domenica 25 novembre 2012

L ' A D D I M U R U












L'innocenza ? .... perchè disquisire, nei bambini fa credere a Babbo Natale, alla Befana, alle fate, agli orchi, a tutti i personaggi delle fiabe, alla cicogna che porta un bimbo o al cavolo sotto cui nasce. Mezzo secolo fa, i bambini non erano diversi da ora, alcune forme di pudore costringevano i genitori a quasi burlarsi dei bambini, certamente senza cattiveria. Provo a raccontarvi un aneddoto che fa perno sull'innocenza dei bimbi del tempo. L'avevo scritto in dialetto, l'ho adattato in lingua italiana, credo non abbia perso nulla del suo significato. Buona lettura.



L’addimuru*


(* Addimuru = l'attesa e il ritardo concordati. Quando bisognava tenere i bambini lontani da casa, si mandavano dai nonni, dagli amici, dai vicini di casa, avendo cura di avvertire l’ospitante di dare al bambino un poco di “addimuru”. Quando il bambino manifestava la voglia di ritornare a casa sua, tutti si prodigavano a trattenerlo promettendogli l’”addimuru” che non arrivava mai.)


            Avevo da poco compiuto cinque anni e da cinque o sei giorni donna Nunzia, mattina e sera, veniva a casa mia portandosi dietro un grosso borsone in cuoio marrone che aveva tra un manico e l’altro due lunghe cerniere e una piccola stava su un lato del borsone, quasi a guardia di una piccola tasca.
            Donna Nunzia era una donna corpulenta, altissima, dalle mani immense; non era né bella né brutta, ma tutti la salutavano con rispetto, tutti si inchinavano e lei accennava ad un sorriso che era più una smorfia. Io non capii mai il significato del termine, ma tutti dicevano che fosse una mammana, e questa parola mi fece impressione. Credevo che donna Nunzia, chiamata dalle persone alla bisogna, castigasse i bambini più discoli, e lei non faceva nulla per non farmelo pensare. Mai una carezza ad un bambino, mai un sorriso, solo due occhi grandi sempre sbarrati che sembravano puntare come due cani levrieri, e sotto il naso, due peli neri e lunghi che spuntavano come due sarmenti da un neo grosso e tondeggiante come un cece. Quando lei entrava a casa mia, riparavo di corsa in un angolo e stringevo i pugni per timore che potesse dirmi qualcosa.
            Una mattina a casa mia ci fu una gran confusione, le zie che entravano ed uscivano, mia nonna presa da un gran da fare con Donna Nunzia e mia madre a letto. In punta di piedi mi avvicinai guardingo alla camera da letto, mia madre non si accorse neppure che c’ero, affacciato appena alla porta, forse stava male, era tanto pallida, poi diventava paonazza, e il borsone della mammana era aperto sopra una sedia.  Non sapevo se entrare e correre da mia madre o rimanere a soffrire sullo stipite. Donna Nunzia con gli occhi spalancati si accostò a me, io indietreggiai con le spalle al muro e gli occhi gonfi di pianto, pensando che pur non avendo fatto alcuna monelleria fosse arrivato il momento di essere castigato; col vocione, simile al suono di una tuba, disse a mia nonna: - Ci siamo! Mandate questo bambino a prendere un poco di addimuru! Cercai di capire cosa fosse l’addimuru e, pensando che potesse essere una medicina o un qualunque rimedio per mia madre, mi sentii carico di responsabilità e, presa coscienza che avevo contezza solo della strada che conduceva all’asilo, cercai con gli occhi chi mi potesse accompagnare. Da giorni mia madre non mi metteva in braccio, e pur di riguadagnarmi quella possibilità con la sua guarigione, ero pronto ad affrontare anche l’ignoto. Mentre pensavo al mio atto eroico da compiere, mia nonna mi fece indossare un giubetto di lana, mi accompagnò all’uscio, mi baciò ripetutamente  e mi consegnò a mio padre che stava rientrando con un pacchetto in mano, festante gridai: - Papà, l’hai portato tu l’addimuru per la mamma? Mio padre sorrise per la mia innocenza, mi sollevò sulle sue braccia e, come era solito fare, strofinò i suoi baffi sul mio naso, poi mi rimise a terra e mi disse: - Nel pacchetto non c’è addimuru, ci sono solo medicine per la tua mamma, ora ti ci porto io a prenderlo, mi fece sedere sui gradini dell’ingresso ed entrò in casa dicendomi: - Faccio subito, tu non muoverti.  Pensai che l’addimuru non fosse una medicina, ma se aveva una funzione così importante, cosa poteva essere, se serviva proprio in quel momento di confusione? Mio padre uscì, mi prese per mano e mi portò due strade sotto l’asilo che frequentavo, da una sua vecchia zia che tutti chiamavamo zia Maria. La porta, composta da due grandi ante, era dotata di uno sportello aggiunto su una delle ante ed era accostata e dal camino usciva copioso il fumo, entrammo e mio padre disse all’anziana zia: - Zia Maria, appena lo ha pronto, dia al bambino un poco di addimuru.  