mercoledì 26 ottobre 2016

LA FATA DELLE GROTTE DI RAITANO - Favola - (Riproposizione) 26. ottobre. 2016






I Racconti del Borgo

MARIO SCAMARDO
 
La fata delle grotte di Raitano

 
Carletto era un bambino di appena dieci anni, aveva completato da poco la scuola elementare e, come tutti i figli dei piccoli pastori, sapeva qual’era  il suo destino fino all’arrivo della cartolina precetto che, l’avrebbe chiamato ad assolvere un dovere verso la patria e, l’avrebbe portato, almeno per un periodo, fuori dalla routine di tutti i giorni, guidare ed accudire al piccolo gregge che il padre gli aveva affidato e che lui portava al pascolo sulle colline intorno a San Cipirello, comune dell’entroterra palermitano, dove abitava.
Tutte le mattine, ancor prima che cantasse il gallo, il ragazzo apriva il recinto e faceva venir fuori le sue pecorelle, attraversava un vecchio tratturo e risaliva le colline in contrada Raitano, arrivando fino in cima, alle grotte. Sulle alture di calcarinite erano stati scavati, in epoche molto remote, alcuni tholos, di forma sferica, nei quali si poteva accedere solo dall’alto, calandosi con corde o scale. Le funzioni dei tholos, chiamate dalle genti del posto “grotte di Raitano”, nel tempo, furono diverse: luoghi di segregazione, contenitori di derrate alimentari, rifugi per malviventi, tombe, e quanto la fantasia dei visitatori ha potuto immaginare. A contrassegnare le bocche d’ingresso alle grotte c’erano piccoli recinti circolari in filo spinato, evitando così che pecore, ma soprattutto agnellini, potessero precipitarvi dentro. Il padre di Carletto lo aveva istruito a dovere e lo aveva ammonito severamente di non affacciarsi ai buchi di accesso. Il ragazzo era ubbidiente e se ne teneva lontano, in quanto, stante la loro forma sferica con un diametro di non meno di dieci metri, uscirne da soli sarebbe stato impossibile.
 Un po’ più in basso un antico fontanile consentiva l’abbeverata e l’opportunità di riempire la borraccia, ma anche di godere dell’ombra di un secolare ulivo, per poter leggere qualche libro che chiedeva in prestito ad un suo amichetto, più fortunato di lui, che frequentava la scuola media. Quando arrivò l’estate, recintata l’area della collina delle grotte, Carletto realizzò, aiutato dal padre, una piccola tettoia in canne e frasche, addossata ad un grosso masso e non portò più le pecore in paese. Il padre, prima dell’imbrunire, gli portava gli alimenti e la biancheria e ritornava ad accudire l’altro gregge che era al pascolo in una contrada un po’ più lontana.
A Carletto piaceva tanto dormire all’addiaccio, si sdraiava accanto alla tettoia e scrutava il cielo, fino a quando non lo coglieva il sonno.
Era un pomeriggio inoltrato, il sole era quasi all’orizzonte, le pecore si erano addossate alle rocce, chiuse il libro che stava sfogliando e lo depose con cura nello zaino. Era un libro di scienze naturali e Carletto aveva finito di leggere un paragrafo sugli insetti che riguardava le lucciole, la loro luminescenza dovuta all’ossidazione dell’enzima luciferasi, il sistema di comunicazione, il loro modo di nutrirsi con polline e nettare, quando un nugolo di questi simpatici coleotteri gli passò davanti agli occhi e si unì con altri nugoli, quasi a formare un grande sciame che si sollevò e girò attorno al grande sasso. Carletto rimase a naso in aria, e più si fece buio, più il fenomeno diventò affascinante. Le lucciole, come guidate da qualcuno, si scissero in due formazioni e si disposero su due lunghe linee parallele che dal fontanile raggiungevano la grotta posta più in alto, come a tracciare un percorso ed illuminarlo contemporaneamente. Carletto fu preso solo da grande meraviglia, non aveva mai avuto paura, pensò ad una danza degli insetti ed attese attento gli eventi. Dalla grotta posta più in alto vide uscire, sempre su due file parallele alcuni piccoli esserini, non più alti del suo cane, poi altri un po’ diversi ed altri diversi ancora, tutti seri, composti e silenziosi, dietro di loro una fanciulla bellissima, vestita di veli, con i capelli cadenti sulle spalle. Le lucciole si misero in agitazione e la luce fu tanta che sembrò giorno. Gli occhi della fanciulla brillavano, le sue mani erano diafane e le dita sottili e calzava delle scarpine di velluto rosso. Ogni esserino che la precedeva teneva in mano una piccola brocca, era come se una principessa venisse preceduta dai suoi cortigiani. Nessuna pecora si mosse, il cane non abbaiò e non scodinzolò, strano, di solito bastava che il vento muovesse le frasche per farlo abbaiare. Carletto fece un lungo respiro e attese gli eventi. 
