giovedì 26 aprile 2012

IL BANCO DI DESISA ... VIII FAVOLA


Sigillo in cera 85 mm della pergamena 13 febbraio 1240. Intorno al campo la legenda recita: [FRIDERICUS D(e) I GR(ati) A IMPE]RATOR ROMANOR(um)[SE]MP(er) AUGUST[US]. Al centro del campo affiancano il trono i due termini: REX IH(e) R(usa) L(e) M. Cagli, Archivio Storico Comunale




 
            Il mito del “Banco di Desisa”, trascorsi ben 800 anni dalla disfatta di Jato, ultimo baluardo arabo in Sicilia,  che si concluse con la deportazione a Lucera degli arabi nel 1248 da parte Federico II , ha resistito fino a metà del secolo scorso.
             Quando ancora la televisione non aveva invaso le case, gli anziani raccontavano vecchie storie e gli astanti, seduti attorno al braciere, ascoltavano come assistessero ad una puntata di un teleromanzo. Il narratore ogni tanto si fermava, si guardava attorno e, quando coglieva piccoli segni di stanchezza e qualche palpebra si chiudeva, interrompeva il narrare e rimandava alle sere successive la fine del racconto.            
            Il “Banco”, tra le tante storie era quello che affascinava di più, pieno di personaggi, di incantesimi, di figure mitologiche, di luoghi suggestivi, colmo di colpi di scena. Il “Banco” incantava grandi e piccini, dava insegnamenti, suggeriva metodi, dava ammonimenti, quindi, educava con la sua morale. Appena finita la vendemmia, a fine ottobre, quando le giornate si accorciavano, la gente si riuniva per le case e richiedeva al narratore un racconto, “u cuntu”, e quelli bravi lo facevano durare tutto l’inverno, tessendo ogni sera pezzi di narrato su una trama. I film del sapone o come sogliono chiamarsi ora, soap opera, sono poca cosa di fronte al “cuntu” che un narratore abile, capace di dar voce come i pupari a tutti personaggi, poteva trascinarsi dietro, ogni sera, per 300 giorni all’anno, senza mai annoiare.  




 
Il Castello di Melfi dove Federico II promulgò le costituzioni.



 
Il sarcofago di Federico II nella Cattedrale di Palermo.




