domenica 29 luglio 2012

I BAMBINI DEGLI ALTRI ... LA GUERRA ... XIII RACCONTO ...!!!



















Viene definita la guerra come conflitto armato che contrappone più stati o più popoli. Le motivazioni di una guerra possono essere diverse, dipendenti da fattori economici, politici, religiosi ecc., spesso intrecciati tra loro. Molti conflitti si sono sviluppati anche a causa di contrasti etnici e razziali. Nel caso in cui il conflitto esplode tra gruppi compresi in una stessa nazione o in uno stesso stato, si parla di “guerra civile”. Nella storia dell’umanità, la guerra ha fatto ben presto la sua comparsa, accompagnando le vicende di gran parte delle società e degli stati. La strategia militare nel tempo ha subito un’enorme evoluzione, determinata dallo sviluppo della scienza e della tecnologia, nonché da quelle politiche, sociali e culturali. Dall’epoca medievale, l’attività bellica è stata man mano regolata, dando vita, nel tempo, a una normativa che oggi costituisce la base di numerosi trattati e di un diritto internazionale. La letteratura, la musica, la pittura, il teatro, sin dall’antichità hanno affrontato l’argomento guerra. Da un punto di vista politico-filosofico, la guerra può essere considerata come il tentativo e la tecnica di soluzione dei conflitti che la politica non è riuscita a comporre; se da una parte è quindi l’antitesi della politica, dall’altra è – come suggerisce Karl von Clausewitz – la sua “continuazione ... con altri mezzi”.  I nostri giorni ci stanno facendo assistere ad una guerra economica, dove non viene sparato un solo colpo, ma sta affamando interi popoli e ne sta facendo arricchire altri.
Nella Germania di Gugliemo II,  giovane nazione tesa ad uno sforzo di espansione industriale e militare, l’educazione impartita nelle scuole fomentava nei giovani uno spirito militarista. Eric Maria Remarque nel suo capolavoro “Niente di nuovo sul fronte occidentale” ricorda le lezioni del suo professore di ginnastica Kantorek  e i falsi ideali, tragicamente smascherati in seguito dalla dura realtà.
Questo racconto breve, impostato in maniera che i ragazzi possano percepire l’atrocità della guerra, si pone lo scopo di maturare in essi il rifiuto in maniera assoluta della stessa.



 
Mario Scamardo




I Racconti del Borgo

I bambini degli altri
(XIII Racconto)

 
  La guerra, uno strano termine con molti significati, con molte sfaccettature, ma capace di portare con se la distruzione e la morte, la miseria e la paura, l’orrore e la sofferenza, talvolta motivata da presunti conflitti di interesse economico e ideologico. Guerra di giganti, guerra santa, guerra per bande, guerra partigiana, guerra totale, guerra atomica, guerra batteriologica, guerra chimica, guerra convenzionale, guerra stellare, guerra civile, guerra fredda, guerra psicologica, guerra doganale, troppe guerre e per tutto, dove pochissimi le decidono e tanti le subiscono. Nascono così il dolore, lo sconcerto, le recriminazioni, il desiderio di vendetta.
  Armandino era in piazza, guardava affascinato, col naso appiccicato ad una vetrina, una scatola sonora dove al di sopra ballava un minuscolo pagliaccio di latta. Da tanti anni il ragazzo appannava col suo respiro quella vetrina, amava e desiderava quella scatola, ma non aveva mai trovato il coraggio di chiederla in regalo a suo padre, costava troppo, lui si accontentava di mirarla ed il negoziante, tutte le volte che il ragazzo si avvicinava alla vetrina, la sollevava, girava la chiavetta che caricava la molla interna e la riponeva al solito posto, il carillon si metteva in moto ed il piccolo pagliaccio ballava.



Qualcuno bussò alla spalla di Armandino, un anziano postino plurigallonato gli consegnò una cartolina di colore verdastro, il ragazzo la guardò, lesse, poi disse al postino: - ma io ho appena diciassette anni, è ancora presto per ricevere la cartolina precetto, lei si sarà sbagliato – il vecchio postino aprì la sua grande borsa di cuoio, vi infilò la mano dentro e tirò un grosso numero di cartoline verdastre – vedi figliolo, tutte queste devo consegnarle a tanti altri ragazzi della tua età – ripose le cartoline nella borsa, si tolse il cappello gallonato, tirò dalla tasca un fazzoletto, asciugò la sua fronte sudata, poi lo portò agli occhi e asciugò una lacrima. – La prossima è per mio figlio, si, Antonio, il tuo compagno di banco. La sua è l’ultima che consegnerò, gliela darò stasera appena finito di cenare, saremo io e lui, sua madre, che lui ricorda appena, non avrebbe sopportato una notizia del genere. 