Il corteo si mosse e quando la fanciulla arrivò in direzione del ragazzo, battè le mani e tutti si fermarono. Era davvero bella, sembrava non avere età, le sue labbra sembravano disegnate da un artista ed i suoi capelli assomigliavano alla filigrana d’oro. – Non mi chiedi chi sono? – disse la fanciulla – so che non hai paura, e non devi averne, la meraviglia che stai provando, tra poco passerà. Sono la fata delle grotte, le altre fate mi chiamano Ortensia, perché tanti anni or sono, un bambino come te, scivolando dal sasso addossato al quale tu hai costruito la tua tettoia, cadde su una grande macchia secolare di rovi dalle spine lunghe ed appuntite, io sentii il suo grido di terrore, accorsi e tramutai i rovi in una altrettanto grande macchia di ortensie. – Carletto l’ascoltò e rimase incantato da tanta grazia che non proferì parola, allora la fata continuò: - vedi, io vivo nella grotta più in alto, la prima che è stata scavata più di tremila anni fa, loro vivono con me, i primi sono gnomi, saggi e buoni consiglieri, i secondi sono folletti, vivaci, allegri, rallegrano le mie giornate, i terzi sono elfi, scontrosi, dispettosi, talvolta burloni, mi fanno disperare, ma con tutti vivo tutte le emozioni. Ogni sera andiamo al fontanile a riempire le brocche d’acqua e le amiche lucciole ci illuminano la strada. -  Il ragazzo timidamente disse: - signora, ma io le altre sere non vi ho visto, eppure son quindici giorni che dormo su questa collina. – Ridacchiarono i folletti e gli elfi, ma la fata battè le sue mani delicate e fu silenzio – siamo noi che decidiamo di farci vedere, tutte le sere siamo passati, sempre alla stessa ora, noi ti abbiamo visto, poi, riempite le brocche, al ritorno, abbiamo vegliato sul tuo sonno, fino all’aurora. – Signora – disse il ragazzo – io desidero rivedervi ogni sera, resisterò al sonno e voi mi terrete compagnia. – Forse lo faremo e forse no, tu hai già degli ottimi compagni, i tuoi libri. – Lo so, mi piacerebbe averne tanti, ma anche di imparare tutto quanto c’è dentro, la mia vita è segnata, sempre solo con le pecore, come mio padre e mio nonno, su queste colline, senza vedere mai gente, senza la scuola. La mia famiglia vive di questo lavoro, il pane non ci manca, però, cosa c’è al di la dei monti? – La fata sorrise e gli disse: - dammi la tua mano, vieni con noi giù alla fonte, mentre si riempiranno le brocche continueremo a parlare. – Carletto diede la mano alla fata ed il corteo riprese la sua marcia, giunti al fontanile il ragazzo disse: - mio padre mi ha sempre raccomandato di non essere curioso, ma io non resisto dalla voglia di farvi una domanda, com’è la vostra grotta? – Per i curiosi e gli invadenti è come le altre – rispose Ortensia – tu non le hai mai viste? – No – rispose il ragazzo – mio padre mi ha ammonito di non sporgermi a guardare, ed io non l’ho mai fatto, anche se la curiosità, qualche volta, mi ha sollecitato. – La fata sorrise e disse: - lo so che non hai mai disubbidito a tuo padre, egli ti ha dato un giusto consiglio e tu lo hai ascoltato. Io voglio premiare la tua ubbidienza, domani, dopo l’abbeverata, verrà uno gnomo a prenderti e ti accompagnerà alla mia grotta. – Riempite le brocche si riformò il corteo e giunti alla tettoia Ortensia disse a Carletto: - ora verrà fuori uno spicchio di luna, sdraiati sul tuo giaciglio e dormi. Il ragazzo accompagnò con gli occhi la fata che, davanti all’ultima grotta, lo salutò con un cenno della mano.
