domenica 30 settembre 2012

IL FALCO E LA PRINCIPESSA - RACCONTO











IL FALCO E LA PRINCIPESSA


     C'era una volta una principessa berbera, che abitava in un'oasi del Sahara tunisino. Il padre, capo di una grande tribù, era ricchissimo, la sua tenda era enorme e sfarzosa. Soffici cuscini di seta ricamati in oro, immensi tappeti arabescati ricoprivano l'intero pavimento, artistici samovar tirati a lucido e incensieri sempre accesi diffondevano nell'aria profumi esotici, a decine erano le casse piene di pietre preziose gemme e sete damascate.
     Al centro di un enorme palmeto stracarico di datteri zuccherini, una sorgente gorgogliante di chiarissima acqua si versava in una grande vasca, ammattonata in ceramica color verde smeraldo, che faceva sembrare l'acqua ancora più fresca e cristallina.
     Fatima, la principessa, unica figlia, veniva coccolata dalle sette mogli del padre e veniva educata da quattro saggi fatti venire dalla Persia, dalla Siria e dall'Iraq, affinchè apprendesse l'arte del canto, della pittura, della tessitura e della danza, mentre, per farle apprendere gli insegnamenti delle Sure del Corano, era venuto a bella posta da Kairuan, quarta città santa dell'Islam, un filosofo saudita di gran fama, che s'era addottrinato alla Mecca.
     Il padre possedeva, oltre all'immenso palmeto, una mandria di mille dromedari e un ovile di duemila pecore, che affidava per il pascolo alle cure di pastori berberi. A Fatima era stato regalato uno stallone arabo e le era stata donata la sella sulla quale la madre, che era morta dandola alla luce, si era recata nella grande moschea di Tozeur il giorno delle nozze.
     La principessa veniva svegliata tutte le mattine all'alba e, dopo il bagno nella immensa vasca posta al centro del palmeto, saltava in groppa al suo stallone arabo e si addentrava tra le bianche dune di finissima sabbia. Il padre l'accompagnava con lo sguardo e gioiva per la sua maestria nel cavalcare, mentre il vento faceva ondeggiare la sua chioma corvina e con essa i suoi veli. Fino al ritorno di Fatima tutti nell'oasi sembravano in apprensione, ma lei, come una nuvola variopinta, bloccava il suo destriero davanti alla grande tenda e smontando da cavallo correva a gettarsi al collo del padre coprendolo di baci.
     La sera, attorno al fuoco, fuori dalla tenda i contadini, i pastori e le loro mogli, sorbendo tè alla menta, raccontavano del loro passato tra le dune e delle loro avventure, quando in carovana andavano a rifornirsi di sale e di stoffe. Una volta qualcuno giurò sul Corano, sommerso dall'incredulità degli astanti, che in una notte di plenilunio, tornando con un carico di sale, all'orizzonte, dove tramonta il sole, aveva visto una grande porta tutta d'oro, con due leoni anch'essi d'oro che vi stavano a guardia e che, appena s'era avvicinato, si era spalancata come d'incanto e ne era uscito fuori un baldanzoso puledro dal mantello bianco, bardato con finimenti di seta, ornati di ori e di argenti. In groppa al destriero, un falco dalle ali immense lo chiamò e lo invitò a varcare la soglia.
     Per lo stupore e la paura l'uomo si chinò in segno di riverenza, avendolo creduto un segno di Allah, ma si rifiutò di varcare la porta d'oro e carponi raggiunse il suo dromedario. Il falco volò portandosi sulla cima di una duna di fronte a lui e gli chiese tre granelli di sale e tre gocce d'acqua. L'uomo, con le mani tremanti, senza un filo di voce, staccò dal suo carico tre pietruzze di sale, pigliò uno dei suoi otri semivuoti e li poggiò sulla sabbia, poi fu colpito da un gran sonno.
     All'alba, appena desto, si guardò tutt'intorno cercando la porta d'oro, il cavallo bianco, i leoni e il grande falco parlante; non vide nulla e, riavutosi dallo stupore, pensò che il sonno lo aveva colto all'imbrunire ed un sogno fantastico l'aveva accompagnato nella notte. Fece alzare i suoi dromedari per riprendere il viaggio, ma notò che al carico della prima bestia mancavano tre cocci di sale, e dei suoi tre otri ne aveva solo due gonfi d'acqua. I peli delle braccia gli si rizzarono e il cuore gli battè forte forte, si girò attorno ma vide solo distese interminabili di sabbia, null'altro si intravedeva all'orizzonte. Riavutosi, riprese il cammino fra le dune infuocate, tenendo le redini del dromedario capofila.
     Giunto all'oasi e scaricato il sale, fu tentato di raccontare l'accaduto alle sue mogli, ma non lo fece per non rischiare di farsi dare del visionario.
 
