lunedì 28 maggio 2012

QUANDO INVERTI LA ROTTA... LUNEDI'... POESIA!!!






     Ci sono momenti nella vita che la mente ti guida attraverso i tuoi ricordi. E' come se qualcuno avesse invertito la rotta, allora, ci si tuffa nel passato, antico e recente e riaffiora un mondo, che pur se vissuto, è ancora tutto da scoprire. Un bel paradosso! La mente scava i meandri più profondi, e scopri di avere un passato carico di emozioni, di grandi insegnamenti, la tua storia! Si, la tua storia, stracarica di fatti, di momenti, di emozioni che avevi dimenticato, attimi che vorresti rivivere intensamente e il tuo immaginario dà sfogo alla tua voglia.







TORNAR BAMBINO

Un nembo corvino attraversa il mio cielo,
un turbinio di parole mi sommerge
come acqua spumeggiante di fiume in piena,
ed io indifeso, travolto dall'onda che m'avvince.
Due mani diafane si muovono aggraziate
e sfiorano appena il mio volto;
soave dea, sento la musica che ti circonda,
il profumo della tua pelle m'attraversa,
bagliore immenso il tuo sguardo di fanciulla
come taumaturgo mi guarisce...
come sto bene con te anima grande!
Novella creatrice che ridoni la luce
fa che ti rimembri fata buona,
capace di riempire la vita.
Il tempo tiranno, parametro vuoto
strapparmi vorrebbe dalle tue braccia,
mi basta guardarti negli occhi,
alitare il tuo respiro,
sentirsi inebriati dal tuo profumo di donna,
... e tornar bambino...
perdere le parole e soffrire,
avere voglia di trovarsi vicini.
Ricominciare...
Con le mani sfiorare la chioma corvina,
con le labbra toccare la tua pelle di luna
e guardarti, odorarti, e sentire la schiena
vibrar come corda di viola tzigana...
... e tornare bambino...




 


IL MIO CARILLON

Per tanto tempo l'ho desiderata
una piccola cassetta sonora
un minuscolo pagliaccio che ballava
in groppa a un cavalluccio di lamiera.
Là, nella vetrina illuminata
passavo intere ore a rimirarla
e lì lasciavo, sul lucido cristallo,
le impronte delle mani e del mio naso.
Non ebbi mai il coraggio con mio padre
di chiedergli un trastullo cosiffatto,
mi bastava che non fosse mai rimosso
e poterlo con gli occhi accarezzare.
Fui angosciato quando una mattina
le mani del padrone del negozio
l'avvolsero in una carta da regalo
e lo posero sulle braccia a una bambina.
Passarono anni e lustri, chissà quanti,
ma il desiderio non fu mai tradito
rividi il mio pagliaccio ballerino
in un negozio e ne venni attratto.
Poggiai sulla vetrina luccicante
le mani mie stanche ed aggrinzite
e ripetei i gesti di fanciullo,
lasciando assai marcata l'impronta del mio naso.










IL GRILLO PARLANTE

Fu una giornata variegata,
fatta di meraviglia ed emozioni,
suonata la campana della scuola
rimasi fuor dall'uscio e non entrai
e coi libri sottobraccio, a passo lesto, 
andai in giro per tutta la città.
Mi affascinarono le luci ed i negozi,
le bancarelle piene di torroni,
i venditori d'acqua e i cantastorie,
i grandi transatlantici ancorati
e il via vai di gente alla stazione.
Stanco, a mezzogiorno e più minuti
feci ritorno a casa puntuale,
vidi mia madre là sul davanzale
ed ebbi il primo vero tuffo al cuore.
Se dovesse chiedermi il motivo
del perchè la scuola ho marinato,
una bugia?... dove sono stato?
Avevo appena quasi tredici anni
e mi imbattei nel mio grillo parlante
che lesto e schietto mi apostrofò.
Fu pesante l'impatto, molto duro,
non gli tirai un martello, l'ascoltai,
ed alla fine ne uscii angosciato,
pagai il primo conto con la mia coscienza!