 
Mario Scamardo





 
I Racconti del Borgo
 
V I I I    FAVOLA


I L   B A N C O   D I    D E S I S A 


 
Il feudo di Desisa[1], in territorio di Monreale, faceva parte della “Magna divisa Jati”, costituita da feudi sotto l’egemonia di Jato. I terreni erano molto fertili e gli arabi, grandi idraulici, avevano realizzato le canalizzazioni. Sfruttando l’artesianesimo e mettendo in atto i principi di sollevamento delle acque, erano riusciti ad irrigare quasi tutti i terreni coltivabili. Desisa era anche un avamposto per il pagamento dei tributi, ed era altresì il luogo dove si era costretti a passare per entrare da sud-ovest nei territori di Jato, in quanto era necessario pagare una tassa. Una guarnigione di guerrieri mori, ben armati, stanziava nel feudo e montava la guardia all’avamposto che si trovava in cima ad un’altura, un fortilizio con una doppia cinta muraria, sovrastata da due torri di avvistamento. All’interno, nel patio, una fontana versava copiosamente e l’acqua che fuoriusciva dal grande abbeveratoio si riversava in un enorme pozzo a forma di pera, scavato nel terreno. Chi transitava dal posto, veniva accompagnato dalle guardie al fortilizio, ed era obbligato a pagare il pedaggio. Gli abitanti del feudo, pagavano i tributi quattro volte all’anno, col cadere dei solstizi e degli equinozi. Quando qualcuno ritardava o si rifiutava di versare quanto stabilito, veniva prelevato dalle guardie, legato alle caviglie e calato, a testa in giù, nel pozzo con la testa a pelo d’acqua;  dopo il terzo giorno, il malcapitato, veniva messo alla gogna, fuori dalle mura e veniva esposto al pubblico ludibrio. La gente del feudo viveva spesso nel terrore, in quanto non erano concesse dilazioni ai pagamenti ed il trattamento della gogna era disumano e fortemente umiliante. Tutti chiamavano quel posto “il banco di Desisa”, e tutti erano convinti che all’interno dovessero esserci enormi depositi di monete d’oro , le “duppiedde”.
In uno dei casali a valle del feudo, in prossimità del Passo del Polledro[2], un guado sul fiume Jato, abitava un ricco berbero, Alì Mustafà Galugi, coltivava molti fondi e la sua casa era la più grande e la più bella del circondario che divideva con le sue tre consorti e i due figli avuti dalla prima moglie, Manzur di circa vent’anni e Mufida di sedici. I due giovani erano nelle simpatie di tutti e, gli occhi neri e profondi della ragazza imponevano un gran rispetto e tanta ammirazione. Manzur amava la caccia, era un eccellente arciere ed era stato addottrinato all’uso della scimitarra, un vecchio maestro d’armi  della piazza di Jato era stato il suo precettore. Mufida era stata affidata, per imparare la danza e l’arte di reggere la casa, alla terza moglie del padre, la trentenne Athifa. La donna, che la stimava tanto per il suo carattere remissivo e soprattutto per la sua intelligenza e bellezza, ebbe cura di lei e la istruì con grande amore e passione, preparandola così a un’eventuale matrimonio.
Un mattino i due fratelli fecero sellare i loro destrieri, due cavalli arabi dal manto morello e andarono a caccia verso il bosco. Manzur, ceduto il suo arco a Mufida, le fece scoccare un dardo che trapassò, abbattendola, una lepre che se ne stava accovacciata nel suo giaciglio e, quando la ragazza corse a recuperare la sua preda, il fratello la seguì con lo sguardo e mostrò tutta la sua soddisfazione. Nella mattinata tante furono le prede abbattute, conigli, colombacci, tortore e persino un germano reale, la loro caccia era stata alquanto fortunata.  I ragazzi legarono all’arcione delle loro selle gli animali abbattuti e iniziarono la via del ritorno. A metà strada si imbatterono in un plotone di guardie che pattugliava il territorio, ed ebbero la sgradita sorpresa di essere circondati, disarmati e costretti a raggiungere il “banco”. Mufida e Manzur non capirono il comportamento delle guardie, ma giunti sul posto vennero fatti smontare da cavallo e vennero accompagnati all’interno. Un anziano burbero comandante si presentò davanti a loro e chiese al capo plotone per quale motivo i due giovani fossero stati condotti alla sua presenza. L’uomo, che teneva nelle due mani i pezzi di caccia abbattuti, li gettò sul grande tavolo e disse: - per questi li ho portati qua, hanno abbattuto più selvaggina di quanto viene stabilito dalla legge, due capi a testa, quindi, devono pagare per gli otto capi eccedenti. – L’anziano comandante, li guardò, li vide ben vestiti, immaginando che non fossero né bracconieri, né malviventi, chiese loro a quale famiglia