domenica 11 dicembre 2016

IL FRATE DELLA KUMETA - Racconto di Natale - 11.dicembre. 2016





















Tratto da IL FAVOLIERE Cucù e le sue storie - ediz. ila palma
di Sara Riolo e Mario Scamardo









IL FRATE DELLA KUMETA




     L'autunno ingialliva le foglie e il vento le trasportava per ogni dove. Sulla vetta del monte Kumeta, l'eremita frate Anselmo, si affrettava ad accatastare dentro la sua grotta quanta più legna poteva. L'inverno era prematuro e rigido, spesso la neve ghiacciava e l'anfratto,dove era sistemato il monaco, per porta aveva solo un telaio di vecchie assi, ricoperto di canne intrecciate coi giunchi che crescevano lungo il torrentello che scorreva a valle.
     Gli unici compagni dell'eremita erano due capre e un cane da pastore che lo seguiva ormai da tempo. Frate Anselmo da circa vent'anni non scendeva dalla montagna, ma la gente lo andava a trovare sovente, soprattutto in compagnia dei bambini, e parlava con lui, si confidava, chiedeva consigli e preghiere, distogliendolo dal suo meditare, e gli portava in dono alimenti, frutti della terra e capi di vestiario. Quando era prossimo il Natale, la grotta si riempiva di doni che il frate destinava agli orfanelli che venivano ospitati nel convento di Muffoletto ad opera di alcuni frati questuanti, e che ogni anno, in prossimità della Natività, venivano accompagnati sulla Kumeta per visitare il presepe che il frate allestiva con le figurine ricavate da tronchetti in legno scolpito o in cartapesta e in argilla lasciata cuocere accanto al fuoco.
     Il presepe era suggestivo, la semplicità del frate si coglieva dalla semplicità dei suoi personaggi e dall'amore con cui veniva curato l'allestimento; i fanciulli estasiati ascoltavano la sua parola che li immergeva nell'atmosfera mistica dell'avvento del Salvatore.
     Non ci voleva molto per arrivare in cima, meno di un'ora, andando su per uno stretto sentiero da dove si coglie il panorama stupendo delle valli attorno, e si ha ragione della laboriosità degli abitanti dei luoghi; i campi tutti arati, i vigneti rigogliosi, i giardini stracarichi di frutta e i prati colorati rosso scarlatto dai papaveri.
     Il silenzio avvolgeva la cima della montagna; dentro la grotta regnava un'ordine certosino: un pagliericcio, due pietre affumicate con sopra un vecchio paiolo di rame, un paio di scodelle in metallo, due brocche d'argilla cotta piene dell'acqua che sgorgava appena fuori dall'anfratto, una panca tirata da un vecchio ceppo, e in un angolo un grande Crocefisso in rame con sotto una lucerna ad olio accesa. Su due panche, all'interno, erano sistemati una ventina di volumi; su di essi una Bibbia aperta sul Vangelo di Giovanni e, sopra, un rosario realizzato con i noccioli di olivo. In fondo all'anfratto entrava la luce da un crepaccio, e quando frate Anselmo bruciava la legna per riscaldarsi o per prepararsi una minestra, vi usciva fumo copioso, tanto da far sembrare la cima della Kumeta il cratere di un vulcano.
     L'inverno incalzava rigido, mancava poco al Natale. La neve venne più copiosa a ricoprire la valle. Il sentiero che porta alla grotta fu ricoperto anch'esso, e il frate non potè più uscire all'aperto.
     Era una notte di plenilunio, gli ultimi fiocchi di neve erano planati dolcemente sullo strato formatosi durante il giorno, il vento aveva smesso di soffiare e frate Anselmo, al lume di una stearica, aveva smesso di leggere il breviario, aveva dato uno sguardo alla valle e segnandosi, si era disteso sul pagliericcio, mentre si consumavano gli ultimi ceppi tra le due pietre affumicate.
     Un sonno profondo lo colse e sognò di scendere giù per il costone, portando con se un pò di provviste e una brocca colma di latte di capra, fino al santuario arroccato sul fianco del monte Jato. Il monte nell'antichità si chiamava monte San Cosmano, proprio per la presenza del romitaggio dedicato ai due dottori della chiesa, i santi Cosma e Damiano. Giunto sul posto, poggiò sulla soglia della chiesetta la brocca col latte e le provviste, ed entrò.
     La cappella era tutta illuminata. I ceri brillavano e si coglieva un'intenso profumo d'incenso. Frate Anselmo si girò attorno per scrutare se ci fosse qualcuno, ma oltre all'icona raffigurante l'Annunciazione della Vergine ed il grande Cristo deposto in cartapesta, non c'era anima viva. Sentì solamente un canto soave di fanciulli. Qualcuno dunque doveva esserci, non era possibile che la cappella fosse deserta. Che ne era stato dei frati? E tutti quei ceri da chi erano stati accesi? Si inginocchiò davanti all'altare e si mise a pregare, pregò tanto intensamente da non avvertire più il crepitio dei ceri accesi, e non sentì più il canto, si segnò alzandosi, ma quando fu sull'uscio, notò un uomo disteso a terra che si contorceva dal dolore, e sanguinava dalle mani. Andò verso di lui ma non riuscì a raggiungerlo, più gli andava incontro e più l'uomo era lontano. Tornò mesto sulla soglia della piccola chiesa per ripigliare la brocca col latte ed il suo tascapane con le provviste, ma li trovò vuoti. Qualcuno aveva preso il contenuto, forse l'uomo ferito del sagrato, o chissà chi, ma frate Anselmo ne fu contento, sorrise e si destò dal sonno. Una delle sue caprette lo aveva svegliato strofinandogli la barba sul viso.
     I primi raggi di un sole fioco entrarono nell'anfratto e il monaco, scoscate le coperte, si alzò, tirò a se il vecchio telaio ricoperto di canne intrecciate e ringraziò Iddio per avergli concesso di vedere un nuovo giorno. Fuori era freddo e bisognava accendere il fuoco, mungere le capre, dar da mangiare al cane e sistemare sulla volta della grotta qualche canna che portasse all'esterno le gocce d'acqua che si infiltravano.