L’alba del mattino seguente svegliò Carletto, che arrotolò la sua coperta, condusse il piccolo gregge al fontanile, fece le sue pulizie personali e consumò la sua colazione, un pezzo di pane e delle albicocche che il padre gli aveva portato il giorno prima. Si sedette all’ombra del grande ulivo, prese tra le mani il libro che aveva nello zaino, ma non  riuscì a concentrarsi nella lettura. Non riuscì a non pensare a quell’evento straordinario della sera prima, alle lucciole, agli elfi, ai folletti, agli gnomi, ma soprattutto aveva stampati nella mente gli occhi dolci di Ortensia, i suoi capelli di filigrana, le sue mani diafane, le sue parole, ed ebbe il dubbio che quanto ricordava, fosse stato soltanto un sogno, di quelli che ti lasciano il segno per un po’ e sembrano reali. Il dubbio lo colse, forse aveva sognato davvero, ma accostandosi alla polla per bere, notò con sua grande sorpresa che, accanto alla sorgente, stava una brocca, un po’ più grande delle altre, ma identica nella forma a quelle che la sera prima aveva visto riempire dai folletti. Ciò gli permise di fugare il dubbio, riempì la brocca e risalì verso la grotta più alta, la depositò quasi davanti all’imbocco e ritornò dalle sue pecore.
Quando pian pianino risalì la collinetta col suo gregge, guardò in direzione della prima grotta, non c’era più la brocca, al suo posto uno dei barbuti gnomi salutava con la manina.
Il sole era allo zenith, faceva caldo e le pecore cercavano l’ombra dei pochi arbusti. Carletto sedette sotto la sua tettoia e si appisolò. Quando si svegliò, accanto, seduto su un sasso, c’era lo gnomo barbuto che sorrise e gli disse: - non preoccuparti per le tue pecore, ci sono i miei fratelli ad accudirle, tu alzati e seguimi, Ortensia vuole esaudire il tuo desiderio, ti riceverà nella sua grotta. Mai essere umano l’ha visitata, quando tremila anni or sono fu scavata, il despota che ne ordinò la realizzazione, una volta ultimata, fece uccidere le maestranze e ricoprì l’imbocco proprio con questo sasso dove tu hai accostato la tettoia. Nel tempo, un violento terremoto fece rotolare la grande pietra e la grotta vide la luce. Carletto si alzò, bevve un sorso d’acqua dalla sua borraccia e seguì lo gnomo.
Davanti all’imbocco della grotta, il ragazzo chiese allo gnomo: - come faremo a calarci giù? – non ebbe il tempo di finire che vennero fuori due elfi che appoggiarono sul ciglio una comodissima scala, foderata di seta, con due passamani in metallo lucido. Lo gnomo scese i primi due gradini e disse a Carletto: - vieni – e tutti e due guadagnarono il fondo. L’interno era una grande sfera, illuminata da migliaia di lucciole attaccate alla parete, dal pavimento si dipartivano quattro corridoi, portavano agli alloggi per elfi, gnomi, folletti, e quello per Ortensia. La fata era giù, seduta su una comodissima poltrona rivestita in seta, sfolgorante, nel suo abito di veli di un rosso carminio stretto alla vita da una cinta in giallo-oro, le sue scarpette erano in velluto rosso ed i suoi capelli di filigrana erano legati dietro la nuca con un nastro di seta nero. Gli occhi le brillavano e le sue mani sembravano di cera. Carletto rimase abbagliato da tanta bellezza e tanta grazia, non trovò parole. La fata sorrise, battè le mani ed un folletto portò un morbido cuscino di seta che diede al ragazzo e questi, all’invito  di sedersi, vi si adagiò davanti a lei. - Come vedi, il tuo desiderio è stato esaudito, ho voluto premiare la tua ubbidienza, la tua devozione al lavoro e alla famiglia, la tua generosità. La brocca che hai portato piena era la mia, era quella più grande, l’ho lasciata volutamente vuota giù al fontanile, per darti la prova che quanto avevi visto era vero e non era soltanto un sogno. La tua è certamente una vita grama, ma tu non ti lamenti, e per non perdere il contatto col mondo, ti fai prestare i libri e attingi da essi quanto ti serve per soddisfare il tuo desiderio di cultura. Dimmi, cosa desideri più nella vita, qual è il tuo sogno più grande? Rifletti, non rispondermi subito, la fretta non è mai una buona consigliera. Fra poco arriverà tuo padre per portarti ciò che ti occorre e tu dovrai essere con il tuo gregge, ma ancora hai tempo, ti condurrò nella mia stanza e ti mostrerò un oggetto in miniatura e poi ti assegnerò un compito. – Carletto seguì le parole della fata, non smise mai di fissarla e poi disse: - bellissima signora, io non racconterò mai a nessuno quanto ho visto, nemmeno alla mia mamma, lo conserverò