 
 

 
     Qualche giorno dopo, alla fine di una faticosa giornata, recatosi alla sorgente per lavarsi, raccolse una succulenta melagrana e si sedette su un masso, ma, quando infilò la mano nella tasca del suo barracano per pigliare il coltello, ne tirò fuori novantanove monete d'oro. Lo stupore lo colse, lui non aveva mai posseduto tante monete, era un povero contadino dell'oasi, aveva sempre coltivato datteri e due volte l'anno si recava a caricare il sale e le stoffe che servivano al suo padrone. Ebbe ancora un attimo di esitazione, poi alzò gli occhi in cima all'albero di melograno e scorse un enorme falco che lasciava cadere il suo otre semivuoto che aveva tenuto tra gli artigli mentre spiccava il volo dirigendosi tra le dune.
     Fatima non perse una parola del racconto, fu affascinata tanto da quella storia che istintivamente guardò il cielo per scorgervi la luna, ridotta ad una piccola falce, poi piegò la testa sulla spalla di una delle mogli del padre e alzando gli occhi al cielo seguì il cammino dell'astro, mentre un altro contadino iniziava un'altra storia fantastica.
     Passavano i giorni e Fatima diventava sempre più bella, due occhi neri e profondi brillavano sul suo volto ambrato, due labbra rosse come il corallo lasciavano intravedere il biancore dei denti, le dita affusolate erano adornate da due smeraldi, i piedi nudi immersi nella sabbia bianca e alle caviglie affusolate portava due braccialetti d'oro con due medagliette; sua madre li aveva portati quando aveva danzato per suo padre. Fatima adornava tutte le mattine le sue caviglie con i braccialetti e la sera, prima di addormentarsi, li riponeva con cura in un cofanetto madraperlato, dove era intarsiato sul coperchio lo stesso scorpione che era coniato su ambedue le facce delle medagliette.
     Venne il tempo della raccolta dei datteri e l'oasi si animò a festa, lunghe file di bandierine multicolori attraversavano il palmeto e attorno alle tende era stata fissata una serie di fiaccole, che servivano ad illuminare a festa la notte. Sistemato che fu l'ultimo dattero nei cesti di fibra di palma, la gente dell'oasi sembrò seguire un rituale, si preparò per la festa e, pian pianino, a gruppetti, vestiti con l'abito delle occasioni, si recarono tutti davanti alla grande tenda dove erano state preparate vivande ed erano state accese le fiaccole.
     Fatima uscì dalla tenda del padre, era più sfolgorante che mai, e prese posto ai piedi del grande cuscino di seta verde dove s'era sistemato il genitore, attorniato dalle sue mogli. Ad un cenno i suonatori fecero rullare i tamburi, poi continuarono con misiche e canti. I servitori si diedero un gran da fare portando grandi piatti colmi di carni arrostite alla brace, enormi teiere, cesti colmi di frutta e vassoi su vassoi di dolci al miele guarniti con succulenti datteri.
     Fatima spiluccava un grappolo d'uva quando Farazanda, la ballerina siriana, sua maestra di danza, le si fece accanto e le sussurrò di danzare in onore del padre e degli astanti tutti. La principessa berbera dagli occhi corvini si alzò in piedi e fù silenzio. Il fuoco, come d'incanto, non fece più sentire il crepitio dei ceppi accesi, il vento si fermò e non si sentì più il fruscio delle palme, i musici fecero tacere gli strumenti, solo l'acqua continuò a gorgogliare e a riversarsi nella grande vasca. Così la vita attorno, che non conosce soste.
 
 
 
 