     Frate Anselmo si diede un gran da fare per realizzare il suo programma giornaliero, ma ogni tanto si fermava e rifletteva sul suo sogno fantasioso, poi si affacciò e guardò in direzione del santuario dei santi Cosma e Damiano. Non si muoveva anima viva, la coltre bianca aveva ricoperto tutto e il silenzio che vi imperava era turbato soltanto da qualche rapace che sulla neve rastrellava la sua colazione: un topolino, un coniglietto, un fringuello infreddolito, una bacca. Dio era così grande che provvedeva anche ai rapaci stanziati sul monte Kumeta. Il frate godeva di quest'ordine perfetto e ringraziava il Creatore anche per loro.
     Era già dicembre inoltrato, pochissima gente era andata a trovarlo con la neve; e l'inverno vicino sarebbe stato ancora più rigido. Forse i suoi orfanelli non avrebbero ricevuto alcun dono a Natale... La neve aveva forse impedito anche alla Provvidenza di scalare il monte, o forse si era dimenticata di chi aveva bisogno di un'atto d'amore. Corrugò la fronte, chinò il capo ed ebbe rimorso per quel suo dubbio da peccatore. Si segnò tre volte, davanti al grande Crocefisso in rame lucido, là, attaccato alla parete, che sembrava soffrire ancor di più per il suo dubbio. Poi il frate tirò fuori le figurine del presepe, con cura le lisciò ad una ad una e le pose sulle panche in attesa di sistemarle in maniera dovuta, quindi, sedutosi accanto al fuoco, allungò la mano, prese un libro dalla panca accanto e si immerse nella lettura. Il vecchio cane da pastore sdraiato ai piedi del pagliericcio, drizzò le orecchie, si mosse e sortì fuori. Sembrava irrequieto, come attratto da qualcosa, discese lungo il sentiero in direzione del romitaggio, e quando fu sul primo pianoro si fermò e si mise ad abbaiare.
     Frate Ansemo ripose il libro, si affacciò ma non vide anima viva, mentre il cane continuava ad abbaiare. Pensò che la presenza di un coniglio ne avesse destato l'istinto e lo chiamò ripetute volte, ma senza esito alcuno. Rientrato nella grotta si coprì col mantello sdrucito, infilò i piedi in un vecchio paio di scarpe e discese per il sentiero. A un certo punto sentì un lamento e accelerò il passo. Avvolto da un cencio un pellegrino stava disteso e si lamentava. Ai piedi aveva sandali. Frate Anselmo si chinò su di lui, si tolse il mantello e lo coprì, poi cercò di scaldargli le mani e lo sollevò da terra. Lo caricò sulle spalle e trovò la forza per arrivare alla grotta. Quando fu dentro, adagiò sul pagliericcio l'uomo, ravvivò il fuoco e lo ristorò.
     Passarono i giorni. Era la settimana prima di Natale, e mentre il frate sistemava le figurine del presepe, il pellegrino, che era stato zitto fino allora, gli parlò: << Non mi avete chiesto perchè mi trovo su questa montagna.>> Il frate non rispose e l'uomo lo incalzò: << Notti fa, io ho bevuto il vostro latte e mangiato le vostre provviste sul sagrato del romitaggio di san Cosma e Damiano, dopo mi avete salvato, ospitato e curato, e non avete chiesto chi sono.>>
     Il frate guardò l'uomo, mentre adagiava il Bambinello nel presepe, e disse: << Tu sei mio fratello, ed io ho ricevuto da Dio Padre la grazia di poterti amare nel Suo Nome.>>
     Frate Anselmo aggiunse legna al fuoco, rabboccò il paiolo d'acqua, prese le due brocche d'argilla e uscì per riempirle alla sorgente. Dalla valle uno stuolo di fanciulli, gli orfanelli del convento di Muffoletto, si accingeva a risalire il monte per visitare il presepe, si sentiva il loro canto soave che gli ricordava il suo sogno, la stessa musica, le stesse parole, lo stesso salmodiare, ed un momento prima le parole dell'uomo: <<Notti fa, io ho bevuto il vostro latte e mangiato le vostre provviste sul sagrato del romitaggio di san Cosma e Damiano.>>
     Un dubbio atroce tormentò il frate, gli fece paura, forse non aveva per nulla sognato... La sua mente fu turbata. Cosa gli stava succedendo? Si riebbe dopo un attimo e, come sempre, si segnò, si apprestò a riempire le brocche d'acqua, attese la lenta ascesa dei fanciulli e godette della soavità del loro canto, seduto su un sasso. Cosa donare ai ragazzi? Anche le ultime castagne che aveva raccattato quà e là nel boschetto, le aveva aggiunte alla minestra del giorno prima; si interrogò a lungo il frate, guardò le sue mai, erano vuote, e lo colse la tristezza: dai suoi occhi sortirono due lacrimoni. Assorto nei pensieri si stropicciò gli occhi e poggiò il mento sulla mano. Un sassolino rotolato dalla cima lo colpì sulla spalla, si girò, alzò lo sguardo e vide l'uomo che aveva ospitato in cima al monte che lo salutava agitando la mano, il frate si alzò in piedi e capì che l'ospite andava via per sempre, alzò anch'egli la mano e lo salutò: << Dio ti benedica fratello.>> 
     Gli orfanelli avevano raggiunto la sommità e frate Anselmo aperse le braccia come a volerli stringere tutti al suo petto, entrò nella grotta e ai piedi del presepe trovò, con suo grande stupore, tanti doni quanti erano gli orfanelli, ognuno portava una scritta: << Dal vostro fratello Anselmo.>>  Il monaco alzò gli occhi al grande Crocefisso di rame lucido, cadde in ginocchio, si segnò ed esclamò: << Sei venuto a trovarmi e non ti ho riconosciuto, ma ti amo.>> Un raggio di sole attraversò l'anfratto e si posò sul presepe. Il frate capì che l'Uomo della Croce era ancora con lui, in mezzo ai fanciulli.
   

