegname: sega, martello, tenaglie, mazzuoli e tantissimi altri pani con motivi floreali . Mancano dall’elenco delle portate sia il vino che la carne, nessuno mai ha spiegato il perché, ma nessuno le ha mai messe in tavola.
Prima della cena, i tre fanciullini, vestiti in costumi dell’epoca, vengono tenuti distanti dalla casa dove è apparecchiata la cena e, guidati da mano esperta, vengono  trasformati in piccoli attori che rappresentano la fuga in Egitto ed il lungo peregrinare dei tre personaggi. In un capannino di frasche, mentre dormono, vengono svegliati da un angelo che li avverte del pericolo scaturente dall’editto di Erode, quindi, la rappresentazione, “i parti”.  Finita la rappresentazione, dopo il lungo applauso degli astanti, finalmente ha inizio la “Cena”, dove i bambini assaggiano, un boccone per ogni portata, tutti i cibi. A questo punto, il sacro ed il profano si mescolano e gli astanti si “abbuffano” con quanto rimasto, compare il vino e la musica rock e tutti ballano fino a notte inoltrata, ricordandosi ogni tanto di gridare: Evviva San Giuseppe, evviva!
Al fine di far rivivere e conservare le tradizioni, nelle scuole primarie ed anche nella scuola materna, si allestiscono gli “altari di San Giuseppe” e si fanno recitare le “parti” agli scolaretti.
Considerato che le scolaresche sono ormai composte da fanciulli di religioni diverse, cattolici, cristiani ortodossi e islamici, nati nei nostri comuni e cittadini italiani, mi è sembrato opportuno scrivere un copione, “La Compassione” , che affronta la persecuzione ed il peregrinare di molte famiglie di extracomunitarie, proprio sulla falsariga delle “parti”, da poter  fare recitare alle scolaresche. Il tentativo, con l’aiuto di molti insegnanti è riuscito, non consentendo a nessun bambino di sentirsi isolato o diverso. 









  
  A/S 2010 - 2011 Scuola dell'infanzia statale "San Giovanni Bosco" San Cipirello.



Mario SCAMARDO
La compassione

Trasposizione delle “Parti di San Giuseppe”
rappresentabili per i figli degli extracomunitari che si sono inseriti nel contesto locale, la valle dello Jato.


..°°00°°..


Athifa e Manzur, giovani sposi, vivevano con la loro figlioletta Afef in un povero villaggio alle porte del Sahara tunisino.  Manzur realizzava dei piccoli manufatti in cuoio di dromedario ed una volta la settimana li portava col suo asinello al mercato di Tozeur. Athifa allevava due capre, coltivava un minuscolo orticello accanto al pozzo, all’ombra di due palme e si curava di Afef che aveva già otto anni.
La loro misera casetta, più volte era stata presa di mira dai predoni, spesso, la giovane donna era stata malmenata e minacciata. La presenza dei predoni aveva innescato nei villaggi una enorme spirale di violenza e più volte la difesa da parte degli abitanti aveva provocato lo sgozzamento di alcuni. Nel villaggio dei due giovani sposi si viveva nel terrore, tanto da indurre Manzur a recarsi al mercato anziché settimanalmente, una volta al mese.
Era una notte di luna piena, non c’era un alito di vento, Manzur dormiva sulla stuoia di palma intrecciata accanto ad Atifa. D’un tratto si svegliò e si pose in ginocchio, davanti a lui si materializzò, avvolta da una immensa luce, la sua anziana madre Fatima, morta un decennio prima. Manzur stropicciò gli occhi, si percosse le guance per capire se era veramente sveglio.

Fatima:         Non aver paura figlio mio, sono tua madre, ascolta con attenzione 
                      quanto sto per dirti: i predoni sono interessati alle vostre case, ai vostri
                      orti, ai vostri animali, faranno di tutto per averli, a costo di ammazzarvi
                      tutti.

Manzur:       Madre, ma noi non abbiamo fatto nulla di male.

Fatima:        Questo lo so, ma tu dammi ascolto, vi strapperanno i figli e li
                      sgozzeranno sotto i vostri occhi se voi non cederete le vostre case ed i
                      vostri beni. Prima che il sole si levi, piglia tua moglie e tua figlia e
                      fuggi verso il nord.

Manzur:       Madre, ma come faremo, abbiamo pochi viveri ed il cammino è lungo
                      assai.

Fatima:        Non indugiare, abbi fede, Allah è grande e guiderà i tuoi passi. (La luce
                      pian pianino si affievolì e, davanti allo stupore di Manzur, Fatima
                      scomparve).

Manzur:       (Si riebbe dallo stupore, aprì l’uscio di casa, guardò all’orizzonte,  
                      rientrò prese la sua preghiera, la srotolò e si inginocchiò su di essa a
                      pregare in direzione della Mecca. Ultimata la sua preghiera  svegliò
la moglie). Athifa, svegliati, sveglia anche la bambina, prepara quanto
necessario perché dobbiamo fuggire.

Athifa:        ( non capì, ma si alzò lo stesso e, pur fidandosi ciecamente del marito, lo
                    interrogò) Manzur, perché dobbiamo fuggire?