come un bel ricordo, ma permettetemi di rivedervi ogni giorno, ciò non mi fa pensare alla mia solitudine, rende il mio lavoro piacevole e non sognerò più di andare via da questo posto per cambiar vita. – La fata sorrise, si alzò, si chinò sul ragazzo, lo strinse al suo seno e lo baciò sulla fronte. – Vieni, andiamo nella mia stanza – lo prese per mano e attraversò con lui uno dei quattro corridoi illuminati da migliaia di lucciole. – Entra e siediti – prelevò da uno dei suoi tavolinetti colmi di oggetti un modellino in tufo di una poltrona, glielo porse e disse: - ho sempre desiderato sedermi all’esterno della grotta, nelle serate d’estate, su una poltrona scavata nella calcarinite, ma i miei amici sono tanto piccoli, non hanno la forza per realizzare il mio sogno, ed i loro attrezzi sono minuscoli, riescono a realizzare soltanto oggetti in miniatura, guarda, i miei tavoli sono pieni.- Carletto sorrise, studiò la piccola miniatura, fissò nella sua mente le forme e calcolò la misura adatta alla sua fata, poi riconsegnò l’oggetto e disse: - giù nella parete a ridosso della tettoia, dove la pietra è più friabile, realizzerò la tua poltrona, ci lavorerò fino a tarda sera e anche di notte, quando ci sarà la luna piena, te lo prometto. – La fata sorrise – ricordati, oggi sarà luna piena, ed io desidero che per la prossima luna la mia poltrona potrà servirmi per mirarla, quindi, vent’otto giorni da oggi. Puoi andare ora, tuo padre sta per arrivare. – Carletto, accompagnato ai piedi della scala la risalì e si trovò fuori dalla grotta tra le sue pecorelle.
Appena arrivò il padre gli fece la richiesta di uno scalpello ed un mazzuolo, a tarda sera l’anziano pastore ritornò e consegnò gli attrezzi al figlio.
Il mattino seguente, abbeverate pecore ed agnelli, si mise all’opera sulla parete di pietra friabile. Carletto era infaticabile, giorno dopo giorno la pietra prese forma, ma lui era soltanto un ragazzo e quando cominciava a far buio, era così stanco che cadeva in un sonno profondo.
Erano già trascorsi ventisei giorni, il lavoro abbisognava delle rifiniture, occorreva eliminare le asperità, la sua fata non poteva sedersi e poggiare le spalle sul ruvido, bisognava far presto, ma non bastava il tempo. Carletto cominciò a disperarsi, ed al ventottesimo giorno, pur lavorando a sera inoltrata, capì che non poteva finire la sua opera. A tentoni asportava le asperità e, talvolta, batteva il martello sulle sue dita facendosi male. D’un tratto uno sciame di lucciole si posò sulla parete di pietra e illuminò la poltrona, il ragazzo si diede un gran da fare e, quando tutte le superfici divennero lisce, guadagnò il suo giaciglio.
Quando la luna piena fece capolino all’orizzonte, Ortensia, accompagnata dai folletti, dagli gnomi e dagli elfi, raggiunse la poltrona e sedette ad ammirarne il suo procedere lento. Il sonno di Carletto durò poco, andò incontro alla fata dai capelli di filigrana che brillavano attraversati dai raggi di luna. Nel suo viso si leggeva la gioia che provava, la sua fata aveva la sua poltrona, questo lo fece sentire importante. – Torna a dormire – disse la fata – sei stanco, io veglierò il tuo sonno e domani, dopo l’abbeverata mi verrai a trovare.-
Il giorno seguente, quando il sole era già alto, il ragazzo si avvicinò alla grotta, i due elfi appoggiarono la scala sul ciglio ed egli scese giù. Ortensia l’aspettava, gli andò incontro e lo carezzò - è giunto il momento di dirmi qual è il tuo più grande desiderio, hai avuto del tempo per riflettere, ventotto giorni in cui hai faticato, venendo a capo di un impegno arduo per un ragazzo come te, io posso esaudirne solo uno di desideri, su, esprimilo! – Carletto sorrise, capì che la fata era pronta a dargli un premio e disse: - fa che io possa ritornare a scuola, che possa frequentare nuovamente l’oratorio, che possa studiare per potere aiutare i miei genitori nella loro vecchiaia. – Ortensia sciolse i suoi capelli, prelevò la sua bacchetta magica da un cassetto e la fece ruotare in aria disegnando un grande cerchio, poi fissò Carletto: - tutto avverrà in ventotto giorni! – Abbracciò il ragazzo e prima di licenziarlo andò nella sua camera e ritornò con la miniatura della piccola poltrona. – Tieni è tua – disse – è d’oro, non è il valore che conta, non cederla mai, portala sempre con te, tutte le volte che la guarderai o la sfiorerai ti ricorderai della fata delle grotte di Raitano – lo baciò e lo accompagnò ai piedi della scala. Ventotto giorni