Buon Natale a voi e ai vostri bambini !


 Se vi va, lasciate un commento!

sabato 19 novembre 2016

IL TESORO E LA CHIAVE DI VOLTA - Racconto breve - 19.novembre.2016






 






I Racconti del Borgo
  
Mario Scamardo


Il tesoro e la chiave di Volta





Quando ai primi del ‘900 i feudi potevano essere spezzettati, non ereditava più soltanto il primogenito, ma in egual misura tutti i figli di ambo i sessi. Carlo Maria Guai era figlio unico  e lo erano stati suo padre, suo nonno ed il suo bisnonno che, come lui, portava lo stesso nome. Il titolo di barone se lo erano tramandati di padre in figlio, e con il titolo anche il feudo di Pietraforata e Palazzo Guai-Carbone in cima al Cassaro, proprio di fronte all’abbazia benedettina. Guai, un nome antipatico, anche se Carlo Maria era una persona amabile, generosa e sempre sorridente e, quando c’era bisogno di presentarsi, ironizzava sul suo casato proprio per quel nome. Immergendosi nella lettura degli atti notarili della sua famiglia, scoprì che il suo trisavolo in realtà si chiamava Guadi e che nel trascrivere in bella copia, il notaio aveva dimenticato la lettera (d), ma in fondo all’atto col quale gli si trasferiva il feudo, Carlo Maria, cercando il nome dell’avo, notò una bella croce al posto della firma e la notazione : “Il sottoscritto  non sottoscrive perché nobile”. Stranezze? E chi lo sa! I nobili non firmavano perché erano nobili o perché erano del tutto analfabeti? Carlo Maria non lo seppe mai! Suo padre lo aveva fatto addottrinare da un aio molto colto che era stato per tanto tempo Abate proprio al convento dei benedettini.
       Il giovane barone Guai perse i genitori molto presto a causa di una pandemia che decimò la città; quando compì ventotto anni sposò Veronica Grifo, cinque anni più giovane di lui, nobildonna trapanese dei marchesi di Zubbio. Veronica era una donna bellissima, abituata agli agi, corteggiata da tutta la nobiltà isolana, vanitosa e sempre elegante. Amava viaggiare la marchesa e non disdegnava il lusso. Carlo Maria nei primi dieci anni di matrimonio delapidò buona parte del patrimonio di famiglia e, quando si rese conto che, del feudo di Pietraforata erano rimasti solo una cinquantina di ettari dei trecento iniziali, si diede una calmata, eliminò parte del personale, vendette le tre carrozze e lasciò soltanto un calesse, un cavallo e lo stalliere che si occupava pure di andare a fare la spesa e i piccoli servigi. A rigovernare la casa, fare le pulizie e cucinare rimasero l’anziana Rosalia e sua figlia nubile Concettina. Poi invitò un maestro muratore che fosse in grado di ottenere da tutto il piano terra del palazzo, una serie di locali da affittare ai bottegai e ai commercianti, al fine di trarne mensilmente delle cifre che gli consentissero di vivere di un minimo di rendita.
       A lavori ultimati, tutt’attorno al piano terra di Palazzo Guai-Carbone si contarono dodici grandi usci oltre al vecchio androne sormontato dallo stemma di famiglia, scudo con leoni rampanti sormontato da corona baronale. Presto i commercianti della città vollero accaparrarsi dei locali ben rifiniti e Carlo Maria stipulò dodici contratti che gli permisero di incassare mensilmente più di quanto l’intero feudo non avrebbe potuto dargli, proprio una fortuna! Veronica Grifo ebbe un’idea geniale, considerato che il palazzo era situato in cima al Cassaro , grande arteria, piena di negozi e di botteghe artigiane di pregio; considerato altresì che era situato in una piazza e che di fronte c’era l’abbazia con la cappella sempre aperta al pubblico, pensò di destinare il salone delle feste, la biblioteca e le sale attigue a mostra permanente per gli artisti isolani che volessero esporre le loro opere, sempre dietro il pagamento di una cifra stabilita per numero di opere e per numero di giorni. Fu l’architetto Galvani che sistemò i saloni e fece si che una lunga serie di specchi, sistemati secondo una logica fisica, riflettessero, centuplicandola, la luce delle lampade a gas e delle mille candele di cera, ed illuminassero costantemente le opere esposte. Un lungo lavoro,  la scelta e la collocazione degli specchi, ma anche la scelta e la realizzazione delle cornici che dovevano essere in armonia con quanto in quei saloni vi si trovava. Galvani era un perfezionista, la marchesa Veronica era tanto esigente, ma alla fine, quella idea geniale trasformò il piano nobile del palazzo in una pinacoteca dove artisti ed opere cambiavano ogni trenta giorni. Per gli artisti dell’isola, esporre a Palazzo Guai-Carbone  divenne quasi un punto d’arrivo delle loro carriere. I nobili della città ebbero sempre parole di elogio per Veronica Grifo, la marchesa che aveva saputo riportare quel palazzo agli antichi splendori.