 
     La sabbia del deserto sembrava polvere d'argento, allo zenth, la più grande delle ammaliatrici, la luna piena, in tutto il suo splendore, illuminava la pelle ambrata di Fatima che si pose in piedi davanti al padre, si chinò e attese che i musici, al cenno di Farazanda, dessero fiato ai flauti e accarezzassero le corde dei liuti. Una danza leggiadra, mille e mille giravolte, come libellula la giovane berbera fece cogliere in pieno le sue grazie coperte da veli, alle sue caviglie esili tintinnavano i braccialetti. Il crescendo dei ritmi venne scandito dal battito delle mani e lei culminò la sua danza, così come l'aveva iniziata, prostrata davanti al padre.
     Farazanda incrociò lo sguardo del genitore della principessa e colse la soddisfazione negli occhi di lui. Come d'incanto le palme ripresero a frusciare, i carboni a scoppiettare, le fiammelle delle fiaccole a tremolare e la luna in cielo, che sembrava essersi fermata, riprese il suo lento procedere verso l'orizzonte. La principessa Fatima sciolse lo stallone arabo, lo montò, e tra la meraviglia di tutti lo sferzò al galoppo tra le dune, verso il sole al tramonto. Il mantello merlino del cavallo si confondeva col bianco della sabbia e la criniera di seta al vento le accarezzava le ginocchia.
     Davanti a lei comparve come d'incanto una grande porta d'oro con due leoni a guardia, anch'essi d'oro:
meravigliata, tirò le redini del destriero. Le tornò alla mente il fantastico racconto dell'arabo, ascoltato tempo prima. La principessa, dopo un attimo di esitazione, spronò lievemente il cavallo facendolo andare al passo e si avvicinò all'enorme porta luccicante, che si aprì lentamente. Venne fuori un puledro bianco con una sella d'argento, i finimenti di seta e gli zoccoli muniti di ferri d'oro; in groppa un maestoso falco, che spiccò il volo e si posò, dopo un dolce planare, sulla cresta della duna; Fatima, senza perdersi di coraggio, smontò da cavallo e gli andò incontro.
     Il falco aspettò che la principessa fosse a tre passi di distanza, le disse di fermarsi e le chiese: - Bella principessa dalla pelle di luna, che hai il coraggio di venirmi vicino, pochissimo tempo mi rimane per chiederti di farmi un regalo, ma ogni tua esitazione potrebbe impedire di spezzare l'incantesimo al quale una strega mi ha legato. Sono costretto a vivere sotto le sembianze di un falco in una gabbia tutta d'oro, mi è consentito uscire in sella al mio destriero solo nelle notti di luna piena e fino a quando la stessa non scompare all'orizzonte. Sei ancora in tempo per montare il tuo cavallo e fuggire al galoppo.
     La principessa tentò di avvicinarsi ancora una volta al falco ma questi la fermò di nuovo: - Fermati, bella berbera, non avvicinarti, prima donami l'oggetto che ti è più caro!
     Fatima non ebbe esitazione, si chinò, sganciò dalla sua caviglia un braccialetto e lo lanciò ai piedi del falco, che lo raccolse col becco e volò in sella. Tutto intorno diventò cupo, una nuvola solitaria coperse la luna, la porta d'oro chiuse i battenti e pian piano scomparve assieme ai leoni. Il cielo fu squarciato da fulmini e si sentì un boato. Il vento sollevò una nube di sabbia che avvolse il falco e la sua cavalcatura. Urla, pianti, stridori strazianti riempirono i silenzi del deserto. La nuvola scura si dileguò a mano a mano e la luna riprese a rischiarare tutt'intorno. Tornò come d'incanto la calma. La principessa Fatima, smarrita, vide tra le pieghe della nube apparire in sella al puledro bianco non più il falco ma uno splendido giovane in abiti regali, che portava al polso sinistro il braccialetto che lei gli aveva donato.
     Il giovane smontò e le andò incontro, le prese le mani e le baciò, poi si chinò davanti a lei e le chiese perdono per il batticuore che le aveva procurato, ma Fatima lo sollevò rassicurandolo e chiese chi fosse.
- Mi chiamo Mohamed - disse il giovane - sono figlio del pascià di Oman.
     La principessa berbera sfiorò con le dita le labbra del giovane principe invitandolo momentaneamente a tacere e lo pregò di seguirla, indi montò il suo purosangue e insieme si recarono nell'oasi del padre.
     Il principe raccontò le sue avventure, e il sortilegio della strega che lo aveva relegato ad un incantesimo che sarebbe stato spezzato solo se una fanciulla senza esitazione gli avesse donato l'oggetto più caro che possedeva.
     Il padre di Fatima si avvicinò al giovane, gli scoprì una spalla e si accorse che c'era tatuato un piccolo scorpione, uguale a quello delle medagliette dei bracciali. Abbracciò il giovane principe stringendolo al petto e disse : - Mohamed, io ho avuto la fortuna di conoscere il pascià di Oman tuo padre, portava sulla spalla sinistra il tuo segno, lo stesso che portava la mia diletta moglie Sara, madre di Fatima. Tuo padre era cugino di Sara; ora non è più. Per rendere omaggio alla sua salma ho viaggiato sessanta giorni e sessanta notti nel deserto, la sua anima è alla destra di Allah e sicuramente ci guarda dal cielo.
     Per quindici giorni e quindici notti fu festa nell'oasi, non si lavorò in onore di Mohamed; le donne si diedero un gran da fare nelle cucine, prepararono carni e leccornie, le teiere furono sempre fumanti e i musici e i danzatori non ebbero riposo.
     I giorni passarono, Fatima diventò sempre più bella e Mohamed sempre più legato al padre di lei; gli sguardi dei due giovani si incrociavano sempre e i loro occhi parlavano d'amore: Un giorno, il vecchio padre poggiò le sue mani sulle loro teste, dando la sua benedizione. E vissero felici e contenti.

[Il presente racconto è tratto da IL FAVOLIERE (Cucù e le sue storie) di Mario Scamardo e Sara Riolo - Edizioni ILA PALMA]


Non ho voluto fare una premessa per consentire al lettore una analisi scevra da alcuna influenza.

martedì 18 settembre 2012

LA TRASGRESSIONE !!! - Storia d'amore tra una ragazza ed un prete.