Baciò la zia e si fermò sull’uscio. La zia Maria stava mandando avanti il forno, aveva finito di imboccarlo con dei sarmenti, si pulì le mani col suo grembiule, prese una sedia e mi fece sedere a distanza, in modo che potessi vedere la legna che bruciava dentro, si avvicinò a mio padre e si dissero qualcosa che non capii. Andato via mio padre, lei ritornò a rompere sarmenti e ad infilarli nel forno. Lo spettacolo fu molto bello, le fiamme sembravano tante braccia che salivano fino a raggiungere la cupola e parevano accarezzarla e lo scoppiettio costante si trasformava in una musica. Per un po’ dimenticai perché mi trovassi in quella casa, in compagnia della vecchia zia che alimentava un fuoco con costanza ed ogni tanto alzava una coperta distesa su un tavolo e bussava nelle forme di pane pronte per essere infornate, ne ascoltava il suono e continuava a spezzare sarmenti. Preso un coltello, tagliò un pezzetto di una forma, lo pose in un angolo del tavolo, lo schiacciò e mi disse: - Ti preparo una focaccia, poi la mangi appena è cotta. Con una pala di legno spostò un po’ di brace nel forno e vi collocò quell’impasto schiacciato, attese un pochino, la girò con l’aiuto della pala e con la stessa la tirò fuori dicendomi: - Appena si raffredda un po’ la puoi pigliare. Mi convinsi che quel pezzo di pasta infornata fosse l’addimuru e, per la fretta di portarla a mia madre, avvicinai timidamente un dito ed ebbi la sensazione che non si raffreddava mai. L’anziana zia cominciò a tirare la brace dal forno, poi scopò la base con una vecchia ramazza di saggina infilata in un manico di canna e corse a scoprire le forme di pane sul tavolo, le sistemò una alla volta sulla pala e le depose in forno. L’operazione mi incuriosì fino a veder chiudere il forno, poi cominciai a chiedermi perché mio padre non tornasse a riprendermi, allungai la mano sulla focaccia che credevo fosse l’addimuru, la presi e mi approcciai alla porta. La zia Maria mi fermò, mi prese per mano e mi riaccompagnò alla sedia: - Siedi, ora che ho finito di infornare il pane ti cerco l’addimuru. Avevo sbagliato tutto! Quella focaccia era cosa ben diversa, e la zia pigliandomela dalle mani mi disse: - Ora te la condisco questa focaccia, siedi così nel mentre ci metto l’olio e un pizzico di sale, poi la mangi e quando finisci cerchiamo assieme l’addimuru. Ho avuto un nodo alla gola e mi è venuta voglia della mia mamma, singhiozzando le dissi: - Non la voglio la focaccia, voglio la cosa che deve darmi perché mia madre sta male, voglio l’addimuru! Zia Maria s’è messa a ridere e, convincendomi a risedermi ripeteva: - Ci vuole pazienza, mangia la focaccia che fra poco viene lo Zio Nino, mio marito e ti porta l’addimuru. Lo zio Nino era un vecchietto buono che passava tutti i giorni da casa mia, si fermava un po’, tirava dalla tasca sempre una caramella carruba e me la dava bella e senza carta, poi salutava ed andava a casa sua, sedeva sull’uscio ed intrecciava i vimini per fare i panieri. Giorni prima lo zio Nino mi aveva regalato un panierino colmo di fichi secchi, castagne e noci ed un altro vuoto dicendomi: -Tieni, quello pieno è per te, quello vuoto poi, se ti nasce una sorellina o un fratellino glielo regali. Tutti mi avevano detto che doveva nascere un fratellino o una sorellina, da così troppo tempo che mi ero stancato di guardare il cielo aspettando che una cicogna si posasse sul terrazzo con un bimbo trattenuto dal suo lungo becco. La zia Maria cominciò a sfornare il pane, erano tanti pani rotondi da riempire un grande cesto, l’ultimo più piccolo non era rotondo ma aveva la forma di un pupazzetto con testa, braccia e gambe. La zia lo strusciò con una salvietta per togliere qualche residuo di cenere e me lo porse: - Questo è tuo, tieni, quando te ne andrai lo porterai al fratellino o alla sorellina. Io non avevo né l’uno né l’altra e decisi di portarlo alla mia mamma, si, però, l’addimuru? Entrò lo zio Nino, si avvicinò alla moglie e con gli occhi pieni di gioia le disse: Marì, Santina ha partorito una femminuccia. Sua moglie prese un tovagliolo, avvolse il pupazzetto di pane, me lo diede: - Ora con lo zio ti riportiamo dalla mamma, passando ha lasciato l’addimuru a casa tua. Mi sentii sollevato, provai una gioia immensa, corsi dallo zio e abbracciai le sue ginocchia. Sua moglie si tolse il grembiule, ricoperse il cesto del pane appena sfornato con una coperta di lana, mi prese per mano assieme al marito e mi ricondusse a casa mia. Quanto tempo era passato? Era già buio e da un bel po’. A casa tutte le lampade erano accese, donna Nunzia non c’èra più e nemmeno il suo borsone di cuoio con tre cerniere. Sia nonna che mio padre mi misero in braccio e mi accompagnarono accanto al letto di mia madre che non era più pallida, era guarita, ed ho visto mia sorella piccolissima che dormiva accanto a mia madre, nello stesso posto dove piccolino avevo dormito anch’io. Peccato, pensai, mi sono distratto solo il tempo che sono stato dalla zia Maria ed ho perso di vedere posare sul terrazzo di casa la cicogna con la sorellina. Io avevo un altro compito, più importante, ero andato a cercare l’addimuru!