– Battè una mano sulla spalla di Armandino e riprese il suo lesto percorrere le vie del paese.
Il ragazzo si trovò spaesato, confuso, rilesse la sua cartolina precetto, la piegò in due, la intascò, diede l’ultimo sguardo alla vetrina, poi, mogio mogio si diresse verso casa.
  Uno zaino affardellato, una gavetta in alluminio, una borraccia rivestita di un panno grigioverde, questo era stato il corredo affidato ad Armandino al Distretto Militare di Palermo. Nella tasca della sua giubba solo una foto in bianco e nero, ingiallita dal tempo, quella che ritraeva i suoi genitori il giorno delle loro nozze.
Alla stazione un treno lunghissimo, in cima sbuffava un locomotore alimentato a carbone. Sui marciapiedi, a decine i suoi coetanei già inquadrati, tra loro, Antonio, il suo compagno di banco delle elementari, il figlio unico del vecchio postino. Suo padre l’aveva accompagnato alla stazione e per non provare l’angoscia di vederlo partire per il fronte, era andato via, o, forse, s’era nascosto tra la folla a godersi gli ultimi momenti in cui poteva vedere suo figlio.
  Era una assolata giornata del luglio 1940, a Bari in Puglia, Armandino ed Antonio venivano addestrati alla guerra. Le esercitazioni erano stressanti, ore ed ore di massacranti marce, poligoni di tiro, conoscenza delle armi, ma quello che pesava di più ai due ragazzi erano le parole molto violente dei sottufficiali che li incitavano a qualunque crudeltà. Tutte le giornate finivano con un finto assalto alla baionetta che trasformava i ragazzi in aggressivi macellai, atti ad infierire con la massima crudeltà sui manichini imbottiti di paglia.
Armandino non sopportava più l’urlo di battaglia, si turava spesso le orecchie, ed invece di alimentare la sua aggressività e la ferocia, gli infondeva un senso di tristezza e di pietà, persino per lo stesso manichino. Furono due mesi duri, pieni di tensioni, ed il sonno, alquanto breve, veniva spezzato repentinamente dai finti allarmi. 