INTRODUZIONE



Quella di Mario Scamardo è un eccellente narrativa che coinvolge il lettore, lo fa diventare subito protagonista, lo trascina al centro della scena e lo fa vivere assieme agli altri personaggi, come in una catarsi che lo riscatta dalla quotidianità e lo immerge in una purificazione rigenerante. In poche pagine l’autore riesce a condensare grandi vissuti coinvolgenti, al punto da costringere il lettore a divorar tutto d’un fiato il testo, quasi a voler veder se stesso al culminare degli eventi. Coniugare storia, costume, tradizioni, vissuti e quant’altro non è un narrare comune. In “I sette giorni della trasgressione” vengono raccontate le passioni, il coraggio, l’ironia, gli orgogli di una bambina che si fa donna, talvolta schiacciata dagli eventi, ma, sempre pronta a lottare, a combattere, a razionalizzare, a sorridere delle proprie sfortune, a maturare insegnamenti, ad offrire agli altri le proprie conclusioni, a reagire positivamente davanti alla sorte ria.
In questo narrato, attraverso i vissuti, viene dimostrato dall’autore che il tempo, per personalità come quella della protagonista, non è un parametro. E’ evidente la consapevolezza che c’è un tempo per tutte le cose, un tempo per nascere, uno per crescere, per giocare e per imparare, poi c’è un tempo per discernere ed uno per insegnare e, quando tutto è compiuto, c’è anche un tempo per morire.
Gli uomini, in una delle fasi più delicate, quella dell’apprendimento e della ricerca della conoscenza, marciano con tempi diversi l’uno dall’altro, ciascuno ha i propri! L’autore ha piena consapevolezza di tutto ciò, mettendolo in evidenza attraverso il vissuto della protagonista.
 Giulia, sa soltanto donare incondizionatamente, pur essendo lei più bisognosa degli altri. La sua storia è come tante altre storie, la sua caparbietà è senza limiti, pari alla sua bontà ed alla sua educazione. Il suo essere in condizioni non ottimali di salute, potrebbe sembrare la sua debolezza, invece, le procura una grande forza e le fa superare ostacoli sempre più impegnativi. Al suo impercettibile claudicare, al suo essere soggetto da tenere sempre sotto osservazione medica, Giulia contrappone un sorriso, e sui suoi non indifferenti malanni ironizza. “Eironéia”  dal greco significa “dissimulazione” e Giulia è solita  dire sorridendo: “Corro come una lepre!”, o, alludendo alla sua precarietà di salute: “Sono sana come un pesce!”. Sembra assistere alle commedie di Alan Bennet, dove l’auto ironia la fa da padrone. Questa è la sua forza, che la fa razionalizzare sempre di più, e la coinvolge a mettere a nudo la sua vita privata, pur di potere regalare agli altri le sue esperienze. Giulia non si vergogna di un solo attimo del suo passato, lo ha vissuto con pienezza di sentimenti, ed ha saputo trarne gli insegnamenti più belli.
L’autore racconta Giulia, la sua infanzia, il suo diventare donna, le sue storie ed i suoi vissuti, i suoi sentimenti più nobili e le sue passioni più infuocate, quelle che la protagonista stessa chiama le sue “trasgressioni”. Mario Scamardo non trascende mai nel banale delle morbosità, stuzzicando  così la fantasia del lettore.
Il rapporto tra Giulia e la sorella, i grandi sentimenti che le legano, sono messi in risalto e, spesso, trascinano alla commozione.
La storia d’amore vissuta dalla protagonista col giovane prete, mette in risalto quanto è all’ordine del giorno, la necessità di rivedere, da parte della chiesa cattolica, lo spinoso problema del celibato dei sacerdoti. L’autore ha voluto marcare la grandezza e la bellezza dei sentimenti che hanno legato i due, inserendoli nel contesto di quel grande capolavoro che è “Il piccolo principe”di Antoine de Saint-Exupéry.
Il rapporto tra Giulia e la madre di Rocco, inverosimile sulle prime, risulta essere lo spaccato di una società tormentata. Mamma di un prete e genitrice di un uomo che è capace di amare una donna ma è legato ad un vincolo che, il più delle volte, lo obbliga a rispettare le forme più che la sostanza. Ci si interroga: quanto il tormento, talvolta, non diventa il padrone dell’uomo, che perde il senno e non risponde più bene al dovere a cui è chiamato? La vita, ogni giorno risponde inesorabilmente ai nostri interrogativi!
L’autore, attraverso la protagonista vuole lanciare un messaggio: “La vita è il dono più grande e merita di essere vissuta, con essa vanno vissute tutte le esperienze. E’ meglio portarsi dietro una valigia di rimpianti, anziché un solo rimorso!”

                                     (Enza Sanzone)


[Tratto dal mio romanzo "I SETTE GIORNI DELLA TRASGRESSIONE"]