BOLLI DI SAPUNI

Ciusciasti[1] cu tuttu lu ciatu[2]
‘nta nna cannuzza di frasca[3],
vinni fora un palluncinu
c’avia li culura di la paci.
Nna bolla, nna bolla di sapuni
Ca s’alluntanau, vulau, scuppiau…
E poi, unu appressu all’avutru[4]
Centu, milli, dumila palloncini
Tutti culurati, tutti tunni[5]
Comu l’ucchiuzzi tò,
e tu cu li masciddi[6] unci[7]
a ciusciari, a ciusciari
finu c’arristasti senza ciatu…[8]
Sai… su tant’anni
ca eu nun ciusciu cchiù,
mi l’avia quasi scurdatu…
Ora, ‘nta ssi bolli
Viu li jorna mei chi su vulati,
scuppiati, unu doppu all’avutru,
purtati via di lu ventu…


[1] Ciusciasti – Hai soffiato.
[2] Ciatu – Fiato.
[3] Cannuzza di frasca – Cannula di stoppia.
[4] Unu appressu all’avutru – Uno di seguito all’altro.
[5] Tutti tunni – Tutti rotondi – Tutti circolari – Tutti sferici.
[6] Masciddi – Guance.
[7] Unci – Gonfie.
[8]Senza ciatu – Senza fiato – Stanco. 



     Il passato non deve dar tristezza, esso è svanito. Persiste ancora nel ricordo e tu non potrai mai tornare indietro.




Se quanto vi ho raccontato con dei versi vi ha lasciato emozioni, allora lasciate un vostro commento, se volete. 
                                        Grazie per la vostra attenzione.





























lunedì 21 maggio 2012

IL TEATRINO DI DON BARTOLO... IX FAVOLA...


Mario Scamardo
 I Racconti del Borgo
 Il Teatrino di don Bartolo 
 ( I X  Favola )