dopo arrivò a casa sua il telegramma di un notaio statunitense che avvertiva la famiglia che lo zio del padre di Carletto, passando a miglior vita, gli aveva lasciato in eredità una fortuna inestimabile. Giusto il tempo di fare le carte e Carletto andò in America con i suoi. Lì, ebbe modo di studiare, laurearsi ed assicurare una vecchiaia serena ai suoi genitori. Quando dopo quindici anni tornò in Sicilia, volle recarsi a Raitano, ed in una notte di plenilunio godette della compagnia della sua fata seduta sulla poltrona di pietra. Il tempo non era trascorso, non aveva scalfito la sua bellezza, tutto era immutato. Si avvicinò, cacciò dalla tasca una piccola scatola e la porse alla sua fata, senza proferir parola. Ortensia aprì la scatola, dentro c’era una piccola stella realizzata in diamanti che brillarono sotto i raggi della luna piena. – Bambino mio – disse la fata commossa – non mi hai dimenticata, il vile denaro non ti ha dato alla testa, il tuo cuore è rimasto quello del mite pastorello – prese la piccola stella e l’appuntò sulla sua chioma dorata, e la stella brillò come le sue lucciole. – Ascolta Carletto, non perdere mai la tua innocenza, fai che il bambino che c’è in te, venga sempre fuori e al momento giusto. Ricordati, tutti i grandi sono stati bambini una volta, ma pochi di essi se ne ricordano! - In un baleno tutto svanì, Carletto si guardò attorno, stringeva tra le mani la miniatura che gli era stata regalata, capì che non avrebbe più rivisto la sua fata; solo le lucciole erano rimaste ad illuminare la poltrona scavata nella roccia. 
Grazie per l'attenzione, se vi è piaciuta o meno, lasciate un commento, se volete!

giovedì 6 ottobre 2016

LA GROTTA DEI RIFIUTATI - Racconto breve - (Riproposizione) 06.10.2016



La vita? Il dono più grande che uomo abbia mai potuto ricevere!
Chi ci ha dato la vita ci ha amato e ci ama, nella consapevolezza che l'Amore si coniuga con la speranza!

Omaggio a tutti voi un racconto breve, tratto dal libro "IL FAVOLIERE Cucù e le sue storie" di Mario Scamardo e Sara Riolo - edizioni ila palma




La grotta dei rifiutati
     A Sparta, col suo sistema politico aristocratico e conservatore, impostato oligarchicamente, non si parlava mai di trasformazioni e innovazioni, contrariamente a quello ionico-ateniese aperto e democratico, pronto alle modernizzazioni, vivo e capace di armonizzarsi con l’evolversi dei tempi.
     Gli spartani avevano creato un rigido ordinamento militare e politico in quanto la città, situata alla base del monte Taigeto, era priva di fortificazioni e doveva altresì fronteggiare le popolazioni sottomesse, ostili e irrequiete, pronte alle ribellione ed alle agitazioni. Gli iloti erano stati ridotti a servi della gleba; i perieci mantenevano le loro libertà ma non godevano dei diritti politici; gli spartiati erano cittadini di pieno diritto, dominatori all’interno di Sparta.
     Il dovere principale dello spartiate era quello di essere sempre in armi, a disposizione dello Stato.
     I bambini sani e robusti rimanevano in famiglia fino a sette anni, poi di loro si pigliava cura lo Stato e ne faceva perfetti soldati. Nel mondo spartano, i deformi non avevano diritto di vivere, bastava nascere storpi, anche se potenzialmente intelligenti e capaci, per non vedere la luce del giorno successivo della loro venuta al mondo. Stuoli di informatori lavoravano per selezionare i futuri guerrieri, per ottenere cittadini atti alla guerra, sani e forti, capaci, da adulti, di affrontare le guerre continue che la lotta per la vita e lo spirito di conquista impongono. Gli informatori erano per lo più donne, al servizio del regime, spesso vecchie e arcigne, con brutti musi, senza sorriso sulle labbra, che passavano per le strade, sbirciavano nelle case, si informavano e segnavano di nascosto gli usci delle donne gravide con un piccolo occhio stilizzato, poi, si allontanavano sapendo che quel segno sarebbe stato notato dagli uomini della guardia reale.
     A parto avvenuto, sarebbe subentrato il controllo sulla idoneità fisica del neonato, quindi sarebbe stato segnato il suo destino, vivere per essere quasi sempre un uomo in armi, votato al rischio e al sacrificio, o morire in quanto storpio, ed essere gettato come un rifiuto da una famigerata rupe del Taigeto, nella notte che precede il plenilunio. Bimbi creati per amore e dall’amore nati, solo perché deformi, solo perché iloti, venivano trattati come scarti dell’esistenza, gettati via come rifiuti.