Spero di essere riuscito nell'intento. Grazie.

giovedì 15 novembre 2012

CROLLO DELL'ARCHITETTURA DI UN SOGNO













     "Crollo dell’architettura di un sogno". Questa frase, potrebbe ben essere il titolo di un ottimo romanzo di appendice, ma mi porta lontano nel tempo, quando qualche lustro fa, ero più bravo ad edificare dei templi bellissimi all’amore. Scorcio di un passato non tanto lontano, che spesso mi torna alla mente, ormai incapace di darmi sofferenza. Ricordo quando, più vicino nel tempo, mi rubava il sonno e la ragione e mi riempiva di pena. L’uomo è, probabilmente, l’unico essere pensante ad avere piena coscienza di se, ed in ragione dell’età affronta la vita impegnando l’impeto nella giovinezza ed un pizzico di ragione in più man mano che cresce, per cui, quasi alla fine del suo percorso, arriva schermato, ed anche i sentimenti più belli, li affronta mettendo anzitempo nel conto eventuali delusioni o insuccessi. L’uomo impara a svincolarsi dagli obblighi che natura gli impone, comincia a guardare sé ed il mondo che lo circonda, crea il bene ed il male, supera le necessità ed inventa l’architettura dei propri sogni. L’amore sfugge al suo controllo? Spesso si, ma se sfugge, le esperienze maturate dall’uomo si centuplicano ed in una sola volta si corazza non lasciando scoperto nulla, perché il dolore, immenso, profondo, diventa la leva della sua fortificazione e della sua crescita. Amore ragionato? No! Sarebbe una contraddizione in termini. Conduzione ragionata del rapporto, quello si, entrare in punta di piedi nella vita dell’altro/a e uscirne, se occorre, in punta di piedi! 

Riuscirò con dei versi a riempire di contenuto quanto testè detto? Ci provo, nella speranza di non deludervi.






FINIRA’ L’ECLISSE ?

In cima a una piccola erta,
lastricata di pietre bianche,
un vecchio portone in lamiera.
L’ho percorsa mille volte
quella piccola salita e,
varcato l’uscio ho visto il sole.
Abbandonato ai sogni
ho vissuto la favola più bella
fino a quando un mattino,
ripigliando il senno
m’accorsi che ero un trastullo
tra le mani cruenti
di una perfidia dea.
Ogni tanto, passando
alzo mestamente lo sguardo
e rivedo quell’erta,
il vecchio portone ,
e penso a quel sole
che non ho più rivisto.
Il tempo si è fermato,
l’eclisse persiste da tanto,
son io, testardo, spero
in un novello bagliore.