  L’indomani di ferragosto, tutte le giovani reclute vennero schierate nel grande piazzale della casermetta, squadra dopo squadra, plotone dopo plotone, compagnia dopo compagnia. Tutto era tirato a lucido, gli ufficiali portavano le loro fasce azzurre, i guanti bianchi e le spade penzolavano dai loro cinturoni. I soldati sull’attenti imbracciavano i loro fucili con le baionette innestate, di fronte a tutti c’era un palco gremito di belle signore, di crocerossine, di prelati coi loro zuccotti vermigli, di ufficiali in alta uniforme con i loro petti decorati. Sotto il palco la fanfara suonò l’Inno di Mameli ed al suo cessare signori in borghese e Ufficiali Generali passarono in rivista le truppe, poi, venne dato il riposo. Nessun soldato sapeva cosa doveva succedere, o meglio, qualcuno doveva sapere, quantomeno gli ufficiali, ma nessuno osò parlare prima; anche se in posizione di riposo non si sentì fiatare una mosca. Dal palco, un ufficiale col petto pieno di onorificenze e di medaglie prese la parola e, dopo aver tessuto le lodi delle valorose forze armate italiane al fronte, riconoscendo gli sforzi ed i risultati dell’addestramento delle giovani reclute, ormai soldati, come a voler dare un premio, annunciò la decisione del Governo di doverli mandare in Grecia per completare il processo di occupazione. Dal palco, le signore imbellettate, con le velette dei cappellini e delle acconciature che coprivano i loro volti, fecero scoppiare un grande applauso d’approvazione, dietro di loro le crocerossine, i prelati e tanti civili dai colletti inamidati e con i menti ricoperti da ridicole barbe.
Antonio guardò negli occhi Armandino che gli stava accanto e notò tutta la sua tristezza; il terrore gli si leggeva negli occhi, i polsi gli tremavano e stringendo la mano dell’amico disse: - che sarà domani, noi la guerra non l’abbiamo voluta, è qualcosa che appartiene agli altri e, la Grecia è così lontana, tanto lontana dalla nostra cara Sicilia. Armandino, io sono già stanco, ho ancora voglia di giocare, ho ancora voglia di imparare dai racconti dei vecchi del paese. Ci hanno sempre detto che la guerra è una cosa sporca, ed io non ho voglia di fare le cose sporche, io non voglio uccidere e non voglio essere ucciso. Tu che hai la mamma, pensi che avrebbe gioito alla notizia che noi ragazzi ci stiamo mettendo a giocare alla guerra come i grandi? Pensi che avrebbe applaudito anche lei all’idea che questi nostri commilitoni e noi stessi siamo stati educati a morire? – Armandino lo ascoltò, tenne stretta la mano dell’amico e rispose: - ma loro non sono né le nostre mamme né i nostri papà, sul palco non c’è la nostra gente, il nostro parroco, il nostro catechista, il nostro farmacista, il nostro venditore di giocattoli; anch’io ho ancora voglia di giocare e mi manca la mia scatola sonora di latta con il pagliaccio che balla alle note del carillon. – Poi si fermò e, pur volendolo trattenere, gli sfuggì un singhiozzo seguito da una lacrima. Le mani dei due ragazzi si saldarono in una stretta, un attimo dopo Armandino disse: - noi non siamo i loro bambini, siamo i bambini degli altri! –
  Negli ultimi giorni di settembre i due ragazzi, raggiunto il suolo greco, furono separati; Armandino raggiunse con altri commilitoni un avamposto sulle montagne, di Antonio non si ebbero notizie. La resistenza greca era molto fiacca e le truppe italiane avanzavano di trincea in trincea, di valle in valle. La notte era stata serena, pochissimi spari sui versanti dei monti, ma molto lontani, faceva tanto freddo e nelle vicinanze si intravedeva un paesino arroccato su un piccolo altipiano. Buio tutt’intorno, ogni tanto si intravedeva una luce, forse un’anta che si apriva per potere sbirciare fuori, per un marito o per un figlio non rientrato, in una notte senza luna. Sembrava che l’alba non arrivasse mai, le ore erano interminabili e, quando l’aurora permise di vedere, si notarono alcuni movimenti strani proprio intorno a quel paesino. Un colonnello in compagnia di due sergenti attraversò tutto il camminamento della trincea che era stata conquistata il giorno prima, spiegò l’importanza di arrivare all’altopiano dove era ubicato il piccolo agglomerato urbano, una roccaforte strategica delle truppe greche, quindi, spiegò alcune strategie per accerchiarlo e prenderlo se non con le armi, almeno per fame. C’era un’unica strada che arrivava al paesino, una erta che attraversava un corso d’acqua che scorreva in una gola con un imponente ponte in ferro. Fu riunita la squadra dei guastatori e venne deciso di minare il ponte. Quando il colonnello ebbe finito di dare spiegazioni, si rivolse ai soldati e chiese: - se c’è qualcuno di voi che ha da fare osservazioni può chiedere la parola. – Armandino alzò la mano, fece un passo avanti, si mise sull’attenti, salutò e si presentò. L’ufficiale gli diede il riposo e gli disse di parlare. – Signor colonnello, per arrivare fin qui abbiamo incontrato solo miseria e terrore, per fortuna poca è stata la resistenza del nemico, ma essendo quella l’unica via di accesso al paese, dal momento in cui si fa saltare il ponte, questi poveretti rimarranno tagliati fuori dal mondo ed il disagio per i civili sarà enorme. – L’ufficiale lo guardò e gli chiese: - ragazzo, quanti anni hai? – Diciassette – rispose Armandino e abbassò gli occhi, convinto di avere detto uno sproposito. Il colonnello gli andò incontro, gli fece una carezza e poi gli disse: - figliolo, questa è la guerra, noi tutti siamo strumenti in mano ai potenti della terra, siamo solo macchine da guerra, le nostre vite valgono al massimo una medaglia da appuntare sul petto dei nostri cari, siano essi figli, madri o fratelli, ma solo dopo che il nostro sangue avrà bagnato la terra. Nessuno di noi può discutere gli ordini, è la patria che ce lo ha chiesto, e per essa si può immolare qualunque delle nostre vite e, ove occorra, tutte. La guerra, figliolo, non è mai giusta, né per noi, né per i nostri nemici, eppure, in ambedue i fronti la combattiamo, eseguendo ordini talvolta senza logica, talvolta inumani, talvolta sbagliati. Le nostre coscienze si incrudiscono e le nostre menti sono date all’oblio e, se si è fortunati, si riporta a casa la pelle. Buona fortuna ragazzo, davvero buona fortuna... - Il colonnello salutò e percorse a ritroso i camminamenti della trincea.
  Il sole era già alto quando brillarono le cariche che fecero saltare il ponte, cominciò carponi la scalata al piccolo altipiano. Dietro un sasso Armandino aspettava un segno per avanzare quando una pietruzza lo colpì sull’elmetto, girò il capo e vide il suo amico Antonio, anch’esso riparato dietro un grosso sasso che agitava la mano per farsi riconoscere. Armandino si stupì, erano ormai tanti i giorni che aveva perso le speranze di rincontrare il suo vecchio compagno di scuola, ed ora se lo trovava fianco a fianco a compiere un’azione. Quasi sulla sommità dell’altipiano un vecchio sergente lo avvicinò, gli bisbigliò di prepararsi a lanciare alcune granate e bombe a mano, nel momento in cui avrebbero fatto irruzione nelle abitazioni, avrebbero potuto essere piene di soldati nemici, visto che attorno non se ne vedeva alcuno e non si era sentito alcuno sparo. Armandino assentì col capo, prese nelle due mani due granate e al segnale convenuto scardinò con un calcio la porta della prima abitazione. Dentro c’erano alcuni bambini e alcune donne, tirò indietro il braccio pronto a lanciare l’ordigno di morte ma gli arrivò all’orecchio il grido disperato di Antonio: - No Armandino, non lanciare, attento, non ci sono nemici dentro, ricordati, non esistono i bambini degli altri! – Il ragazzo si bloccò, rimase quasi impietrito, tremò e la sua granata, ormai senza sicura, gli scivolò dalle mani, cadde a terra, brillò e lo dilaniò. Era l’ottobre del 1940, l’Italia aveva invaso la Grecia.