     La rupe si sporgeva su un baratro profondo tanto da non vedersi il fondo; giù, fiere fameliche, pronte a divorare e a far scempio dei corpicini martoriati.
     Era una calda estate, vigilia di plenilunio, il pallido astro si alzava lento all’orizzonte e illuminava le campagne e le strade. Dalla città un lungo corteo si snodava in direzione della rupe, preceduto dal rullo dei tamburi, da una doppia fila di fiaccole, da uno stuolo di sacerdoti stracarichi di paramenti, da due doppie file di soldati della guardia reale; poi un carro con sopra un cesto enorme colmo di corpicini ignudi, ignari della loro sorte, e dietro, il pianto sconsolato  e straziante delle madri con i ventri ancora doloranti, per aver dato loro la vita.
     Sull’orlo del baratro, ad aspettare l’evento, le bighe dei dignitari di corte facevano bella mostra assieme ai destrieri dai finimenti lustri e agli aurighi in gran tenuta. Sparta si liberava, come ogni sera che precedeva il plenilunio, dei rifiutati, facendone quasi un omaggio alle divinità ed alla società tutta, selezionando così una razza aitante e robusta che permetteva di non provare mai più vergogna per pochi figli meno fortunati.


     Qualcuno, però, era in grado di sfatare questo mito, un’intelligenza superiore, educato diversamente, con una morale ed un’etica che non prevedeva l’eliminazione dei deboli, l’abuso sui vinti, la schiavitù. Qualcuno capace di sottrarre alla morte i bambini malfermi, allevarli, curarli, educarli, coltivare le loro intelligenze, addottrinarli con sapienza e poi, già adulti, riconsegnarli alla società per potere addottrinare a loro volta gli altri col loro sapere.
     Era un vecchio saggio ateniese scampato ai rigori delle leggi spartane, conservatrici ed oligarchiche, ed era così poco claudicante da non farsene accorgere. Abitava da tanti anni una grotta inaccessibile vicina allo strapiombo della rupe, dove si accedeva per via segreta, nascosta tra sterpi e rovi, per impervi cammini che nessuno mai aveva voluto percorrere. E poi, tutta la zona attorno alla rupe era tabù. Correva voce tra gli abitanti di Sparta che gli spiriti dei bimbi uccisi, non potendo avere accesso nell’Ade, si trasformavano in enormi calabroni con pungiglioni appuntiti come pugnali, capaci di uccidere un uomo con un sol colpo. Nulla era più falso di ciò, ma il vecchio ateniese aveva fatto si che si diffondesse la stolta notizia, ottenendo il risultato che si aspettava, che la zona diventasse tabù.




     Le nubi quasi sempre avvolgevano la rupe e l’intero baratro; a metà quasi dello strapiombo si apriva un piccolo anfratto, buio nel primo tratto e invisibile dall’alto; l’imbocco era noto soltanto al vecchio saggio ateniese. Quando era vigilia di plenilunio, al primo rullo dei tamburi che annunciava il corteo di morte, il saggio faceva venir fuori dall’anfratto, sul costone a strapiombo della rupe, una robusta rete intrecciata con morbidi ma resistenti fili di seta, che aveva la forma delle bilance che comunemente usano i pescatori nei fiumi o nelle piccole rade pescose, e quando tutt’attorno il silenzio era squarciato dalle grida delle madri, spingeva in avanti la rete e raccoglieva, uno alla volta, i corpicini dei bimbi. Non tutti potevano essere salvati, molti non sopravvivevano allo stesso viaggio, ma molti altri si salvavano e per loro cominciava la vita con un percorso che, dall’anfratto all’interno della rupe tra i cunicoli, terminava in enormi grotte illuminate, alcune da piccole aperture nelle volte, altre da grandi lampade ad olio nero che fuoriusciva da una fenditura della roccia.
     Nei diversi ambienti, a volte su piani sfalsati, abitavano assieme al saggio ateniese parecchie persone di ambo i sessi e di ogni età. Alcune erano claudicanti, altre avevano sopperito alla mancanza di un arto con protesi in legno, altri ancora si muovevano su rudimentali sedie a rotelle, per altre il tempo era stato un ottimo guaritore, si erano rimessi a posto e provvedevano a recuperare quanti più bambini era possibile per sottrarli ad una morte ingiusta.