INGANNO

Nasconderti dietro una bugia,
la soluzione di tutti i tuoi problemi.
Veder passare il tempo ed angosciare
reprimere il più forte sentimento
e non accorgerti avvedutamente
che qualcuno sta morendo dentro.
Che l’oblio colpisca la tua mente
e nel tempo non ti gravi del rimorso.
Pur se ferito a morte, agonizzante,
quel che rimane della vita è tuo,
e tu lo sai, ma fai finta di niente.
I miei occhi, quasi del tutto spenti
son fissi sulla tua fotografia,
è tutto quello che mi è rimasto,
l’ultimo grande ricordo, un feticcio,
i tuoi capelli al vento!
Sulle mie retine è fisso il sorriso,
l’accecante luce dei tuoi occhi,
e tanto mi fa ancora sospirare.
Le ultime bugie, gli ultimi inganni,
raccapriccianti scuse banali,
in maniera avveduta,
le avevo messe nel conto!
Se le menzogne fanno la tua felicità,
devo accettarle ancora?



NON SONO L’ULTIMO!

Ci vuole un’ottima vista
per accorgersi del sole,
nubi nerastre coprono il cielo
e fitta pioggia vien giù costante
mentre la nebbia lenta sale
e oscura piano piano l’anima.
Da tempo ti vedo di rado
e devo affacciarmi di corsa,
un attimo soltanto, mentre
scompari tra mille persone.
Ogni giorno più tetro, il cielo
si copre di nuvoloni
ed io mi consegno al pianto
perché il mio sole è sparito,
è al di la della nebbia
a scaldare altri cuori,
ad illuminare altri sorrisi.
E’ buio, sempre buio,
attorno, nessuna fiammella,
un bosco incantato,
solo sterili tronchi senza vita,
ed io non mi compiango,
sono uno della lunga lista,
uno dei tanti cadaveri
che hai seminato per strada,
e so di non essere l’ultimo!







EUTANASIA DI UN AMORE 

Hai generato un mondo di speranze
dove il grigio della vita
si tramuta in rosso scarlatto
ed io automa, ritornato ragazzo,
l'ho percorso per lungo e per largo
e ho vissuto il mondo di fiaba.
Ho rinnegato chi mi ha donato,
ho alimentato col fiato le mete.
Sembrava reale, un mondo vero,
ma tu, incostante nel tempo,
come il vento hai eroso
i tanti castelli di sabbia,
con costanza, come l'onda battente
hai cancellato ogni traccia.
Sull'arenile deserto
mi è cpmpagna soltanto l'angoscia,
amara la vita, realtà crudele!
La lotteria dei tuoi sentimenti
gira al mutar della brezza
come il galletto di latta in cima al camino.
Che cosa son stato 
se non un capriccio
per la tua vita legata a più fili,
forse, ho riempito un lasso di vuoto,
eppure, ho sempre donato
senza alcuna riserva...
ho asfissiato gli affetti più cari
e ho creato lo scrigno più bello
dove ho riposto i miei sogni...
"Eutanasia di un amore"...
operata a piccole dosi,
apparentemente indolore.
Oblio della mente t'invoco,
oscura il mio senno
e fa che la vita sorrida
a chi ho fatto del male.
Ora, sparsi qua e là
solo mucchietti di cenere
e desolanti amarezze.
 
 
 
Spero solo di non avervi deluso, ottime riflessioni.

mercoledì 7 novembre 2012

IGNAZIO EMIGRA IN AUSTRALIA




MARIO SCAMARDO

I RACCONTI DEL BORGO

Emigrazione? Meglio regalarvi un passo del mio libro "IL MATTO".