       Carlo Maria, non potendo più disporre della biblioteca, che ospitava in un angolo il suo studio, allestì in soffitta un angolino illuminato da tre abbaini e da un enorme lampione a gas. Passava lì le sue giornate, a leggere vecchi documenti, vecchie carte e a scrivere quella che era la storia, per la verità  abbastanza  fantastica, della sua famiglia. 
       Erano passati tredici anni dal suo matrimonio, il buon Dio non gli aveva dato figli. Quando gli amici lo venivano a trovare con i loro fanciulli, Carlo Maria se li metteva in braccio e come se fossero figli suoi, li stringeva a se, giocava con loro, dialogava cercando di cogliere il meglio da ciò che accadeva e che sentiva. Il pomeriggio del quindici di aprile, in quel giorno si era sposato tredici anni prima, Veronica salì in soffitta, guardò il foglio su cui scriveva il marito, poi lo abbracciò da dietro le spalle, lo strinse fortemente e lo baciò sui capelli:
- Carlo, ho urgente bisogno di dirti una cosa importante.
L’uomo sollevò la testa dal foglio, si girò e fece per alzarsi, poi:

- Cara, cosa vuoi dirmi…

- Una cosa davvero importante, prova ad indovinare…

- Un viaggio?

Veronica lo abbracciò, lo baciò e sedette sulle sue ginocchia:
- Carlo, aspetto un bambino…

Carlo non proferì parola, ma i suoi occhi si riempirono di lacrime, poggiò la testa sul seno della moglie e sommessamente sussurrò:

- Un bambino
 -Si, nostro figlio…

I due furono pervasi da una gioia che non si può descrivere, si presero per mano e pian pianino scesero al piano inferiore.
Le soluzioni che avevano trovato, sfruttando il palazzo, andavano come previsto e Carlo Maria e Veronica si permisero nuovamente dei lussi. Essendo la loro casa frequentata da pittori, scultori, ceramisti, orafi, comunque da artisti, era frequentata anche da visitatori, e quel palazzo trasformato in parte in galleria, portò così tanta gente che anche i negozianti del piano terra ne ebbero grandi vantaggi e, la piazza in cima al Cassaro diventò un salotto, tanto da beneficiarne pure i benedettini che aprirono accanto alla cappella un negozio di oggetti sacri, di paramenti e di ex voto in argento di tutte le fogge.

Carlo Maria non aveva mai amato né le banche né i banchieri, il denaro liquido che aveva posseduto, per la verità sempre poco, lo aveva tenuto nei cassetti della sua scrivania, mentre i gioielli di sua madre erano deposti accuratamente in un forziere nella sua camera da letto. Veronica teneva i suoi gioielli, che s’era portata da Trapani dopo il suo matrimonio, in un cassetto del comò. Tutto troppo poco ben custodito, occorreva ricorrere alla banca o munirsi di una cassaforte adeguata e, i due coniugi ne parlarono.

       Veronica, nel pieno dei suoi trentasei anni, era arrivata al sesto mese di gravidanza, non bastavano più Concettina e Rosalia, ancor prima che nascesse il bambino occorreva assumere una donna che si occupasse di lei e fungesse da balia per il nascituro. Concettina si adoperò di trovare Lucia, badante tuttofare, balia compresa.

La soffitta di Palazzo Guai – Carbone era immensa,  cinque locali grandissimi, uno di seguito all’altro, ripieni di vecchio mobilio, di suppellettili vari e di una serie interminabile di casse piene di vecchi abiti, di cristallerie accuratamente avvolte in drappi di panno e di soprammobili di tutte le fogge. Avevano un valore i contenuti delle casse? Qualunque fosse stato, mai Carlo Maria avrebbe alienato qualcosa, così come avevano fatto suo padre e suo nonno. In fondo all’ultima grande stanza c’era disegnata sul muro la rosa dei venti e, stranamente, il giovane barone non aveva mai fatto caso che, l’asse Nord-Sud della rosa non  rispettava le leggi del filo a piombo, come se chi l’aveva rappresentata, volutamente avesse voluto girare in senso antiorario il Nord e di conseguenza l’intera rosa. Strano, pensò il barone, forse un pittore burlone o uno dei suoi antenati, improvvisato pittore, non aveva tenuto conto di posizionare l’asse Nord-Sud secondo la direzione del filo a piombo. Accennò un sorriso e si mise a cercare dentro alcune casse qualcosa che meritasse di essere riportata all’antico splendore.