I marciapiedi di una stradina scoscesa si riempivano di ragazzi, di solito accompagnati dai genitori e dai nonni, ma anche di tante altre persone d’ogni età. Era da una buon’ora suonato il vespero quando si apriva un’anta di un  portone in faggio che mostrava i segni del tempo trascorso, le sue toppe di lamiera chiodata e parecchi buchi, dove i ragni albergavano indisturbati e che, permetteva l’accesso ad un grande magazzino che era servito ad ospitare, nel tempo, un antico frantoio. Accanto, attaccato alla parete, un grande telone a scacchi[1], sei riquadri pitturati ad olio, riportavano scene dell’opera in programmazione. Il telone era di per se un’opera d’arte, le stesse scene venivano riprodotte dall’artista, a richiesta,  anche sui masciddara, le sponde dei carretti siciliani, che erano sormontate, ciascuna, da tre piccole teste in legno scolpite, realizzate spesso dai pupari o da ebanisti intagliatori. Un omone, don Bartolo, panciuto come un’orcio, in pantaloni di velluto a coste, tenuti su dalle bretelle di colore amaranto e con addosso una gabbanella azzurra, si affacciava, dava una sbirciata agli astanti, cacciava dalla tasca un blocchetto di biglietti e faceva cenno di entrare. Man mano, intascava le trenta lire del biglietto e, quando l’ultimo spettatore si era accomodato, richiudeva il mezzo portone e si poneva davanti al palco, mani ai fianchi,  esponendo, quasi minaccioso, il suo pancione.
Don Bartolo era un puparo, figlio d’arte, e quel magazzino era il suo teatro, il teatrino dell’opera dei pupi.
Gli spettatori erano ogni sera gli stessi, per tutto il periodo invernale, seguivano il suo rappresentare che raccontava, in circa sei mesi, la storia dei Paladini di Francia. Essi occupavano gli stessi posti sulle stesse panche; se qualcuno mancava, l’attempato puparo se ne accorgeva e chiedeva della sua assenza, del suo stato di salute o quant’altro e si rammaricava in quanto l’assente perdeva il filo della storia. Prima della rappresentazione, il silenzio non regnava incontrastato, anzi, erano d’uopo i commenti, l’esternazione delle proprie emozioni, i giudizi sui comportamenti dei personaggi rappresentati la serata precedente che, talvolta, trascendevano in quasi risse tra gli spettatori. Don Bartolo, che conosceva bene il suo mondo, allargava la sua gabbanella, infilava i pollici sotto le bretelle e ammoniva tutti, poi, poneva una seggiola alta accanto al suo organetto di Barberia[2], un pianino a cilindro della migliore fattura e, sollevandola da terra, vi accomodava la sua bambina più piccola, a cui lo stesso, non avendo avuto figli maschi, aveva imposto il nome di Rinalda, in onore del coraggioso paladino, ma tutti la chiamavano Aldina. La bambina dava il via al pianino da dove sortivano fantastiche melodie, prima che iniziasse lo spettacolo ed ogni qualvolta che, nei tempi morti, occorresse cambiare le scene. Spenta l’unica lampada della sala, il puparo apriva il siparietto, taceva allora il pianino e si ammutoliva la sala, ed egli dava voce e movimento ai suoi pupi che entravano in scena dalle piccole quinte. Non era solo don Bartolo, sul palco con lui c’erano tre aiutanti che facevano i manovratori, due ragazze, le sue figlie Armida e Angelica di quattordici e sedici anni e un giovane ventenne Lorenzo, che per la sua statura, quasi due metri, e la sua corpulenza, tutti chiamavano affettuosamente Mambrino, come il gigante saraceno. Rimasto orfano sin da piccolo, il puparo lo aveva preso con se, crescendolo come un figlio ed al quale insegnava la sua Arte in tutte le sue sfaccettature. Come un grande imitatore, dava voce a tutti i personaggi, maschi e femmine, grandi e piccini, agli angeli ed ai demoni e agli animali mitologici, sembrava che tra le quinte vi fossero tante persone quanti erano i personaggi. Era bravo don Bartolo ed affascinava grandi e piccini, ed erano belli i suoi pupi, più di centotrenta, tutti realizzati a mano, con le armature in rame lavorate a balzo, quasi tutti cimierati e vestiti a tinte forti con abitini ricamati in oro e argento. La moglie, passava il suo tempo libero a realizzare gli abitini dei pupi, a ricamarli, a rammendarli, ed il puparo, trascorreva le mattinate a rimettere a posto le armature, a riparare quanto sfasciato nelle cruente battaglie della sera prima, a lucidare scudi e corazze, ad intagliare e pitturare le teste delle sue marionette.
Quelli di don Bartolo erano pupi della “Scuola Palermitana”, non rigidi come quelli della Scuola Catanese, ma capaci di piegarsi sulle ginocchia, di usare indipendentemente scudo e spada, capaci di avere imposta l’andatura, capaci di ruotare il capo.
Se sortiva una mattina senza pioggia, il puparo tirava fuori dal vecchio portone un piccolo banco di lavoro e lo sistemava sul marciapiedi, conficcava in un buco a terra un’asta in metallo sormontata da una minuscola incudine, tagliava con le cesoie una lamina di rame e con un piccolo martello cominciava a cesellare uno scudo, una corazza, un elmo, una visiera o una coppia di schinieri. A due, a tre, a quattro i bambini del quartiere si fermavano davanti all’artista e, zitti zitti, con gli occhioni sbarrati, seguivano il foggiare di don Bartolo, fino a quando, vincendo la timidezza, uno di loro non chiedeva qualcosa. Il puparo rideva sotto i baffi e rispondeva alle curiosità dei bambini, spesso si lasciava prendere la mano e, sapendo quanto i fanciulli amavano i personaggi del comico popolare, recitava una farsa, improvvisandola e dando voce a Nofriu e a Virticchiu[3].
Al rintocco di mezzodì, le due sorelle grandi di Aldina rientravano per il pranzo dal loro lavoro di apprendista sarta,  mezzora dopo, ritornava da scuola la piccina che frequentava la seconda elementare, imbacuccata in un mantello di panno col cappuccio di colore azzurro. Erano già due anni che Aldina, tutte le sere, seduta sul grande seggiolone, dava anima al pianino, girando lentamente la manovella, ed aveva seguito per due inverni tutto quanto era avvenuto dentro il vecchio magazzino, sia sul palco che in sala. Aveva una grande voglia di manovrare i pupi, di dargli voce, ma era troppo piccola e non avrebbe avuto la forza per reggere ad una intera serata. A scuola, i suoi compagni le chiedevano qualcosa sui pupi e lei, con la pazienza e la bravura del padre, narrava, puntata dopo puntata, quelle vicende che si svolgevano sul palco. Ogni tanto, parlando dei paladini, diceva che erano i suoi amici più cari, ed uno in particolare, quello che suo padre realizzò per lei alla sua nascita, Rinaldo, era suo fratello. Ciò faceva sorridere gli altri bambini, li meravigliava e li incuriosiva, e lei, raccontava dei suoi dialoghi con le marionette, trasportando tutti in un mondo fantastico.