IGNAZIO EMIGRA IN AUSTRALIA





       [... Una settimana dopo partì Nicola per ripigliare la guida dell’azienda, Vittorio aspettò che fossero ultimati i documenti dello zio ed un mattino, serrata la villetta, assieme ad Ignazio montarono su un taxi che li portò in aeroporto. Da Palermo a Milano Malpensa, poi ventiquattro ore di volo fino a Singapore, un’ora di pausa per sgranchire le gambe nel grande aeroporto e poi ancora cinque ore di volo per Sydney. Ignazio era provato dal lungo viaggio, ma i suoi occhi ridevano. Vittorio prenotò un albergo nella city dove riposarono un pomeriggio ed una intera notte e si rifecero del cambiamento di fuso orario. Al mattino lo spettacolo che vide Ignazio fu stupendo, le strade pullulavano di gente, una bella signora aborigena si accompagnava ad un marito biondo di etnia anglosassone e viceversa, alcune donne bianche al braccio di signori aborigeni, e tanti meticci dai capelli biondi ed altri con la chioma riccioluta e corvina. A Sydney, ma in tutta l’Australia, un popolo giovane di appena duecento anni, aveva una maturità senza tempo, niente razzismo, niente pregiudizi, tanta integrazione e tanta maturità. Forse, pensò Ignazio, ad alcuno era stato affibbiato un nomignolo, non c’erano quattro culi, viscuveddi, pasta fritta o matti. Tutti andavano veloci, tutti avevano un lavoro, nessuno si fermava a fare i crocicchi per spettegolare, nessuno si curava dell’abbigliamento altrui o delle sue movenze. Vittorio si accostò allo zio:
- Che te ne sembra?
- Sono entusiasta, sui libri e sulle guide, nessuno ti parla della maturità di questo popolo ma trovi di tutto sui serpenti, sui canguri, sui koala, sui deserti e sugli allevamenti ovini. Su un opuscolo ho trovato notizie sull’agricoltura, sui grandi vigneti e sulle enormi cantine, e mi ha incuriosito il fatto che una massaia, per fare l’intera spesa spende una diecina di dollari, poi ne spende cinquanta per comprare due bottiglie di vino. Mi sono dato la spiegazione da solo, questo è un popolo maturo abbastanza, e sa che per sostenere l’economia vitivinicola, ognuno deve fare la sua parte. All’abbassarsi dei consumi crollerebbe l’economia dei viticoltori, che è una delle colonne portanti di quella dell’intero paese.
- Mio fratello ha una ragazza meticcia, figlia di un aborigeno e di una olandese, si sono conosciuti all’università lo scorso anno, i suoi genitori sono ambedue medici e lavorano in una clinica ad Adelaide.
- E tu sei fidanzato?
- No zio, io ho ben altro a cui pensare al momento, forse in seguito ci penserò. Andiamo, ti porto a visitare la città, lo faremo con comodo, rimarremo tre giorni e ci rinfrancheremo del lungo viaggio. A casa ci aspettano i miei nonni, quelle persone care che hanno adottato mio padre e che hanno manifestato  il desiderio di conoscerti. Sono molto anziani, ma lucidi ed arzilli.
 



    Per Ignazio le sorprese non erano finite, lui avrebbe rinunciato volentieri sia al riposo che alle escursioni in quella città, ma non avrebbe mai esposto un parere diverso con Vittorio. Visitarono oltre a piazze, monumenti e parchi, l’Opera House che si specchiava con le sue architetture moderne nelle acque della baia; il giardino zoologico di Taronga che si affaccia su Port Jackson, profonda e frastagliata insenatura dell'oceano Pacifico sulle cui sponde sorge la capitale dello stato del Nuovo Galles del Sud; la zona denominata Circular Quay; la Darling Harbour Arcade, piena di negozi; La Sydney Tower che è uno dei grattacieli più noti della città australiana;  lo Stadium Australia, stadio olimpico di Homebush Bay, capace di 110.000 posti; ammirarono il treno a monorotaia, sullo sfondo dei grattacieli di Sydney che attraversa Darling Harbour. Ritornavano in albergo a notte fonda, in quanto Vittorio voleva che lo zio assaggiasse la cucina australiana nei più rinomati ristoranti della città, visitasse i tanti pub, e ammirasse la fantasmagoria delle luci e dei colori della Sydney di notte.  I tre giorni passarono e al mattino seguente, preso un taxi, zio e nipote si fecero accompagnare in aeroporto e si imbarcarono alla volta di Adelaide, ancora cinque ore di volo. Un continente vasto l’Australia, quasi otto milioni di chilometri quadrati, l’aereo era il mezzo per spostarsi, le distanze erano enormi. Adelaide, fondata nel 1836 venne battezzata con il nome della moglie di re Guglielmo IV d'Inghilterra, Adelaide di Sassonia Coburgo-Meiningen, sorge nei pressi del golfo di San Vincenzo, che si affaccia sull'oceano Indiano. E’ sede di due università, di un Museo di storia naturale e della National Gallery of South Australia.
Nicola era nella grande sala d’aspetto in compagnia della sua ragazza, ambedue attesero le formalità del ritiro dei bagagli poi, abbracciarono Vittorio ed Ignazio.
- Zio, lei è Elizabeth, la mia ragazza.
       Ad Ignazio ancora una volta si riempirono gli occhi di lacrime, prese la ragazza per le mani, gliele baciò:
- Sei davvero bella, mio nipote è un ragazzo fortunato.
       Salirono in macchina dopo avere sistemati i bagagli e si avviarono per un lunghissimo viale alberato verso la periferia, dopo avere attraversato l’intera città. La macchina varcò un cancello e si fermò davanti ad un grande porticato che precedeva un enorme androne. 