[... Prima di riporre il libro nella sua borsetta la ragazza compiva un rito, lo chiudeva e rileggeva la frase riportata in fondo, nel retro della copertina: “Tutti i grandi sono stati bambini una volta, ma pochi di essi se ne ricordano.”
Dentro il bar, al centro di Piazza Indipendenza a Palermo, avvenne l’incontro con i dirigenti nazionali del naturalismo giovanile per il grande raduno. Giulia era andata in compagnia di altre due amiche, alle presentazioni, tra i tanti, strinse la mano a don Rocco, pantaloni grigio chiaro e camicia a righine con le maniche corte e sentì stringere la sua come in una morsa d’acciaio. Dopo un espresso, corto e cremoso, che solo a Palermo sanno fare, sedettero ai tavoli posti all’esterno, per definire le modalità per il mattino seguente. Don Rocco sorrise a tutti ma ebbe particolare attenzione per Giulia, tanta, da far si che una delle amiche, in maniera alquanto ironica, sottovoce le disse: - Sembri aver fatto colpo sul pretino, ha solo occhi per te. – La ragazza sorridendo: - Non è certo un bell’uomo, in compenso sorride sempre, ma poi, cosa ti passa per la testa, lui è fatto così, sembra avere attenzioni per tutte. – Concluso l’incontro, tutti si salutarono dandosi appuntamento a Ficuzza per le sette del mattino del giorno seguente. Al commiato, don Rocco strinse la mano a tutti e si riservò l’ultimo saluto per Giulia, la stretta fu meno poderosa ma prolungata e calorosa e gli occhi del giovane sacerdote fissarono insistentemente quelli della ragazza.
Ficuzza, quattro case ad un tiro di schioppo da Palermo e da Piana degli Albanesi, immersa tra gli alberi dell’omonimo bosco di quattromila ettari. Due conformazioni di rocce calcaree e calcareomarnose, Rocca Ramusa e Rocca Busambra, delimitano il bosco che si ricongiunge dall’altro lato con il Bosco di Godrano, altro piccolo centro agricolo dell’entroterra palermitano. Questa riserva è la più importante della Sicilia, sia dal punto di vista scientifico che per la sua estensione. Di grande interesse botanico sono le forme arbustive di leccio, la Viola di Tineo, la Centaurea della Busambra, la camomilla di Cupane, il Cipollaccio, il Cavolo rupestre, la Vulneraria e la Piantaggine di Gussone. Dal punto di vista idrogeologico il territorio offre caratteristiche torrentizie. Forre e valloni sono caratterizzati dalla presenza di salici, frassini, olmi, querce da sughero e pioppi. Ricca è la fauna, presenti sono il falco pellegrino, il gufo, il grillaio, il merlo, la cinciallegra, il rampichino, lo scricciolo, il colombaccio, il picchio, lo storno e la coturnice. Nel sottobosco esiste la martora, la volpe, l’istrice, il ghiro, la donnola ed il gatto selvatico. Tra le frasche si muovono ramarri, lucertole, colubri e vipere.
Al centro della piazza campeggia lo storico Casino di Caccia di Ferdinando di Borbone, realizzato all’inizio dell’800, dall’architettura semplice, che presenta nel suo interno alcuni passaggi segreti. In un’ala della palazzina, una cappella assolve alle necessità spirituali dei pochi abitanti, ma anche a quelli dei tanti visitatori. In una dipendenza del Casino di Caccia è ospitato il Centro Regionale per il recupero della fauna selvatica. Il posto, per il grande raduno dei giovani naturalisti, non poteva essere scelto con maggiore oculatezza.
Alle sette del mattino il pullman con i ragazzi di Piana degli Albanesi arrivò in perfetto orario, Giulia e i suoi colleghi riunirono tutti davanti alla cappella ed attesero gli altri gruppi. Dall’ultimo dei pullmans sopraggiunti scese don Rocco, dopo i saluti e le strette di mano, la cappella si riempì  e venne celebrata la Santa Messa.
Finita la cerimonia, la piazza antistante la Regia Palazzina di caccia si riempì di giovani, forse mai quel grande slargo aveva visto tante presenze. Ogni coordinatore cercò di riunire il proprio gruppo per procedere verso la radura in mezzo al bosco per cominciare a montare il campo. Don Rocco si fece spazio tra la gente e raggiunse Giulia. – Grazie per essere presente – disse e le strinse con calore ambedue le mani. La ragazza non capì quell’eccesso di calore, e non capì del ringraziamento. – Dovevo esserci, questi ragazzi vanno coordinati, avremo modo di rincontrarci – lo salutò con un sorriso e si commiatò.
Mentre si improntava il campo, Giulia si rese conto che, tutte le volte che incrociava lo sguardo col giovane sacerdote, questi sorrideva. Tanto la turbò, in quanto non ne capiva il nesso, anche perché non si erano conosciuti prima, quello era il loro primo incontro. Il comportamento di don Rocco veniva osservato dalla ragazza, ma anche dalle altre coordinatrici e, pur distribuendo sorrisi a tutte, per Giulia i sorrisi erano diversi, sapevano di maggiore tenerezza, sapevano di affettuosità particolare. Un atteggiamento ed una attenzione particolare, misero la ragazza di fronte alla possibilità di un eventuale malinteso. Tra sé e sè pensò che quel pretino non stava bene con la testa, o, l’aria del bosco, la natura d’intorno, avevano innescato nella sua mente idee non consoni al suo ministero. Allontanò detti pensieri e si diede da fare aiutando la sua squadra a finire il lavoro.