 La luce che proveniva dagli abbaini non riusciva ad illuminare ampiamente tutti i vani, allora Carlo Maria, proprio nell’ultima stanza cercò di aprire l’unica finestrella che c’era, ma aimè era una finestra murata all’esterno. Un raggio di luce entrò impetuoso da un minuscolo buco che era stato praticato al centro della falsa finestra, e illuminò proprio il Nord della rosa. Il giovane barone diventò pensieroso, si chiese quale logica avesse praticare un foro alla parete di una finta finestra, per illuminare una rosa dei venti ruotata di circa trenta gradi in senso antiorario. Non trovò spiegazione, richiuse la finestra e tornò giù a fare compagnia a Veronica. Il tempo del lieto evento si faceva sempre più vicino e l’ostetrica che doveva assistere Veronica passava due volte al giorno, aspettando che fosse giunto il tempo del travaglio. La madre di Veronica, la marchesa  Adalgisa, arrivò in carrozza da Trapani con al seguito due sue sorelle nubili, Eloisa e Gesualda, anch’esse marchese di Zubbio; il cocchiere e la carrozza vennero ospitati in un vecchio fabbricato alle spalle del palazzo, nel fondaco Caruselli.

Carlo Maria, la sera che la moglie andò in travaglio, si collocò con una poltrona nella saletta antistante la camera da letto ed attese, tra l’andirivieni delle donne di casa, il primo vagito. Ignazio Gioacchino Guai, barone di Pietraforata, venne alla luce alle otto del mattino del 13 novembre, per otto giorni consecutivi si festeggiò e anche i monaci benedettini dell’Abbazia  di fronte al palazzo, a turno, andarono a congratularsi per il lieto evento.

Il Natale era alle porte, i primi segnali li davano le vetrine dei negozi addobbate con tante stelline di cartone dipinte in oro, anche in chiesa si allestiva il presepe e si intonavano i canti dell’Avvento e le signore si preparavano all’acquisto dei doni. Carlo Maria si ricordò che sua nonna paterna, passata la festa di Ognissanti e la commemorazione dei defunti, dava il via alla realizzazione di un grande presepe con tantissime figurine, pastori, popolane, artigiani, ruscelli e fontanili, e poi la stalla con bue e asinello, Maria, Giuseppe e il bambinello, infine i tre Magi con i loro dromedari. Venuto alla luce Ignazio Gioacchino, allora, bisognava ritornare alla vecchia tradizione del presepe, le cui figurine erano state riposte, tanto tempo addietro, in una delle decine di casse della soffitta.  Andando per esclusione, la cassa che conteneva il presepe era proprio sotto quell’enorme rosa dei venti dipinta sulla parete di fondo dell’ultimo ambiente. Carlo Maria si fermò davanti alla rosa, poi andò ad aprire la falsa finestra e dal buco entrò ancora una volta il raggio luminoso che colpì quel Nord ruotato di 30° in senso antiorario. Ricordando che la giornata era buia, si meravigliò della luminosità del raggio di luce, allora guardò attentamente e scoprì che nel buco era installata una lente capace di intensificare il raggio luminoso. Si avvicinò alla rosa e notò che il Nord indicava una trave, quella più grossa della centina che reggeva l’intero soffitto. Che nesso aveva il Nord della rosa con la trave centrale della centina? Il barone fissò alla sua mente quanto aveva visto, poi individuata la cassa che conteneva le figurine del presepe, chiamò l’ex stalliere e se la fece trascinare accanto al suo studio e con calma cominciò a realizzare il presepe. Quando dopo due giorni lo ebbe finito, lo mostrò a sua moglie, alla suocera, alle di lei sorelle e al personale tutto, contento di essere tornato indietro di almeno vent’anni.