Manzur:     Fidati, è il cielo che ce lo comanda, mia madre si è materializzata davanti
                    ai miei occhi e Allah, per mezzo della sua voce mi ha ammonito di andar
via da questo villaggio. La nostra bambina è in pericolo, se non andiamo via subito ce la strapperanno dalle braccia e la uccideranno.

Athifa:        (Atterrita, raccolse il necessario, avvolse la bambina in una coperta ed  
                    aspettò sull’uscio che Manzur arrivasse con l’asino, girò lo sguardo
                    ancora volta verso l’interno e, stringendo al seno la bimba, disse)
                    Che Allah guidi i nostri passi. (assieme al marito, sotto una luna
                    d’argento, iniziò il suo peregrinare).

Dopo un mese di stenti e di marce forzate i tre arrivarono alla periferia di Monastir, si accamparono sotto una tenda improvvisata e Manzur, che sapeva solo realizzare piccoli oggetti in cuoio da vendere ai turisti nei suk, cercò lavoro. Non era facile ottenere un lavoro per chi veniva dall’interno e i pochi dinari, che si guadagnavano lavorando nei campi, non bastavano a provvedere alle necessità della famiglia. Tutti i loro risparmi erano costituiti da poche centinaia di  dinari che Athifa teneva ben nascosti nel suo seno. Quando Manzur chiese ad un marinaio di pigliarlo a lavorare sulla sua barca, questi gli propose una fuga come clandestino in Italia con la sua famiglia, gli parlò del benessere che avrebbe trovato e delle opportunità di lavoro. Manzur, preso dalla disperazione chiese del costo del trasporto e, fattisi i conti, prenotò il suo viaggio per mare, su quella piccola barca. Vendette il suo asino e quanto gli era rimasto dei suoi lavoretti in cuoio di dromedario e la notte convenuta si presentò in riva al mare con la sua famiglia. La barca era piccola e malsicura ma il vecchio marinaio caricò una trentina di persone tra cui una diecina di bambini. Riscosse il denaro convenuto e, prima di partire, strappò dal collo di Athifa l’unico monile che possedeva, una catenina d’argento che portava appesa una medaglietta raffigurante una scarabeo. Athifa smorzò sul nascere il suo pianto e strinse a se la bambina. Furono quattro giorni di terrore, le onde si infrangevano nella chiglia della barca come se volessero inghiottirla, mentre il vecchio marinaio, attaccato al timone imprecava e bestemmiava. Alla fine del quarto giorno, la barca si accostò ad una spiaggetta, il marinaio spinse fuori dalla barca ogni componente del suo carico umano e non permise ad alcuno di recuperare il proprio bagaglio; riavviò il motore e si allontanò. Manzur, Athifa ed Afef si ritrovarono soli su una terra che non era la loro, la Sicilia, avevano fame ed erano stanchi ma si avviarono verso l’interno. Trovarono riparo presso un capanno abbandonato e vi passarono la notte. Il mattino seguente intravidero un agglomerato di case.

Athifa:         (a Manzur) Come faremo ora, a chi chiederemo aiuto, la nostra bambina
                      ha fame, le nostre forze sono al lumicino…

Manzur:       Non perdere la speranza, busserò alla prima casa, vedrai, ci daranno
                      qualcosa per noi e la nostra bambina, su, incamminiamoci. (giunti
                      davanti all’uscio della prima abitazione) Fermiamoci (guardò il volto
                      addolorato di Athifa e carezzò il capino della bimba, alzò gli occhi al
                      cielo,  si recò davanti il primo uscio e con determinazione bussò)

Proprietario I casa:    (Dall’interno, poi affacciando appena il capo) Chi osa battere
                       alla mia porta?... (riconoscendo in Manzur un extra comunitario, fece
                       un brutto muso).

Manzur:        Scusate signore, sono con mia moglie e la bambina, da quattro giorni
                       non mangiamo, siamo stanchi per il lungo cammino, non abbiamo un
                       tetto, dateci almeno qualcosa per sfamare mia figlia.

Proprietario I casa:  (sempre col capo fuori dalla porta, in maniera sprezzante)
                       A casa mia non ospito straccioni, e poi, a quest’ora del giorno mi avete
                        soltanto importunato, andate via, non ho nulla per voi!... (rientrò il suo
                       capo e sbattè con cattiveria la porta in faccia ai tre poveracci).

Athifa:           (Strinse a se la bambina, abbassò la testa e asciugò una lacrima che
                       le solcava il viso. Poi a Manzur) Come faremo ora, questa creatura
                        piange dalla fame, e più tardi piangerà per il freddo… Allah ci ha
                        dimenticato…

Manzur:         (le si fa incontro, l’abbraccia e poi) Non disperare moglie mia, ancora
                         è giorno, non è possibile che tutta la gente di questo paese sia
                         così dura con noi, troveremo di certo una famiglia compassionevole
                         che vorrà aiutarci, abbi fede. Le dita di una mano non sono tutte
                         uguali, sono come le persone, tutte diverse… (prese sottobraccio
                         Athifa e si spinsero un po’ più avanti) Busserò a questa porta. (si
                         avvicinò all’uscio successivo e bussò)

Proprietario II casa: ( Dall’interno) Chi bussa alla mia porta a quest’ora del giorno?
                         (poi si affaccia) Chi cercate, che volete?