Adelaide


- Siamo arrivati zio, questa è casa nostra. Il parco tutto attorno è immenso, potrai riposarti quanto vorrai, potrai leggere, nuotare in piscina, pescare o giocare a tennis.
       Ignazio ebbe un attimo di smarrimento, poi, quasi d’istinto andò incontro a due arzilli vecchietti, li salutò prese le loro mani e le baciò. I loro occhi erano pieni di dolore, erano i genitori adottivi di suo fratello. La morte di un genitore, anche se dura da accettare, è nelle cose, ti fa soffrire, ma col tempo ti rassegni. La morte di un figlio è contro natura, non la puoi accettare e la rassegnazione non arriva mai. I loro occhi parlavano per loro e, la presenza dei ragazzi, rispettosi ed affettuosi, non riusciva a colmare il loro dolore.
- Sono il fratello di Giacomo, lasciate che vi abbracci, che vi ringrazi per averlo allevato, per averlo amato. I miei genitori adottivi mi hanno abbandonato poco dopo, solo un raccatta stracci si è curato di me, con l’amore che ha potuto darmi, io l’ho amato e l’ho accudito come fosse stato mio padre.
- Noi abbiamo amato tuo fratello, ma le suore del Bambin Gesù non ci hanno detto che Giacomo aveva un fratellino più piccolo, avremmo preso anche te e vi avremmo fatto crescere assieme, dandovi lo stesso amore. Oggi sei qui con noi, non hai avuto la fortuna di conoscere Giacomo, ma basta guardare Vittorio, è uguale a lui.
       Ignazio non fu capace di trattenere le lacrime, abbracciò più volte i due anziani signori, poi prese sottobraccio Nicola ed Elizabeth e tutti entrarono in casa. La villa era immensa, da perdersi, ed il parco aveva persino un maneggio. Al mattino i ragazzi uscivano per recarsi nella zona di estrazione ad accaparrarsi, direttamente dai minatori, l’opale grezzo o, nei laboratori, dove le pietre venivano lavorate per farne monili di grande pregio per poi commercializzarli. I nonni, da buoni italiani, non avevano perso le abitudini del pranzo alle tredici e della cena alle venti. Giacomo e sua moglie, ne avevano fatto una regola adottata anche dai ragazzi. A tavola Ignazio aprì un discorso con i suoi nipoti, chiese di poter fare un lavoro, di potersi rendere utile, di collaborare per le buone sorti dell’azienda. Vittorio lo lasciò finire, guardò negli occhi suo fratello e poi i nonni:
- Ma zio, noi non vogliamo che tu ti preoccupi, devi solo dirci se stai bene con noi, non occorre che tu lavori, l’attività va a gonfie vele, io e Nicola bastiamo ed avanziamo, tu godi il tuo meritato riposo, e goditi anche l’affetto che ti danno i miei nonni.
- Grazie Vittorio, io non riesco a starmene con le mani in mano, se non vi intralcio, lasciatemi venire con voi al mattino. I tuoi nonni, che hanno amato incondizionatamente mio fratello, sono diventati i miei genitori, se me lo consentono, ed io li voglio bene quanto gliene ha voluto tuo padre. Sono ancora forte e giovane, non mi va di fare il pensionato.
       La signora Camilleri, che era seduta accanto ad Ignazio, vistosamente commossa, come ad assentire, allungò una mano e lo carezzò alle spalle, si alzò, gli prese la testa tra le mani e, come una mamma affettuosa, lo baciò sulla fronte. Nicola si alzò dalla tavola, si avvicinò allo zio, poggiò il petto sulle sue spalle, gli accarezzò il viso:
- Vuoi venire con me appena preso un caffè? Io vado nella zona delle miniere, lì c’è il nostro punto di raccolta del minerale, vedrai come vestono i minatori, ancora come i vecchi cercatori d’oro, con i loro grandi cappelli, i loro zaini, i loro badili a tracolla. Devi solo indossare degli stivali, sai, in Australia ci sono i serpenti più velenosi al mondo.
- Vengo, oggi con te, domattina andrò con tuo fratello e, quando mi sarò reso conto del lavoro, allora vorrò anch’io provare a rendermi  utile, vado a calzare un paio di stivali.