Spero soltanto di essere riuscito nell'intento, il tentativo è stato carico di buone intenzioni.

Buona lettura!

Se vi va di lasciare un vostro commento, mi aiuterà certamente a fare meglio in seguito.      Grazie!

domenica 22 luglio 2012

PLUTONE E L'AVERNO ... POESIA !!!



     La morte, l'ultimo atto della vita, imparziale, uguale per tutti! Non c'è lotta contro di essa, arriva con passo felpato, inesorabile, a chiudere la parentesi della vita! Il corpo non è più, solo un ammasso di cellule che si fermano pronte ad offrirsi alle leggi della fisica e della chimica, affinchè la materia si trasformi; miriadi di piccole energie che si trasformano in altre energie. Ogni uomo ha una sua visione della morte, non ce ne sono due uguali. Verga inizia il suo romanzo con i funerali di Bastianazzo Malavoglia, annegato in mare per il naufragio della "Provvidenza". Il fulcro della tensione drammatica della scena non è , come ci si aspetterebbe, la disperazione per la morte di Bastianazzo, ma quella per la perdita del carico, i lupini comprati a credito. Sir Thomas Malory ci racconta la morte di re Artù e di suo figlio Mondred che si uccidono reciprocamente in battaglia, contro ogni morale vengono giustificate queste morti: contendersi un trono! 
     Dove abita la morte? Ha un suo regno? Gli antichi greci l'avevano immaginato nelle viscere della terra.
     Il pensiero della morte fece scaturire dalla mente degli antici greci il re dell’oltre-tomba Plutone. L’umanità greca tremava al suo nome, lo chiamavano l’Invisibile, a cagione della sua buia dimora. Non vide mai la luce Plutone, tranne una volta, quando si spinse sulla terra per amore di Proserpina. Sedeva sul suo trono al centro dell’Averno il giudice delle anime, e le sue sentenze erano senza appello. Il poeta trace Orfeo, quando morì la sua sposa Euridice tra le sue braccia, morsa da un serpente nascosto nell’erba, non ebbe più pace e la disperazione diventò la sua compagna. Decise un giorno Orfeo, nel suo sconforto, di cercare Euridice nell’Averno e di tentare il cuore di sasso del loro custode. Fece tintinnare in tono lamentoso la cetra, ed il suo canto gemette: Euridice! Euridice! Tacquero i supplizi infernali ed anche Cerbero e le Furie. L’amore produsse il miracolo. Plutone, impietosito, consentì che Euridice, seguendo Orfeo, ritornasse a godere della luce sulla terra. 