A disposizione dei convenuti era stata messa una vecchia costruzione, proprio li, in mezzo al bosco, con parecchi ambienti, forse un antico monastero, forse soltanto un vecchio magazzino riattato negli anni, con alcune camerette ed un grande salone coperto di enormi travi annerite dal tempo. Tutti i dirigenti avevano avuto assegnata una stanza, tranne Giulia e poche altre ragazze. La ragazza, all’invito di fruire di una di quelle stanze, aveva preferito la tenda, al fine di gustarsi di più l’emozione del campo e vivere l’esperienza come i suoi ragazzi. Nella sua tenda c’era solo un lume a gas, il sacco a pelo e la cassetta di pronto soccorso che ogni squadra portava a corredo. Nel pomeriggio, quando l’afa si fece sentire un po’ di più e la stanchezza fece diventare le sue gambe pesanti, manifestò alle sue colleghe il desiderio, quasi la necessità, di rilassarsi un paio d’ore su un letto vero. Giulia non era abituata a quei ritmi e, quegli acciacchi che si portava dalla nascita, ma sui quali lei aveva sempre ironizzato, le tracciavano sul volto ancora di più i segni della stanchezza. Don Rocco infilò la mano nella tasca dei suoi pantaloncini, tirò fuori una chiave e la offrì a Giulia. – Tieni – disse – è quella della mia stanzetta, vatti a distendere, io continuo a seguire l’allestimento del campo, bisognerà pur fare funzionare le cucine. – La ragazza prese la chiave e don Rocco aggiunse: - è la prima stanza a destra entrando dal grande portone, attaccato alla maniglia troverai il mio cappellino, non puoi sbagliare. – La ragazza chiese scusa alle colleghe, ringraziò il giovane prete e si avviò per un viottolo alla grande casa che era di li a poco. Aprì la porta, depose il cappellino su una sedia, tolse un borsone dal letto e si sdraiò. Quel tetto di tavole e travi le fece tornare alla mente la vecchia stalla, sotto il “ponte”, dove suo padre rinchiudeva al tramonto il suo gregge. Anche là i ragni tessevano insidiose tele e i tarli rodevano, lasciando cadere i loro escrementi. Le tornò alla mente il fratello, introverso, taciturno, abbrutito dalla fatica, lontano mille miglia dalla realtà, costretto ad una vita di sacrifici e di solitudine come il padre. Si girò di fianco e fissò il davanzale dell’unica finestra, una calendula selvatica aveva trovato in un angolo il suo habitat naturale ed aveva partorito l’unico fiore con i petali di colore arancio. Alcune paglie stavano attaccate ad uno stipite, forse, la cinciallegra costruiva il suo nido. Il sonno la ghermì per una buona mezz’ora, poi, nel sonnoveglia si rimise a mirare il tetto da dove penzolava un vecchio filo intrecciato, coperto da miriadi di escrementi di mosche, al quale era attaccata una lampada annerita dal tempo. Stridettero i cardini della vecchia porta che Giulia non aveva chiuso a chiave, due o tre passi felpati, era don Rocco che si fermò a guardarla. La ragazza si meravigliò di quella presenza, scese le gambe dal letto, rimanendo seduta, e chiese con grande imbarazzo della presenza di lui: - Ho dormito forse troppo? – No – rispose il prete – forse, non sarei dovuto entrare, ti chiedo scusa, è stato più forte di me. – Le sue gote divennero paonazze e la sua voce tremò un poco. La ragazza lo guardò fisso e gli chiese: - Sei entrato forse per essere addomesticato. - Don Rocco, incoraggiato da quella frase, rispose a tono: - Vuoi che io sia il principe e tu la volpe? – La ragazza sorrise e capì che anche il giovane prete conosceva il suo libro più caro, lo fissò e le prese per un attimo la voglia di capire se le attenzioni di quell’uomo fossero solo per lei e non per tutte le altre ragazze e prontamente rispose: - L’uno può addomesticare l’altro e viceversa, scegli tu il ruolo.- Rocco sedette accanto a lei sul letto, la cinse con un braccio, la trasse dolcemente a se, poggiò le sue labbra su quelle di lei e fu un lungo bacio pieno di grande passione. Giulia rimase ad occhi chiusi e ciò consentì che si susseguissero una serie interminabile di baci. La ragazza guardò l’orologio e ciò indusse Rocco ad alzarsi, farle una carezza ed uscire speditamente dalla stanza. Seduta ancora sul letto, la ragazza meditò ancora per un po’, quell’uomo le stava entrando nel sangue, senza pensare minimamente ai vincoli che lo legavano al suo ministero. Sistemò la sua maglietta, ravviò i capelli, si portò due dita alle labbra e poi le annusò, tentando di ricordare il profumo delle labbra di lui.
Fuori, nel bosco, Rocco si diede da fare tra le tende e tra le due cucine da campo, ogni tanto si girava a guardare il sentiero per scrutare se Giulia arrivasse. Il giovane prete sembrava preso da frenesia, passava di tenda in tenda, controllava che tutto andava per il meglio, ma la sua testa era altrove, il richiamo di quella donna era tanto forte, la sua semplicità l’aveva stregato, aveva voglia di addomesticarla come il piccolo principe e di essere addomesticato come la volpe.