Opale



       Montato in macchina col nipote, Ignazio stette in silenzio a godersi un panorama insolito per lui, interminabili rettilinei pianeggianti, chilometriche recinzioni, miriadi di ovini al pascolo e tenute sconfinate di grano. Ogni tanto, tra le rare sterpaglie saltellava un canguro e nel cielo stormi di parrocchetti dalle piume verde smeraldo. Un’ora di macchina ed il terreno cambiò di colore diventando biancastro. Una serie interminabile di cumuli, uno dietro l’altro, di terra che sembrava ghiaia mista a calcarinite e, accanto ad ogni cumulo, una grossa  buca. Ogni tanto un uomo veniva fuori come una talpa con un canestro sulle spalle, la depositava a terra e la scrutava. In mezzo ai cumuli un prefabbricato che aveva l’aria di essere un posto per il rinfresco poi, un altro grande prefabbricato diviso in scomparti, ed in cima ad uno di essi un cartello impolverato dove c’era scritto: Camilleri’s opal company – Adelaide.



- Siamo arrivati, quello è il nostro stand. Due ragazze raccolgono per noi le pietre, le valutano, contrattano e danno un buono ai cercatori, verso le diciassette, quando smettono di scavare, io o mio fratello ritiriamo i buoni e consegniamo loro il denaro. Qui comprano pietre altre due compagnie, ma noi, su un percorso di una ventina di chilometri abbiamo altri cinque punti di raccolta con due ragazze esperte per postazione. Il mattino seguente un nostro agente ritira il materiale nelle sei postazioni e lo porta in città per la pulitura, la selezione, la lavorazione. Mio padre era un esperto nell’individuare i giacimenti, tutti i cercatori gli volevano un gran bene, lui li consigliava e, spesso, il luogo indicatogli risultava essere un enorme deposito, facendo la loro felicità. A volte basta scostarsi di qualche metro per non trovare nulla, ma i cercatori sono dei sognatori, vivono una intera vita nella speranza di trovare il filone  o la pietra giusta.
- Scusami Nicola, ma l’unico modo per rifornirsi sono i cercatori? Nessuno sbanca con pale meccaniche per avere più materiale da scrutare?
- Si, qualcuno lo fa, ma quello non è il modo migliore per passare al setaccio ogni sasso, e poi il cercatore, davanti ad una bella pietra, pur di tirarla intatta fuori, è capace di lavorarci una intera giornata, se poi è un’opale nobile, di colore bianco-azzurro, ricca di iridescenze, dal valore sostenuto, l’estrazione diventa senza tempo. Quando un cercatore non lo vedi per più di un giorno, o si è esaurito il suo filone e come novella talpa scava un’altra buca, o sta estraendo una grossa pietra.
       Entrarono nello stand Ignazio e suo nipote, salutarono le ragazze e sedettero ad un tavolo. Nicola diede uno sguardo alle matrici dei buoni, chiese di qualche pezzo degno di merito e cominciarono ad entrare i cercatori nei loro tipici cappelli per riscuotere. Nicola e suo fratello, così come lo era stato suo padre, erano benvoluti, tutti si intrattenevano a parlare del più e del meno, tutti chiedevano consigli ed il ragazzo presentò a tutti suo zio che elargì tanti sorrisi e tante strette di mano; l’unico handicapp era l’inglese, ma tanto non lo fece sentire escluso. Con un telefono satellitare Nicola chiamò suo fratello, lo informò e chiuso lo stand, caricò le due ragazze e fece il viaggio di ritorno. In macchina si informò delle impressioni dello zio e rispose alle sue mille curiosità. Arrivati a casa Nicola e lo zio trovarono all’interno del parco una trentina di automobili parcheggiate, Vittorio andò incontro a loro:
- Vi ho preparato una bella sorpresa, tutti gli amici di mio padre, tutti italiani, stasera sono a cena da noi, vogliono conoscerti zio, vogliono festeggiare con noi, non avrai difficoltà, parlano la nostra lingua, alcuni al massimo si esprimeranno in dialetto napoletano o siciliano, sono qua da mezzo secolo e qualcuno non ha mai fatto ritorno in Italia, qua si sono sposati, hanno mandato i loro figlioli a scuola, ma hanno preteso tutti di insegnare loro la propria lingua, il proprio dialetto, quello che si sono portati dietro, per potere conservare le proprie radici. Tra loro ci sono due ragazze docenti universitarie, insegnano lingue straniere, se lo vorrai, in sei mesi saranno ben liete di farti parlare in inglese. Saremo quasi in cento stasera, ho fatto preparare un grande buffet sotto il porticato retrostante accanto alla piscina. Mentre intrattengo gli ospiti andate a farvi una doccia, Helizabeth verrà fra poco con i suoi genitori.
       Ignazio indossò il suo abito scuro, timidamente lasciò la sua camera, scese il grande scalone e, come se fossero i suoi genitori abbracciò i signori Camilleri. Vittorio lo prese sottobraccio e lo condusse sotto il portico nel retro della villa e lo presentò agli astanti. Tutti applaudirono e vollero stringergli la mano. Confuso Ignazio abbracciò tutti, i suoi modi garbati, il suo essere ossequioso con le signore, i suoi baciamano, lo resero ancora più simpatico, tutti poi gli chiesero con un pizzico di nostalgia dell’Italia. La cena si protrasse fino a notte fonda e, quando i tappi dello spumante saltarono per aria, al di la della piscina vennero innescati i fuochi d’artificio.
       Il sonno non colse Ignazio, quanta nostalgia nei volti dei più anziani, chiedevano dell’Italia, volevano sapere, speravano che l’uomo conoscesse i loro paesini di provenienza, i parenti, gli amici. Domande gli erano state rivolte, al limite dell’inverosimile, ed ognuno sperava di far rivivere un ricordo della propria infanzia, un abbeveratoio, un campanile, un puparo, un ciabattino, la balia che l’aveva allattato. Valdes Zoè, scrittrice cubana, una nostalgica per Cuba e l’Avana, con il suo libro Cafè de nostalgia, racconta tutto il dramma di un sentimento, di uno stato d’animo. Evora Cesaria  cantante capoverdiana, soprannominata “la diva scalza” perché si esibiva a piedi nudi, fu eccezionale interprete della morna, espressione atta a definire del male di vivere e della nostalgia per il paese natale. Il direttore della rivista americana  Atlantic Monthly fondata nel 1857 James Russell Lowell, chiedeva storie che dessero voce a quello che venne definito "colore locale", e in effetti il regionalismo, la tendenza a volgersi con nostalgia al passato e alla propria regione di origine, dominò la letteratura degli anni Settanta e Ottanta. Perché per cinquanta o sessant’anni solo pochissimi erano ritornati nella terra natia, pur se per una breve vacanza? Il fenomeno migratorio italiano fu provocato dalla interazione di due principali fattori: la crescita demografica e lo sviluppo tecnologico, che espelleva manodopera dal settore agricolo attirandola in quello industriale. In Australia, colonizzata da irlandesi ed inglesi, per mandare avanti i grandi insediamenti agricoli, occorrevano braccia. Alla fine del secondo conflitto mondiale, i grandi transatlantici sbarcarono migliaia di meridionali italiani nei porti di Brisbane, Sydney, Melbourne, Adelaide, quasi tutti braccianti agricoli, pastori, maniscalchi, potatori, giardinieri, talvolta appena alfabeti, tal’altra no. La differenza con il paese d’origine constava soltanto nell’avere un lavoro continuo, talvolta senza il riposo settimanale, senza conoscenza della lingua, con difficoltà oggettive a percorrere le grandi distanze, ma a pancia piena e, talvolta con la possibilità di mettere da parte miseri risparmi. Qualcuno, negli anni cinquanta definì i nostri emigrati che lavoravano nei campi, gli aborigeni italiani. Consentirsi un viaggio così lungo, spossante e costoso, diventava quasi sempre una chimera e, dopo l’avvenuto trapasso dei genitori in Italia, maturava la rabbia e ci si convinceva di non averne più la voglia. Ipno, pian pianino, si impadronì di Ignazio, lo consegnò a suo figlio Morfeo che lo fece sognare. 