appartenessero e da dove venissero. Mufida sorrise e rispose: - siamo i figli di Alì Mustafà Galugi, la casa di nostro padre è al Passo Polledro, nessuno ci ha mai vietato di cacciare, mio padre ha sempre pagato i tributi. – Mi dispiace – rispose il comandante, è prevista una tassa di una moneta d’oro ogni quattro capi in più abbattuti, quindi, voi dovete darmi due monete. – La ragazza sorrise ancora e disse: - con noi non abbiamo monete, se questa è la legge, mio fratello farà ritorno e ve le porterà – ma il burbero uomo fece una smorfia: - voi andrete a pigliare le monete, vostro fratello rimarrà qua, fino a quando non sarete tornata. – La ragazza prese la selvaggina dal tavolo, uscì, la attaccò all’arcione e si dette al galoppo verso casa. Il vecchio Alì Mustafà, vedendo ritornare la figlia da sola si preoccupò, ma quando seppe dell’accaduto, montò a cavallo e si recò su al fortilizio, sborsò le due monete e rientrò col figlio.
Manzur non digerì affatto il tributo impostogli e tanto meno il comportamento delle guardie, la selvaggina era abbondante, e pensò che da quando l’uomo era sulla terra aveva sempre cacciato senza l’imposizione di balzelli. Spesso si rodeva pensando all’accaduto ed una sera decise di farla pagare ai gestori del “banco di Desisa”. Come tutti, pensò che all’interno dovevano esserci dei depositi in denaro, tante “duppiedde”, allora bisognava prenderne un po’, bisognava escogitare un sistema che non implicasse grossi rischi, il furto veniva punito con l’amputazione delle mani, ma le sue gli servivano. Andò per i campi e raccolse tanti papaveri, li pestò in un mortaio e conservò il succo in un piccolo otre, quando le guardie, ultimate le scorte di vino, vennero giù a comprarne da suo padre, Manzur colmò gli otri con tanto succo di papaveri, capace di addormentare una mandria di cavalli. La sera si appostò nelle vicinanze del fortilizio e, quando vide crollare dal sonno le due sentinelle che stavano all’ingresso, sgattaiolò dentro. Tutti dormivano profondamente ed il russare faceva tremare i tetti. Staccata una fiaccola dal muro, girò ogni dove, non c’era un buco, una cassa, un nascondiglio che facesse pensare ad un deposito di monete, l’ultimo posto dove sbirciare era un pozzo a pera asciutto, scavato all’interno del grande salone, sormontato da una piccola cuba, una costruzione a forma di cubo, realizzata in mattoni refrattari, con a sua volta realizzata sopra una cupoletta, anch’essa in mattoni pieni. Si sporse ed al lume della fiaccola vide sul fondo luccicare le “duppiedde”, erano tante, tante da far girare la testa. Scendere in fondo al pozzo era un’impresa, risalire, lo era doppiamente. Manzur non era un ladro, anzi un generoso, un altruista, e quando pensò di calarsi con una corda, la sua coscienza lo fermò, rimise la fiaccola al suo posto e ritornò a casa. Si sentiva di già appagato dal fatto che era riuscito a buggerare le guardie, e tanto gli fece sedare la rabbia che gli covava dentro.
Una sera, nell’aia davanti casa, il padre tenne una festa, furono accese tante fiaccole da illuminare ogni dove e furono preparate un bel po’ di vivande. Tutte le famiglie di Passo Polledro arrivarono portando un dono a Mufida. Ognuno giunse con le proprie mogli e i figli e tutti presero posto intorno al grande fuoco. Alì Mustafà Galugi, col suo abito più bello, accompagnato dalle tre mogli e dai figli, sedette per ultimo, fece cenno ai servitori e vennero portati decine di vassoi ricolmi di carni, di verdure, di frutta e di dolci. Grosse caraffe in argilla erano colme di vino al miele e senape e per il fine pasto era pronta una grande brocca con un liquore di fichi. Al ritmo del battito delle mani, a turno, tutte le ragazze danzarono, per ultima, ballò Mufida. Il vecchio Alì Mustafà invitò gli astanti a raccontare qualcosa per allietare la serata. Si alzò in piedi Manzur e chiese al padre di poter narrare una storia. Il vecchio berbero concesse la parola e Manzur raccontò, come se l’avesse vissuta un’altro, la sua visita al fortilizio, messa in atto con l’ausilio del sonnifero. Raccontò del pozzo a pera sormontato dalla piccola cuba e del suo prezioso contenuto, ma ricorse a tanta fantasia per inventarsi un incantesimo che non permetteva, a chi si impossessava delle “duppiedde”, di uscire dal pozzo fino a quando non le avesse riposte. Raccontò che qualcuno, per evitare di rimanere imprigionato, tentò l’operazione con un cane, nascondendo in ogni boccone una moneta, ma l’incantesimo aveva bloccato il cane, fino a quando, a digestione avvenuta, lo