Si fece ora di cena, i fornelli erano accesi e il profumo di una buona minestra invadeva il bosco. I giovani, in fila indiana, prelevavano le razioni, Giulia guidava la propria squadra e, quando tutti furono serviti, Rocco riservò accanto a se, a tavola, un posto per la ragazza. Fu un dialogo che si protrasse a lungo, Rocco volle sapere tutto di lei, ogni particolare, sui suoi studi, sulle sue letture, sulla sua famiglia, sulle sue esperienze sentimentali, e lei rispose a tutto, senza togliere una virgola alla verità, senza celare nulla, senza commentare, come davanti ad un inquisitore. Lei non chiese nulla oltre a notizie sulla famiglia di lui. Rocco le parlò di sua madre, del suo rapporto morboso ma al tempo stesso condizionante con lei, delle libertà  e delle privazioni, dell’amore-odio che aveva condizionato le sue scelte. Il volto di Rocco, rabbuiato per quanto aveva confessato alla ragazza, trovò un sorriso quando si staccò da essa per andare nel suo alloggio a prelevare un indumento pesante per la sera.
Il sole tramontò e calarono le ombre sul bosco, vennero accesi i fuochi e i gruppi si prepararono ai canti, accordando i loro strumenti musicali. Le cicale iniziarono il loro frinire, i grilli ritmarono i fruscii degli alberi e le rane nel pantano intrecciarono, gracidando, i loro canti d’amore. Giulia era appoggiata ad un grosso castagno, godeva della frescura della sera, quando Rocco le si avvicinò – Cosa guardi così intensamente? – La ragazza si girò verso di lui e rispose: - Tutto e nulla, pensavo alle mutazioni dell’uomo, si, basta un nulla per cambiarti la vita, in bene o in male, basta un attimo a farti compiere una metamorfosi che può portarti agli antipodi di quanto hai sempre sognato... – si zittì e guardò il cielo. Rocco la prese teneramente per un braccio – Vieni – le disse – facciamo una passeggiata per il bosco. – I due giovani si incamminarono verso lo stagno e sedettero sull’erba. In maniera discreta, le stelle iniziarono a brillare in un cielo, dove una quasi impercettibile falce di luna sembrava ballare sulle foglie tremolanti di un noce.
Non proferirono più parole, solo una serie interminabile di baci fino a quando il freddo, la stanchezza ed il sonno non si fecero sentire. Giulia chiese di andare a riposare e Rocco l’accompagnò fino alla tenda e ascoltò quanto gli disse: - Tutto quello che tra noi sta succedendo è meraviglioso, ma mi convinco che per te è solo una parentesi, dettata da chissà che, forse una crisi spirituale, forse una voglia di trasgressione dai canoni ferrei della tua scelta di vita, starò a capire, cercando di non farmi illusioni. – Stette un attimo zitta e poi continuò: - Le mie titubanze, le mie riflessioni, i miei rigori morali, non sono riusciti a farmi desistere dalla voglia di stare con te, di vivere questa nostra storia... – Rocco stava per parlare ma lei, dolcemente, le pose un dito sulle labbra: - Non dire nulla, potresti spezzare il dolce incantesimo di cui siamo prigionieri, la notte porterà consiglio, addormentati con questo soave ricordo. – Rocco la guardò negli occhi, dove si specchiavano i fuochi del campo, carezzò il suo viso e le disse: - Buonanotte volpe, ti sto addomesticando, imparerai ad amare il rumore del vento che attraversa il grano, imparerai a conoscere i miei passi e non avrai più paura, non ti nasconderai, buona notte volpe! – e andò via verso il vecchio casale.
Gli incontri si susseguirono agli incontri e, ogni giorno, crebbe il desiderio di stare più vicini. Bisognava fare tutto di nascosto, trovare scuse, procurare bisogni per allontanarsi, per consentire di garantire, quantomeno a lui, di salvare le apparenze. Tutto andò bene, nessuno sospettò di nulla, ai canti ed ai balli parteciparono assieme incoraggiando le partecipazioni di tutti gli altri.
All’ultimo giorno del grande raduno cominciò la tristezza. Giulia si appartò nella sua tenda, fuori cominciavano a calare le ombre, i fuochi si riaccendevano e la radura sembrava una grande piazza illuminata. La ragazza sortì dalla sua tenda e si recò al centro, tra i fuochi. Aveva indossato la sua ‘ncilona, il suo abito più bello. Da tanto tempo non lo indossava; di colore rosso, stracarico di ricami in oro luccicava alla luce dei fuochi, e luccicava la sua croce battipetto che adornava e rendeva più bello il suo decolleté mettendo in risalto ancora di più le sue grazie. Rocco la vide e rimase perplesso, abbagliato da tanta bellezza, quella dell’abito e quella soverchiante di Giulia. L’aveva indossato per lui e per nessun altro e questo il giovane prete l’aveva capito. Rocco doveva ripartire, stava per preparare il suo borsone, Giulia varcò l’uscio della sua stanza. Rocco trovò le parole e sommessamente le disse: - Mi dispiace partire, il tempo è volato – la ragazza stava per aprire bocca ma lui non le diede il tempo – Chiedimi di lasciare l’associazione dei naturalisti, chiedimi di lasciare la chiesa, il sacerdozio, le mie scelte di vita... in me si è aperto un grande conflitto, ma voglio anche te... chiedi volpe!.. ti prego, chiedi! – Giulia non disse una parola, lo abbracciò e lo baciò, Rocco la strinse a se e pianse. Davanti alla palazzina di caccia al borgo di Ficuzza, al commiato, Giulia e Rocco non si curarono della presenza degli altri, si baciarono sulle guance e si abbracciarono, nei due c’era la consapevolezza di doversi rincontrare. La ragazza si accostò all’orecchio di lui e gli sussurrò: - tutte le volte che vedrò un campo di grano, il biondo delle sue spighe, mi ricorderà te...]