       Parecchi furono gli inviti a cena dei connazionali, interminabili, con decine di portate della cucina locale, ma non mancavano mai gli spaghetti al pomodoro. In molti salotti, un pezzo di patria portato con se prima di imbarcarsi per quella terra così lontana, occupava un posto di riguardo: un tricolore, qualcuno più vecchio con lo stemma sabaudo, una gigantografia di Garibaldi, una foto di Vittorio Emanuele III e la regina Elena di Montenegro, una copia di un quotidiano del giugno 1946, acquistato al porto di Genova prima dell’imbarco, con un titolo a tutta pagina Referendum – Vince la Repubblica, il simbolo della Trinacria, un carrettino siciliano, un piccolo Rinaldo tirato a lucido, cimierato di rosso con impresso nella corazza, nello scudo e nell’elmo le insegne del leone poi, le gigantografie dei vecchi genitori lasciati in Italia. Tutto era cambiato in patria, ma i ricordi non cambiano, le immagini rimangono fissate alla mente e, come feticci, accompagnano l’emigrato, lo fanno sospirare, lo immergono nella sua malinconia, gli danno compagnia, lo riportano ad un caro ed amato passato e lo fanno fantasticare e sognare. ...]



Non so se sono riuscito a darvi un piccolo spaccato dell'emigrazione, ci ho provato.   Ottime riflessioni!