     Sparta a quel tempo aveva una popolazione attorno ai trentamila abitanti, mediamente si calcolava che nascessero tre bambini deformi tra un plenilunio e l’altro. Ad alcune mamme, in segreto, l’ateniese affidava il compito di allevare i piccoli sottratti alla morte, insegnando i giochi della prima infanzia, inducendoli a non turbarsi quando qualcuno tentava di schernirli e abituando le loro menti a pensare che non esistono due mondi, uno degli storpi ed uno dei sani, dove i primi sono considerati inferiori o diversi dai secondi.
     Quando i bambini raggiungevano l’età della ragione venivano divisi secondo le loro inclinazioni e destinati alle varie scuole, quella alchemica, quella filosofica, quella delle arti: pittura, scultura, architettura, poesia, musica, canto e danza, arte della lavorazione dei metalli, studio dei testi sacri, delle arti divinatorie, dell’arte del governare.
     Il vecchio ateniese coordinava la vita della piccola città sotterranea. Sia pure con sacrificio, vedeva crescere i piccoli rifiutati: gli orbi, gli storpi, i balbuzienti, i muti, e li vedeva man mano diventare esperti nelle varie arti, nel diritto e nell’architettura. Anche i loro difetti fisici, piano piano, diventavano trascurabili, in quanto la loro bellezza interiore annullava ogni scherzo della natura e li rendeva amabili, e per le loro arti e per la loro cultura, necessaria a quella stessa società che li aveva rifiutati, condannandoli senza pietà.
     Il saggio ateniese, man mano che i bambini raggiungevano l’età scolare, li affidava ai vari precettori che li istruivano.
     Una parte del denaro, occorrente al mantenimento del piccolo popolo della città sotterranea, proveniva dalla vendita dei manufatti che gli stessi ragazzi producevano, un’altra parte proveniva dalla vendita dell’olio nero per l’illuminazione che sgorgava dentro la grotta, ancora una parte il vecchio saggio la otteneva ad Atene, dove alcuni notabili sapevano della sua opera e la condividevano, aiutandola.
     Le grotte erano enormi palestre, sia per i corpi che per le menti, e una dopo l’altra si susseguivano, in un intreccio di cunicoli che le collegavano, come se Dedalo avesse guidato le forze della natura quando le montagne si solidificarono. Un cunicolo dopo l’altro, una grotta dopo l’altra, grandi, piccole, tortuose o spaziose, confluivano in un bosco nascosto tra gli alti canneti e i fitti papiri di uno stagno.
     Un po’ più avanti c’era la valle ubertosa di Messene, ricca di frutteti e di messi, era lì la strada che portava a Pilo e, quindi, la via del mare per Atene, in quell’Attica in cui ognuno agognava di vivere.
     Il saggio ateniese operava tanti atti d’amore, salvava le vite, allevava i corpi e gli intelletti, istruiva i geni nelle arti e nel sapere e ne riforniva la grande Atene, dando ad ogni storpio, ad ogni cieco, ad ogni sordo-muto una sua dignità, rendendogli un suo onore, regalandogli la libertà e spezzando le catene della schiavitù in una regione come l’Attica, in una metropoli dove tutto era arte, tutto era cultura, tutto era sapere, tutto era democrazia e civiltà.
     Nelle grotte della rupe spartana la vita procedeva come sempre; attorno, nella zona tabù, qualcuno si addentrò, smarrì la strada ed ebbe paura; era l’unico figlio del comandante della guardia reale di Sparta, nella sua corazza tirata a lucido, col suo elmo cimierato, si tirava dietro il suo cavallo zoppicante e teneva la mano sull’impugnatura della spada quasi a farsi coraggio.
     Il vecchio ateniese lo seguì per un po’, poi gli andò incontro e si fermò a debita distanza; portava a tracolla un piccolo otre pregno d’acqua e quando il giovine fece il gesto di tirare fuori dalla guaina la spada, il vecchio gli offrì l’otre e lo fece dissetare. Il giovane, rincuorato, si presentò e poi domandò al vecchio sconosciuto perché si trovasse nella zona tabù e se si fosse imbattuto nei terribili calabroni dal pungiglione lungo quanto uno stiletto.
    
 Il vecchio sorrise, nel cogliere il terrore negli occhi del ragazzo, tirò con disinvoltura fuori dalla tunica un saccoccio contenente una polvere bianca, che era soltanto sale ridotto in polvere finissima, inventandosi ancora una furbizia; ne prelevò un pizzico e spacciandolo per polvere magica disse: - Prode guerriero spartano, china il tuo capo, lo cospargerò con questa polvere donatami da Mercurio; pronunzierò solennemente una formula sacra e tu sarai preservato dall’attacco dei calabroni assassini.