Sedutosi alla scrivania Carlo Maria  disegnò su un foglio la rosa, il Nord non puntava su Tramontana, ma su Maestrale,  perché indicava la trave centrale della centina, quella maestra? Socchiuse gli occhi per un poco, poi, come se fosse stato illuminato da qualcosa, esclamo: - ma si,  la chiave di Volta! In quel soffitto ce ne stavano tre, piccole, quelle in cima alle finestrelle degli abbaini! Il giovane barone si munì di una scala e, nell’ordine, provò a togliere la chiave di Volta dalle finestrelle degli abbaini, la prima era fissata con la malta e sosteneva il piccolo arco, la seconda era identica, la terza era fittizia , appena tirata fuori fece intravedere un piccolo rotolo in pelle di agnello. Una pelle di agnello arrotolata , in cima ad un abbaino, celata da una finta chiave di volta! Carlo Maria ebbe un attimo di smarrimento, scese lentamente dalla scala, si pose sotto il primo abbaino, dove entrava tanta luce, ma esitò a srotolare la pelle. Cosa poteva essere se non una mappa o una indicazione da “caccia al tesoro”? Quale dei suoi avi era stato tanto burlone da tramandare qualcosa per enigmi? Tirò un lungo sospiro e srotolò la pelle.  La mappa del feudo di Pietraforata!  In un angolo c’erano rappresentati tre grossi sassi tondeggianti e una piccola polla d’acqua che alimentava un ruscello. Il ponticello sotto cui il ruscello passava serviva un sentiero che conduceva in un piccolo casolare contrassegnato dalla lettera (N) e da una piccola àncora, a destra del casolare un pozzo, contrassegnato con la lettera (M). Perché un disegno così misterioso su una vecchia pelle di agnello, cosa voleva indicare?... e quell’àncora? Carlo Maria mise al sicuro la sua mappa in un cassetto e si ripropose di studiarla con calma, dopo avere smaltito le emozioni, e di verificarla con attenzione recandosi da solo sui luoghi indicati.
Indeciso se parlarne con la moglie, si abbandonò alle moine e ai primi sorrisi di suo figlio, come se nulla fosse successo. La sera dopo cena, diede ordini al suo stalliere di preparargli il calesse per il mattino seguente poi, assieme a sua moglie, si recò per i saloni ad ammirare la personale  del noto pittore-scultore alcamese Alessandro Paparropolo.
       La notte il barone si svegliò, in punta di piedi si recò in soffitta, accese il grande lampione e srotolò sul tavolo la pelle d’agnello, la orientò e trasferì su un foglio di carta pergamena quanto contenuto in quella mappa, con una precisione certosina. Chiuso il cassetto dove depose accuratamente il rotolo di pelle, cercò di fare il punto su quella mappa e annotò su un foglio di carta tutto quello che in termini di ricordi gli passava per la mente. Quando il sole fu alto nel cielo, montò sul calesse e si avviò in direzione del feudo di Pietraforata.  Quel luogo che era stato della sua famiglia per due o tre secoli, lo conosceva in ogni sua parte, e quanto rappresentato in mappa era proprio in quei cinquanta ettari che non aveva alienato.  Smontò dal calesse Carlo Maria, aprì il foglio di pergamena e inquadrò i luoghi, pensò alla rosa dei venti della soffitta e capì che il pozzo contrassegnato dalla M era in realtà il Nord, la direzione del Maestrale e il casolare contrassegnato dalla lettera N segnava i 30° in senso antiorario, tra M ed N la piccola ancora. Il barone lasciò il calesse dove finiva la strada,  dove c’erano i tre grossi sassi tondeggianti e dove c’era la piccola sorgente, seguì il ruscello e arrivò al ponte, lo attraversò e seguì il sentiero fino al casolare, poi, in direzione del pozzo, ma quando fece trenta passi in quella direzione notò che  nel muretto a secco di pietre tutte bianche, si notavano le uniche pietre di colore scuro, incastrate tra le altre proprio a forma di ancora. C’era cresciuto a Pietraforata, conosceva quel muretto a secco che evitava di far passare le pecore in un’area dove c’era il pozzo per l’acqua potabile, ma mai aveva fatto caso al colore delle pietre! Cosa fare adesso? Scavalcò il muro, ma dall’altra parte le pietre risultavano tutte bianche. Preso un lungo bastone, provò a batterlo verticalmente lungo il muro, quando batté davanti all’ancora il suono diventò cupo. Guardingo si girò attorno e, come se nulla fosse accaduto, si recò al pozzo e, come faceva da ragazzo, guardò il fondo come se dovesse rivelargli l’arcano.  Bisognava scavare davanti all’ancora e con un bastone raccattato sotto una vecchia quercia, tanto non era possibile. Ritornò a Palazzo Guai-Carbone il barone, salutò sua moglie e suo figlio e ordinò allo stalliere di procurargli un badile, poi tornò in soffitta, rimise la scala sotto il terzo abbaino, vi montò sopra e tirò la falsa chiave di volta, infilò la mano nel piccolo anfratto ma non c’era nulla, oltre alla pelle non conteneva altro.
       Veronica Grifo aveva notato un pizzico di irrequietezza da parte del marito, aveva notato che il suo sonno era un po’ disturbato e, con la dolcezza che la contraddistingueva, chiese a Carlo:

- Ho notato in te un pizzico di nervosismo, c’è qualcosa in cui io ti posso aiutare?

Carlo Maria sorrise, si avvicinò, la baciò sulla fronte:

- Veronica devo condividere con te un piccolo segreto…

Quando ebbe finito di raccontarle tutto Veronica, senza dar segno di alcuna frenesia, lo cinse e poggiò la sua testa sul suo petto:

- Non so cosa ci sia nel luogo indicato e, soprattutto, se esiste ancora, ma domattina voglio venire con te, mi hai messo addosso una grande curiosità.

Si amavano Veronica e Carlo Maria, si presero per mano e si recarono al piano nobile per il pranzo. Nel pomeriggio, mentre il barone rivedeva alcune antiche carte, Veronica salì in soffitta e sedette davanti la scrivania:

- Carlo, da bambina, mia nonna Laura, soleva raccontarmi, dopo pranzo delle favole, dei piccoli racconti, dei narrati; uno di questi era “La fossa dell’ancora”, narrava di una sirena che stava a guardia, in una fossa del Pacifico, di una grande ancora d’oro con incastonato un grosso rubino. Durante una tempesta si era staccata dalla imbarcazione di una principessa filippina. Da bambina mi affacciavo da un terrazzo e guardavo il mare, all’orizzonte le Egadi, Levanzo, Favignana, Marettimo e, sulle ali della fantasia immaginavo l’imbarcazione che perdeva l’ancora, mentre la sirena stava seduta sull’unico piccolo scoglio a vigilare.



- Mai sentita questa favola, a volte le nostre nonne, con la loro fantasia, per tenerci buoni, se le inventavano e le ripetevano alla bisogna. Domani chiariremo l’arcano, dopo colazione andremo in calesse.
I due si alzarono e Carlo Maria mostrò a Veronica l’anomalia della rosa dei venti, la falsa finestra col raggio di luce, la trave centrale della centina, la chiave di volta falsa sul terzo abbaino.