Una sera, a fine spettacolo, come era solito fare, don Bartolo, tramite una piccola buffa marionetta, che il pubblico chiamava affettuosamente Perdomanisera, annunciò per il giorno successivo la sfida tra Orlando e Rinaldo che si contendevano l’amore della bella Angelica, principessa del Catai che per effetto dell’acqua della Fonte dell’Amore si era invaghita di Rinaldo, ma questi per effetto dell’acqua della Fonte dell’Odio era sfuggito alle di lei brame. Orlando era il primo paladino alla corte di Carlo Magno, figlio della sorella dell’imperatore Berta e di Milone D’Anglante. Cimierato di verde, portava con orgoglio le insegne dell’aquila; valoroso, baldanzoso e battagliero, sempre leale e la sua spada incantata, la Durlindana, non perdonava. Rinaldo di Montalbano era anch’egli paladino alla corte di Carlo Magno, cimierato di rosso scarlatto, portava le insegne del leone. La sua spada, la Fulsberta non era toccata da sortilegio ma era di eccezionale fattura.
Finito lo spettacolo, Aldina, quatta quatta, indossò il suo pigiama, si inginocchiò come ogni sera ai piedi del suo lettino, alzò gli occhi verso una immagine della Madonna posta al suo capezzale, recitò le sue preghiere e si mise a letto. Il sonno non la colse, la sfida annunciata non la fece dormire, temette per il suo Rinaldo e, quando tutti i componenti della sua famiglia furono a letto, si alzò e si recò nella sala, accese le luci sul palco e andò tra le quinte. Rinaldo ed Orlando erano appesi alla stessa rastrelliera, alzò le due visiere e li baciò tutti e due, poi, sedette su una panchetta di fronte ad Orlando e gli disse sottovoce: - Ti prego, Rinaldo è mio fratello, io sono cresciuta con lui, tu sei il paladino più valoroso e possiedi la Durlindana, io ti ammiro e ti voglio bene, non fargli del male. Domani sera, appena finito lo spettacolo verrò a trovarti, ti porterò l’unica cosa che possiedo, la mia scatola di matite colorate. -  Una lacrima le solcò il viso e poggiò il mento tra le mani, quasi attendesse la risposta. La risposta arrivò di li a poco. Don Bartolo, che aveva intravisto le luci accese sul palco, in punta di piedi si avvicinò ed assistette commosso al dialogo tra la bambina ed il pupo, diede voce ad Orlando e rispose: - Mia cara Aldina, lo so che Rinaldo è tuo fratello, ma è anche mio cugino ed io gli voglio bene quanto te. Su, non piangere, la storia vuole che questa sfida abbia luogo, noi lo facciamo per allietare gli spettatori. Ti prometto che non farò alcun male a Rinaldo, così come son sicuro che egli non ne farà a me. Domani sera torna a dar vita al pianino, prima che inizi la sfida alzerò la mia visiera, guarderò dalla tua parte e ti farò un sorriso, quella sarà la nostra intesa. – Aldina si alzò, lo baciò e disse: - Conosco la tua lealtà, grazie per la tua promessa, so che la manterrai, ora scusami, vado a letto, domani devo andare a scuola, buona notte. – Buona notte piccina, dormi il tuo sonno sereno. – La bimba scese dal palco, spense le luci e tornò al suo lettino.
La sera seguente, dopo che la sala si riempì di spettatori, don Bartolo tirò su, sul seggiolone, Aldina e spense le luci in sala. Si aprì il sipario e pochi minuti dopo vennero fuori baldanzosi i due paladini. Don Bartolo tirò su la visiera di Orlando, gli fece ruotare il capo verso la bambina e gli fece scuotere pian pianino la testa, Aldina capì e sorrise a sua volta. Fu una sfida senza fine. Gli scudi squassarono, le spade caddero pesantemente sugli elmi e i due paladini gemettero di volta in volta e poi rotearono fendendo l’aria. Stanchi i due eroi sedettero più volte a riprender fiato e quando furono spossati, misero fine al duello. Orlando alzò di nuovo la visiera e guardò in direzione di Aldina che capì quanto le volesse dire il paladino. Finito lo spettacolo tutti andarono a cena. Prima di andare a letto la bimba prelevò dalla sua cartella la scatola delle matite colorate e le nascose sotto il cuscino. Aspettò che tutti si fossero coricati, si alzò e si recò tra le quinte e, accese le luci, andò dritta alla rastrelliera dove c’era Orlando. Don Bartolo che conosceva bene sua figlia, l’aveva preceduta, nascondendosi dietro la rastrelliera e la bimba, rivolgendosi al paladino disse: - se tu sei cugino del mio Rinaldo, anch’io sono tua cugina, e siccome lui è anche mio fratello, anche tu lo sei, così ho due fratelli. Grazie per essere stato buono e per avere mantenuto la promessa, anch’io l’ho mantenuta, ti ho portato in regalo le mie matite colorate, inventerò una bugia alla mia maestra, le dirò che le ho perdute. – Il vecchio puparo commosso, diede voce ad Orlando: - grazie Aldina, tutti i pupi che stanno attaccati a queste rastrelliere, siano essi paladini o guerrieri saraceni, sono tutti fratelli miei, di Rinaldo, di Bradamante, di Marfisia, di Agolaccio, di Saliatello, di Ruggiero, fratelli e sorelle tue, viviamo nella stessa casa e tutte le sere recitiamo ognuno la nostra parte. Anche tu reciti la tua, dai anima al pianino e allieti tutti. – Mentre la bambina alza le mani per porgere la scatola al paladino, questi le dice: -  Grazie, non devi regalarmi le tue matite, quelle ai pupi non servono, servono ai bambini perché imparino a disegnare e,  non è giusto che tu dica una bugia alla tua maestra, le menzogne non vanno mai dette. Su questo palco, ogni sera si rappresenta la vittoria del bene sul male, si sconfiggono le ingiustizie, vince sempre il coraggio e vengono sconfitte la menzogna e la paura. Se in avvenire vorrai continuare a dar anima a noi pupi, dovrai essere sempre leale, coraggiosa, buona, ma devi saper lottare, anche al di fuori di questo palco, affinché si affermino la tolleranza, l’amore, la fratellanza, la giustizia, l’umiltà, l’uguaglianza. Ora ti prego, ripiglia le tue matite, riponile nella tua cartella e cancella dalla tua mente l’idea della bugia. – Aldina comprese il valore di quelle parole e chinò il capo, stava per parlare ma Orlando l’anticipò: - Sorellina mia, non hai niente di cui pentirti, la tua generosità sortisce dal tuo cuore, che la menzogna non sfiori mai le tue labbra. Ora torna a dormire, il tuo sonno sarà vegliato da tutti noi. – La bimba sorrise, baciò sul viso il paladino e, spegnendo le luci, ritornò nel suo letto. Don Bartolo commosso la seguì, ringraziò Iddio per le parole che aveva detto alla figlia tramite il paladino Orlando, si segnò e si addormentò profondamente.