Manzur:          (timidamente) Niente signore, siamo senza casa e non abbiamo nulla
                          di che sfamarci, la notte è vicina e la mia bambina piange per la fame
                          abbiate compassione almeno per lei, io e mia moglie non vi
                          chiediamo nulla e, che Allah benedica la vostra casa.


Proprietario della II casa: (in maniera arrogante) non ospito stranieri a casa mia,
                          nemmeno nella mia stalla, e per mangiare non chiedetemi nulla, io
                          il pane che ho mangiato oggi me lo sono sudato! Andate via! (e
                          sbattè la porta in faccia ai tre viandanti)

Athifa:              (si fece prendere dall’angoscia e scoppiò in singhiozzi, poi,
                          lentamente si accasciò a terra tra il pianto della bambina)

Manzur:           (si chinò su di lei e l’aiutò ad alzarsi. Di li a poco c’era un
                          cassonetto dell’immondizia, l’uomo vi si accostò, lo aperse e
                          tirò fuori un paio di sacchetti in plastica con dentro avanzi, vi
                          sbirciò dentro e dopo avere raccolto alcuni cartoni accatastati
                          accanto cassonetto, disse alla moglie) Vieni Athifa, ho trovato
                           qualcosa da mettere sotto i denti, e questi cartoni saranno il
                           nostro tetto per questa notte. (prese la moglie per un braccio e
                           di li a poco trovò un vecchio androne di una casa cadente, sistemò
                           a terra alcuni cartoni e vi fece sedere moglie e figlia, poi tentò di
                           realizzare un tetto, aprì i sacchetti della spazzatura, tiro fuori un
                           pezzo di pane sporco di sughi e con un temperino lo liberò dalla
                           crosta, lo stava per porgere alla bambina, quando un uomo si
                           avvicinò, portava in mano una lanterna.

Uomo:               Mio buon amico, è da un po’ che osservo il vostro peregrinare, ho
                         visto come la carità non vi è stata amica, ho sentito piangere la
                         creatura e ho letto il dolore nel volto di questa madre (indicando
                           Athifa), ho apprezzato la dignità con cui avete affrontato le vostre
                            peripezie. Io non ho nulla da darvi, sono un umile servitore, ma il
                          mio padrone che è un uomo buono mi ha chiesto di venirvi a
                          prendere per portarvi a casa sua. Ha preparato per voi un caldo
                            giaciglio e ha fatto preparare una ottima cena ristoratrice. (notando
                          l’incredulità di Manzur) Vi prego, piglio io in braccio la vostra
                          piccola, voi aiutate vostra moglie e seguitemi.

I quattro lasciano il misero giaciglio e raggiungono il portone dove sull’uscio stanno l’anziano padrone e la sua signora ad aspettare gli ospiti.

L’anziana padrona: ( pigliando tra le sue braccia  Afef e andando incontro
                            ad Athifa) Piccola madre addolorata, siete i benvenuti nella mia
                            casa.

L’anziano padrone: (va incontro a Manzur) Il vostro patire è finito, vi apro il mio
                             cuore e le porte di casa mia, ditemi come vi chiamate e da dove
                             venite.

Manzur:                Il mio nome è Manzur, mia moglie è Athifa e la nostra figliola è
                              Afef. Veniamo da un villaggio alle porte del deserto tunisino dove
                               abbiamo patito le persecuzioni dei predoni.
                               Siamo giunti in questa terra per mare, dopo un lungo peregrinare,
                               cerchiamo un tetto per ripararci ed un lavoro per poter
                               sopravvivere con dignità. L’unica cosa che possediamo sono le   
                               nostre vite che affidiamo alla vostra generosità.

L’anziano padrone: Figli miei, venite dentro, rifocillatevi, riposate e da domani
                                 penseremo a darti un lavoro che vi dia dignità.

Manzur:                Mio benefattore, voi siete un uomo buono e giusto che mi ha                                       
 accolto nella sua casa senza preoccuparsi della mia razza, delle       mie origini, del colore della mia pelle. Consentitemi, secondo i dettami della mia fede di ringraziare Colui che sta al di sopra di tutti noi per il grande regalo che mi ha fatto. Lasciate che preghi anche per voi e per ogni componente della vostra famiglia. (srotolò la sua preghiera e si inginocchiò chinando il capo fino a terra).

L’anziano padrone: (si segnò, alzò gli occhi al cielo e pregò anch’egli, aspettò che
                               Manzur si rialzasse, poi lo ringraziò, gli sorrise e, prendendolo
                               sottobraccio lo accompagnò in casa dove era pronta la cena e
                              ai tre pellegrini) Grazie per il dono che mi avete fatto.  




  Spero di avervi dato uno spaccato di una tradizione siciliana.       

                                                        Buona lettura!