     Il giovane guerriero chinò il capo e si lasciò cospargere, poi chiese la via per uscire da quel labirinto. Il vecchio, dopo avergli fatto lasciare il cavallo e posare la spada, lo guidò fino all’ingresso della grotta, e lo fece sedere, gli chiese di ascoltarlo e disse: - Nessuno di noi sa perché siamo venuti al mondo, mentre i gatti sono nati per ripulire gli ambienti dai topi, i lombrichi per penetrare il terreno e far si che nei cunicoli scavati passi l’aria, i castori per costruire ripari; il cuore è fatto per pompare il sangue e mandarlo al cervello, la mano per usare uno strumento di lavoro o per brandire una spada o per fare una carezza. C’è uno scopo preordinato per cui gli Dei ci hanno voluto su questo mondo… E c’è possibilità per tutti gli uomini e le donne, sani o storpi, di realizzarlo…
     Il giovane lo interruppe: - Ma gli storpi non hanno alcuna possibilità di realizzare alcunché, essi non esistono, mio padre gli da la caccia sin dalla nascita e così vengono eliminati; non può uno storpio servire la causa spartana, non può difendere la città, è solo un peso per la collettività.
     Il vecchio aspettò che finisse, poi ribadì: - La mano è fatta per brandire una spada o per fare una carezza, anche perché pure per questa funzione è stata creata. L’uomo non è un essere che si accontenta facilmente; per gli animali basta una cuccia, una tana, una mangiatoia, un prato o un bosco e sono appagati. Per l’uomo ci vogliono tante comodità, amori e amicizie, impressioni strane e piacevoli. Tra uomo e bestia la differenza non è la coda, l’uomo è nella condizione di intuire la perfezione assoluta e spasima per raggiungerla. Questo spasimare dell’uomo è la molla che fa funzionare il progresso e lo induce ad avanzare… L’uomo è misero quando non capisce lo scopo per cui è venuto al mondo.
     Il vecchio allora invitò il giovane a varcare la soglia della grotta.
     Dopo il primo segno di stupore, il giovane spartano chiese dove fossero diretti, e il vecchio rispose: - Nella valle di Messene, attraversando tutto un percorso di grotte e cunicoli, vedrai tante meraviglie e ti renderai conto che la mano che profonde carezze ottiene risultati più soddisfacenti di quella che brandisce una spada.
     Il giovane attraversò le grotte e vide tanta arte, tanta bellezza, notò tanta saggezza, ascoltò musica soave, sentì cantare e vide cantare, notò i fornelli alchemici ribollire e le fucine elaborare manufatti di tutte le fogge. Nelle grotte più interne decine di ragazzi scrivevano sulle tavolette d’argilla e le depositavano in immensi scaffali. Giunti che furono all’ultima grotta il vecchio si fermò con la scusa di riposarsi.
     Il giovane spartano allora gli chiese: - Non so dove mi trovo ma ho visto tante cose belle, tanta arte, tanta maestria, tanta cultura che fuori son difficili da trovare… Chi è questo popolo che vi abita?
     L’ateniese aspettò un poco, poi rispose: - Questa è la grotta dei rifiutati. Si, proprio così, quei rifiuti umani di cui Sparta ogni vigilia di plenilunio si libera, tutti quei bimbi che non possono essere destinati all’arte della guerra, senza tener conto delle loro capacità intellettive. Io li ho salvati in buona parte li ho fatti addottrinare, li ho fatti educare… Sono loro che hanno realizzato il bello che tu hai visto, e la bellezza che ha abbagliato i tuoi occhi non ti ha fatto notare che per artefici aveva degli storpi. Ora usciremo nella valle di Messene per un intricato percorso; lì troverai il tuo cavallo e legata alla sella ci sarà la tua spada. La strada da Messene a Sparta sarà breve e tu sarai solo, durante il percorso rifletterai su quanto hai visto e sentito, potrai tornare ad annientare gli storpi o per rendergli dignità in una società civile e ordinata, consentendo il fiorire della cultura e delle arti. Non c’è progresso senza cultura! Fà che la tua mano e la mano di Sparta possano contemporaneamente brandire la spada per legittimamente difendersi, ma anche regalare carezze!  Pose la mano sulla spalla del giovane e lo accompagnò dove c’era il suo cavallo. - Monta, gli disse, - la strada è fuori da questi canneti, segui il percorso inverso del sole.
     Il giovane salì in groppa al suo destriero, calzò l’elmo cimierato e disse al vecchio: - Cosa posso fare per te?
     - Nulla e tutto, rispose il vecchio, e continuò: - Vivi la vita, perché la vita è meravigliosa!


Se questo racconto vi è piaciuto, lasciate un commento. qualora non vi sia piaciuto, lasciate egualmente un commento. grazie!!!