     Quanto si lega la visione del mondo greco antico alla moderna visione che le tre religioni abramiche ci hanno dato? Credo che il sommo poeta Dante con la sua maestosa opera, abbia mediato il mondo greco con la concezione moderna, il legame, il passaggio avveniva ed avviene con "sorella morte", così come la definì Francesco d'Assisi.



 
TRAMONTO DI UN SOGNO

Nel meriggio avanzato
vedi  danzare pagliuzze
e foglie divelte dal vento,
e tu pensierosa, guardi
a ponente la palla infuocata.
Si ribella la tua anima,
l’imbrunire t’infonde tristezza,
tornano alla mente i ricordi
e le foglie ingiallite
insistono ad intrecciar piroette…
Sbatte una finestra, un geco
inghiotte un’incauta falena;
così vedesti svanire il tuo sogno!
Un grosso boato e contorte lamiere,
sibilanti sirene e… sull’asfalto
una smorfia di dolore
su un volto insanguinato…
Non potesti neppure vederlo
quel viso per l’ultima volta,
non ti è stato concesso
e sei rimasta più sola
ad errar tra angoscia e pensieri
e sempre più a ricercar te stessa.
Il veliero dei ricordi
trasporta antiche trame
e tu scruti il passato.
Il dolore, nemico terribile!...
 Resistere con tutte le forze
o, lentamente soccombere!...
E tu, fragile creatura,
abbarbicata ai tuoi ricordi,
al tuo sogno ormai senza storia,
assisti al morir di ogni giorno
cercando nel sole arrossato
quel volto che mai più vedesti.





LA MORTE SCONFITTA 

Rivoli di sangue sui sassi,
una perla rotola sul selciato,
quà e là le scarpe e una borsetta,
gli occhi semiaperti all'infinito
ed un respiro cupo ed affannato.
Attaccato al vespino un casco rosa,
forse, mai usato
che s'intona con la sua maglietta.
Sulla visiera un nome
scritto con l'uniposca
e accanto un cuore,
attraversato da un dardo di Cupido.
Gente curiosa, accalcata,
gesti che sembrano segni di croce.
Stride una sirena d'ambulanza,
corre all'impazzata
sottraendo alla morte
secondi preziosi.
Noi, mesti, aspettiamo
il responso d'un camice bianco...
la morte digrigna i denti,
sconfitta e stravolta
ammaina la sua falce 
e si avvia verso l'Ade.




BUGIE DI UN SOGNO

Pagine ingiallite di un diario
parlano di primavere tramontate
e di sogni svaniti nel nulla.
Mummificate violette
raccontano piccoli amori
e trascorsi di vita vissuta.
In fondo ad un cassetto,
soltanto una foto stracciata.
Asfalti lucidi e ai cigli
siringhe, tante siringhe...
assordanti grida nella notte,
pianti nelle corsie d'ospedale.
Lunghi silenzi e pagine vuote,
sospiri tirati a lungo
che rimangono dentro come macigni,
intricati pensieri,
liane intrecciate di giungla,
assolate dune vaganti
e venti caldi impetuosi
che sfogliano le pagine d'una vita
immolata ai sogni bugiardi.





GUERRA

L'occhi affussati, 'nsunnacchiatu,
giarnu comu nna cucuzza baffa,
ti nni stai 'nta n'agnuni allavancatu
aspittannu a la crisi chi ti passa.

Poi, nuccinteddu, ormai senza raggiuni,
ppi nun fariti sbintari ti quartii,
tuttu arrunchiatu ti punci d'ammucciuni
e d'un farfanti sonnu ti nni prei

Adaciu adaciu comu nna lumina
la to vita si sta cunsumannu
cchiù passa tempu e cchiù è la to ruina,
cchiù ti taliu e cchiù mi va spirennu.

Addulurata e muta, to matruzza,
s'adduna ca nun parri nna matina,
quagghiasti friddu comu n'acidduzzu
vittima di nna dosi d'eroina! 




Spero con questi versi di avere soddisfatto a qualche interrogativo che pone "sorella morte".

Buona lettura!