Spero di avervi regalato un attimo  di emozioni, buona lettura.





giovedì 6 settembre 2012

BRICIOLE DI SICILIA ... IN VERSI ... L'AMORE E' UNA FOLLIA !!!

















L'amore è certamente una forma grave di follia, però riesce a far relazionare entità che altrimenti rimarrebbero reciprocamente illustri estranei. Lei è la Sicilia, lui è un uomo, un sognatore, una macchina da presa capace di cogliere gli angoli più suggestivi di questa terra, contemplarli e farne tesori. "La storia d'amore è il tributo che l'innamorato deve pagare al mondo per riconciliarsi con esso", così recita in un libro Roland Barthes e ritiene altresì che essa storia è come il ridimensionamento dell'alluvione di immagini che fino a poco tempo prima ha sommerso una persona, che così trasforma l'amore in una crisi dolorosa, morbosa, di cui bisogna guarire.
Non basterebbe una vita per cantare i luoghi di una terra meravigliosa, le sue città, la sua statuaria, le sue piazze, i suoi monumenti, il suo mare, le sue montagne, i suoi vulcani, i suoi mercati e quant'altro.
Proverò a descriverne qualcuno di questi elementi, di questi momenti di vita, di queste pennellate della natura.






MADONIE

Profumi antichi e antichi suoni
tra larici alti e vecchie querce
fragranze di enormi boleti
essenze delicate di muschi.
L'acqua che sgorga nei rivi
leviga miriadi di sassi
e piega minuscoli giunchi.
Tra le radici tantissimi grugni
che scavano nella mota.
Un picchio batte forte su un ramo,
scoiattoli dalle code di seta
accatastano ghiande in un tronco forato,
una donnola dalle eleganti movenze
saltella davanti a un coniglio,
mentre un fiore di cardo
si spoglia al soffiar di una brezza.
Macaoni variopinti volteggiano in aria
come minuscoli aquiloni.
I raggi del sole attraversano
nubi di particelle d'acqua
provocate da una cascatella
e vengono fuori arcobaleni.
Attorno ad un ceppo seduti
uno stuolo di bimbi incantati,
tra loro, un vecchio racconta
le storie animate del bosco.








SALINA GRANDE    (Omaggio a Trapani)

Montagne di bianco sale,
una dopo l’altra, coperte
da vecchie tegole d’argilla
e specchi d’acqua cheta
che segnano sul terreno
enormi figure geometriche
marcate da mille colori,
ora blu, ora verde chiaro
e, quando il sole cocente
la evapora, si tingono di rosa.
I salinari son là, solerti,
a piedi nudi a spalare e a farne
enormi montagne bianche.
Si sente il cigolio degli assi
che smuovono le macine
al soffio costante del vento
 che sovrano fa girare
le pale dei vecchi mulini
dalle cupole rosso mattone.
 Gole piene d’arsura,
chiamano i portatori d’acqua
e si dissetano alle brocche
aspettando il tramonto
che tinge di rosso i bacini
per poter ritrovare il sonno.






LO SCOGLIO UBRIACO

Antiche genti hanno lasciato
a te, città baciata dal mare,
il Duomo normanno
col Cristo Pantocratore.
Il sole non tramonta mai e
tu abbracci il piccolo golfo
come s’abbraccia l’amata.
Strette viuzze tessono ricami
e vecchi palazzi, testimoniano
origini nobili e antiche.
Mille barche nell’acqua,
tremolanti e fioche lampare,
uomini lesti a tirar le reti
e sulla riva, piccole luci
avvolte da nasse di vimini.
Non manca mai gente a Cefalù,
 i locali son sempre gremiti,
dove si esibiscono orchestrine
e l’aria profuma di frutti di mare.
Il vetusto lavatoio, con antiche pietre
levigate dallo strusciar dei panni,
imperterrito, versa acqua cristallina
e masse di conchiglie d’ogni specie
adornano lucide bacheche.
Sulla spiaggia, il venditor di palloncini
incanta i fanciulli e rimane incantato,
puntando lo sguardo
ad uno scoglio ubriaco
che sembra muoversi lento,
trasportato dalla risacca.







POLITEAMA

Dopo ventisei anni di lavori
è arrivato Verdi con l’Otello,
e quella sera dell’inaugurazione
sul palco reale, in pompa magna,
sedettero Umberto e Margherita
e l’aristocrazia palermitana
gli riservò la meglio accoglienza.
Quando fu pensato, servir doveva
a manifestazioni equestri,
opere comiche, feste e veglioni,
ma la Palermo serenissima
lo volle solo tempio della lirica.
La grande sala a ferro di cavallo,
due ordini di palchi e di loggioni
più di trecento fiammelle alimentate
dal gas che serviva pei lampioni.
Bello il Politeama, con le volte
affrescate di fregi e cavalieri,
sul frontone una quadriga bronzea
e molto colorato, dentro e fuori.




PALERMU

Li strati, balati di marmaru,
ogni finestra, un'occhiu chiusu.
Li Garraffi chiancinu lacrimi amari
e parinu tanti matri addulurati...
Dunn'è la campagna virdi,
la zaghera di la Conca d'Oru?...
Li ciureri puzzanu sulu d'aprocchiu e,
tra li timpuna vagnati di sangu,
crisci l'alastra cu li so spini.
Li nutrichi nun mancianu cchiù,
sucanu minni di pecura spurpata,
mentri m'avvinci la stizza,
iardinu di puisia com'eri,
rivugghiu di li me pinzeri!... 



Spero di aver descritto alcuni luoghi suggestivi di una Sicilia tutta da scoprire, qualora non vi avessi dato emozioni, vi chiedo venia.