stesso non depositò le monete. Raccontò inoltre che, all’uscita dal fortilizio, un vecchio saggio barbuto aveva chiesto all’uomo che si era calato nel pozzo: - giovane amico, dimmi, è stato svuotato il “banco di Desisa”? – no – rispose l’uomo – il saggio si portò disperatamente le mani alla fronte ed esclamò: - ah, povera Sicilia!.. – l’uomo allora volle sapere di più – dimmi vecchio saggio, cosa occorre per svuotarlo? – Il “banco” è soggetto ad un incantesimo, una vecchia strega cattiva lo ha praticato, il denaro che in esso è conservato si può portar fuori a condizione che l’incantesimo venga spezzato, e per far ciò bisogna che vengano sacrificati tredici innocenti ed il loro sangue venga sparso attorno al pozzo asciutto. – Il saggio sparì nel nulla e l’uomo, terrorizzato, si allontanò di corsa. Finito il racconto Manzur ricevette gli applausi degli astanti e qualcuno iniziò un’altra storia.
Il vecchio Alì Mustafà, conosceva bene suo figlio, e conosceva, altresì, bene com’era fatto il fortilizio, con i suoi pozzi e con i suoi camminamenti, troppe descrizioni meticolose per uno che c’era stato appena due ore in stato di fermo, allora pensò che una parte della storia era vera. L’indomani chiamò il figlio e si fece confessare tutto. Manzur raccontò tutta la verità ed il padre lo rimproverò per l’impresa rischiosa, ma lo lodò per la sua onestà, ma anche per la sua fantasia nel narrare.
Passò il tempo e Mufida sposò un giovane berbero che la portò lontana, nel suo casale ubicato nella Divisa Elcumeyt[3], al di la del Monte Jato. Anche Manzur sposò una giovane donna che proveniva dalla Divisa Lacbat[4], visse assieme al vecchio padre e alle sue tre mogli.
Un giorno, attraversando dei campi, Manzur vide tre uomini che raccoglievano capolini di papaveri e stavano per riempirne due grandi sacchi, si fermò e chiese loro: - ditemi, siete voi speziali o medici? – no – risposero in coro i tre, ma non dissero altro. Il giovane si allontanò e, ricordando l’uso che egli ne aveva fatto dei papaveri, capì che i tre programmavano di svuotare il “banco di Desisa”. Per quattro sere consecutivamente si appostò tra gli alberi, ma nessuno si fece vedere, forse si era sbagliato sulle intenzioni dei tre uomini, ma la quinta sera, dopo il pasto, vide le sentinelle piegarsi sulle ginocchia e cadere in un sonno profondo, qualche minuto dopo vide entrare nell’avamposto i tre uomini che avevano raccolto i papaveri. Li seguì a distanza, armati di pugnali e delle loro scimitarre, li vide ispezionare ogni angolo, erano dei ladri. Quando con le torce illuminarono il pozzo asciutto, legarono una corda ad un anello che era fissato al muro e si calarono dentro con delle bisacce. Presero quante più “duppiedde” possibili, le infilarono nelle tasche e persino negli stivali, erano tre brutti musi e uno dei tre disse agli altri due: - fratelli, ora risaliamo e per non correre nessun rischio, prima di andar via sgozziamo tutte le guardie – gli altri due, sulle prime  dissentirono: - ma non ci hanno visti, dormiranno per tre giorni – ma quando il primo, che sembrava essere il capo, scosse negativamente la testa, scoppiarono in una sguaiatissima risata e tutti e tre gridarono: - sgozziamoli! - Manzur non aveva a simpatia i ladri, ancor meno gli assassini, sciolse la corda dall’anello a cui era fissata, si affacciò all’imboccatura del pozzo e disse ai tre malviventi: - senza i vostri propositi di assassinio, forse, mi sarei convinto ad andar via lasciandovi portare il denaro, ma la vostra cattiveria supera ogni limite, è giusto che sia punita, il vostro sogno era di vivere e morire ricchi, accontentatevi della metà del vostro sogno, quello soltanto di morire ricchi! – Uscì dal fortilizio portando con se la corda. Appena fuori, guardò la valle, era una notte di luna, la bianca luce illuminava le messi, s’incamminò verso casa e, giunto a metà strada, si girò per guardare indietro. Il “banco di Desisa” continuava a possedere ancora il fascino dei suoi misteri.






[1] Toponimo ancora esistente in territorio di Monreale, nei pressi della frazione di Grisì.
[2] Toponimo ancora esistente, confine meridionale del feudo di Desisa. (Guado sul fiume Jato).
[3] Il toponimo odierno è il Monte Kumeta, che si affaccia al Monte Pizzuta, in territorio di Piana degli Albanesi.
[4] Il toponimo odierno è Malvello, in territorio di Monreale.






Spero di avervi saputo raccontare, immaginandolo, uno spaccato di vita del periodo arabo della Sicilia.
                           Grazie per la vostra cortese attenzione.