Il giorno seguente, appena dopo che la grande pendola batté le nove, venne servita la colazione e, indossate due palandrane Veronica e Carlo Maria montarono sul calesse e si avviarono. Carlo fece percorrere a Veronica gli stessi passi del giorno prima quindi, mappa tra le mani  arrivarono al muretto a secco dove le pietre scure disegnavano un’ancora.  Carlo prese la vanga e scavò un fosso all’incirca di 50cm x 50cm e, dopo poche badilate, venne alla luce un bauletto ricoperto con una lamina di piombo. Quando Carlo lo tirò dal suo antico alloggio, si rese conto che di tempo ne era passato tanto dal momento che il bauletto era stato da qualcuno lì collocato. Su suggerimento di Veronica il barone riempì il fosso che s’era creato con alcune pietre e della terra, la donna prese il badile e attese che Carlo, dopo averlo ripulito in modo grossolano, trasportasse il bauletto al calesse. A palazzo, affidato il calesse allo stalliere, i due si rinchiusero in soffitta e si adoperarono per aprire lo scrigno. La serratura cedette molto facilmente e, al centro di un drappo rosso brillò, dopo tanti anni, un grosso rubino incastonato in una piccola ancora d’oro  attaccata ad un collier. Veronica dovette sedersi, la favola di nonna Laura si era trasformata in realtà! Carlo Maria prese tra le mani il monile e, senza indugio lo attaccò al collo di Veronica, tornò al bauletto, sollevò il drappo rosso e scoprì una lastra in madreperla che raffigurava una sirena, il cui volto era identico a quello di Veronica Grifo. Non conteneva altro il piccolo baule, ma ripulito offrì una immagine impressa sulla lamina di piombo, una rosa dei venti col Nord sfalsato di 30° in senso antiorario. Il barone Guai non riuscì mai a capire quale antenato  lo fece soffrire e gioire tanto.



Il giorno seguente Carlo Maria montò su una scala con più gradini, proprio sotto il terzo abbaino, sollevò la falsa chiave di Volta e depose in quel buco tutti i gioielli di famiglia. Quella falsa chiave diventò la cassaforte di Palazzo Guai-Carbone! 