[1]  Eccezionalmente bravi furono i pittori dei teloni a scacchi: Niccolò Rinaldi Faraone, Nunzio Coppolone, Giovanni Di Cristina. Sulle fonti iconografiche è dubbia l’individuazione. Molti sono esempi offerti da una produzione vastissima di stampo e immagini popolaresche, con la pubblicazione a partire dal 1868 della storia dei Paladini di Francia di Giusto Lo Dico, corredata dai disegni del Mattaliano che si rifacevano alle xilografie del 1500 e del 1600. Molti studiosi dell’”Opra” ritengono che lo stile dei teloni a scacchi, si può far risalire ad elementi arabi, bizantini, francesi e spagnoli.

[2]  Col termine “organetto” si designa il piccolo organo meccanico, noto come “organo di Barberia” (dal nome del suo inventore Giovanni Barberi di Modena intorno al 1700), azionato tramite una manovella che fa ruotare un cilindro collegato a un mantice, mediante il quale l’aria viene spinta in canne con intonazioni diverse producendo così il suono.

[3] Maschere palermitane.


                                                      BRADAMANTE




                                                       ORLANDO
                                                     




                                              IL CASTELLO DI MONTALBANO di Rinaldo





                                               DISFIDA TRA ORLANDO E RINALDO




         (I tre fratelli spagnoli) MARSILIO - BULOGANTE - FALSERONE
                                                          





                        (Quadro di un telone a sei scacchi) MORTE DI OLIVIERO




RINALDO





I PUPI RAFFIGURATI SONO DELLA COLLEZIONE DI PROPRIETA' DEL CAV. NINO CANINO, ULTIMO VERO OPRANTE E PUPARO - I suoi  pupi, tutti realizzati a mano, sono i più belli in assoluto di tutte le collezioni che esistono in Sicilia. Questo grande artista, vivente, continua a realizzare con la volontà e con la maestria di sempre i suoi capolavori in Partinico.



Spero di avervi dato uno spaccato, attraverso la favola, di quello che era un Teatrino dell'Opera dei pupi, e dell'amore, se pur talvolta negli stenti, dei pupari e degli opranti che rappresentavagno ogni sera il trionfo del bene sul male. 


Grazie per la vostra attenzione.