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mercoledì 26 ottobre 2016

LA FATA DELLE GROTTE DI RAITANO - Favola - (Riproposizione) 26. ottobre. 2016






I Racconti del Borgo

MARIO SCAMARDO
 
La fata delle grotte di Raitano

 
Carletto era un bambino di appena dieci anni, aveva completato da poco la scuola elementare e, come tutti i figli dei piccoli pastori, sapeva qual’era  il suo destino fino all’arrivo della cartolina precetto che, l’avrebbe chiamato ad assolvere un dovere verso la patria e, l’avrebbe portato, almeno per un periodo, fuori dalla routine di tutti i giorni, guidare ed accudire al piccolo gregge che il padre gli aveva affidato e che lui portava al pascolo sulle colline intorno a San Cipirello, comune dell’entroterra palermitano, dove abitava.
Tutte le mattine, ancor prima che cantasse il gallo, il ragazzo apriva il recinto e faceva venir fuori le sue pecorelle, attraversava un vecchio tratturo e risaliva le colline in contrada Raitano, arrivando fino in cima, alle grotte. Sulle alture di calcarinite erano stati scavati, in epoche molto remote, alcuni tholos, di forma sferica, nei quali si poteva accedere solo dall’alto, calandosi con corde o scale. Le funzioni dei tholos, chiamate dalle genti del posto “grotte di Raitano”, nel tempo, furono diverse: luoghi di segregazione, contenitori di derrate alimentari, rifugi per malviventi, tombe, e quanto la fantasia dei visitatori ha potuto immaginare. A contrassegnare le bocche d’ingresso alle grotte c’erano piccoli recinti circolari in filo spinato, evitando così che pecore, ma soprattutto agnellini, potessero precipitarvi dentro. Il padre di Carletto lo aveva istruito a dovere e lo aveva ammonito severamente di non affacciarsi ai buchi di accesso. Il ragazzo era ubbidiente e se ne teneva lontano, in quanto, stante la loro forma sferica con un diametro di non meno di dieci metri, uscirne da soli sarebbe stato impossibile.
 Un po’ più in basso un antico fontanile consentiva l’abbeverata e l’opportunità di riempire la borraccia, ma anche di godere dell’ombra di un secolare ulivo, per poter leggere qualche libro che chiedeva in prestito ad un suo amichetto, più fortunato di lui, che frequentava la scuola media. Quando arrivò l’estate, recintata l’area della collina delle grotte, Carletto realizzò, aiutato dal padre, una piccola tettoia in canne e frasche, addossata ad un grosso masso e non portò più le pecore in paese. Il padre, prima dell’imbrunire, gli portava gli alimenti e la biancheria e ritornava ad accudire l’altro gregge che era al pascolo in una contrada un po’ più lontana.
A Carletto piaceva tanto dormire all’addiaccio, si sdraiava accanto alla tettoia e scrutava il cielo, fino a quando non lo coglieva il sonno.
Era un pomeriggio inoltrato, il sole era quasi all’orizzonte, le pecore si erano addossate alle rocce, chiuse il libro che stava sfogliando e lo depose con cura nello zaino. Era un libro di scienze naturali e Carletto aveva finito di leggere un paragrafo sugli insetti che riguardava le lucciole, la loro luminescenza dovuta all’ossidazione dell’enzima luciferasi, il sistema di comunicazione, il loro modo di nutrirsi con polline e nettare, quando un nugolo di questi simpatici coleotteri gli passò davanti agli occhi e si unì con altri nugoli, quasi a formare un grande sciame che si sollevò e girò attorno al grande sasso. Carletto rimase a naso in aria, e più si fece buio, più il fenomeno diventò affascinante. Le lucciole, come guidate da qualcuno, si scissero in due formazioni e si disposero su due lunghe linee parallele che dal fontanile raggiungevano la grotta posta più in alto, come a tracciare un percorso ed illuminarlo contemporaneamente. Carletto fu preso solo da grande meraviglia, non aveva mai avuto paura, pensò ad una danza degli insetti ed attese attento gli eventi. Dalla grotta posta più in alto vide uscire, sempre su due file parallele alcuni piccoli esserini, non più alti del suo cane, poi altri un po’ diversi ed altri diversi ancora, tutti seri, composti e silenziosi, dietro di loro una fanciulla bellissima, vestita di veli, con i capelli cadenti sulle spalle. Le lucciole si misero in agitazione e la luce fu tanta che sembrò giorno. Gli occhi della fanciulla brillavano, le sue mani erano diafane e le dita sottili e calzava delle scarpine di velluto rosso. Ogni esserino che la precedeva teneva in mano una piccola brocca, era come se una principessa venisse preceduta dai suoi cortigiani. Nessuna pecora si mosse, il cane non abbaiò e non scodinzolò, strano, di solito bastava che il vento muovesse le frasche per farlo abbaiare. Carletto fece un lungo respiro e attese gli eventi. 
Il corteo si mosse e quando la fanciulla arrivò in direzione del ragazzo, battè le mani e tutti si fermarono. Era davvero bella, sembrava non avere età, le sue labbra sembravano disegnate da un artista ed i suoi capelli assomigliavano alla filigrana d’oro. – Non mi chiedi chi sono? – disse la fanciulla – so che non hai paura, e non devi averne, la meraviglia che stai provando, tra poco passerà. Sono la fata delle grotte, le altre fate mi chiamano Ortensia, perché tanti anni or sono, un bambino come te, scivolando dal sasso addossato al quale tu hai costruito la tua tettoia, cadde su una grande macchia secolare di rovi dalle spine lunghe ed appuntite, io sentii il suo grido di terrore, accorsi e tramutai i rovi in una altrettanto grande macchia di ortensie. – Carletto l’ascoltò e rimase incantato da tanta grazia che non proferì parola, allora la fata continuò: - vedi, io vivo nella grotta più in alto, la prima che è stata scavata più di tremila anni fa, loro vivono con me, i primi sono gnomi, saggi e buoni consiglieri, i secondi sono folletti, vivaci, allegri, rallegrano le mie giornate, i terzi sono elfi, scontrosi, dispettosi, talvolta burloni, mi fanno disperare, ma con tutti vivo tutte le emozioni. Ogni sera andiamo al fontanile a riempire le brocche d’acqua e le amiche lucciole ci illuminano la strada. -  Il ragazzo timidamente disse: - signora, ma io le altre sere non vi ho visto, eppure son quindici giorni che dormo su questa collina. – Ridacchiarono i folletti e gli elfi, ma la fata battè le sue mani delicate e fu silenzio – siamo noi che decidiamo di farci vedere, tutte le sere siamo passati, sempre alla stessa ora, noi ti abbiamo visto, poi, riempite le brocche, al ritorno, abbiamo vegliato sul tuo sonno, fino all’aurora. – Signora – disse il ragazzo – io desidero rivedervi ogni sera, resisterò al sonno e voi mi terrete compagnia. – Forse lo faremo e forse no, tu hai già degli ottimi compagni, i tuoi libri. – Lo so, mi piacerebbe averne tanti, ma anche di imparare tutto quanto c’è dentro, la mia vita è segnata, sempre solo con le pecore, come mio padre e mio nonno, su queste colline, senza vedere mai gente, senza la scuola. La mia famiglia vive di questo lavoro, il pane non ci manca, però, cosa c’è al di la dei monti? – La fata sorrise e gli disse: - dammi la tua mano, vieni con noi giù alla fonte, mentre si riempiranno le brocche continueremo a parlare. – Carletto diede la mano alla fata ed il corteo riprese la sua marcia, giunti al fontanile il ragazzo disse: - mio padre mi ha sempre raccomandato di non essere curioso, ma io non resisto dalla voglia di farvi una domanda, com’è la vostra grotta? – Per i curiosi e gli invadenti è come le altre – rispose Ortensia – tu non le hai mai viste? – No – rispose il ragazzo – mio padre mi ha ammonito di non sporgermi a guardare, ed io non l’ho mai fatto, anche se la curiosità, qualche volta, mi ha sollecitato. – La fata sorrise e disse: - lo so che non hai mai disubbidito a tuo padre, egli ti ha dato un giusto consiglio e tu lo hai ascoltato. Io voglio premiare la tua ubbidienza, domani, dopo l’abbeverata, verrà uno gnomo a prenderti e ti accompagnerà alla mia grotta. – Riempite le brocche si riformò il corteo e giunti alla tettoia Ortensia disse a Carletto: - ora verrà fuori uno spicchio di luna, sdraiati sul tuo giaciglio e dormi. Il ragazzo accompagnò con gli occhi la fata che, davanti all’ultima grotta, lo salutò con un cenno della mano.
L’alba del mattino seguente svegliò Carletto, che arrotolò la sua coperta, condusse il piccolo gregge al fontanile, fece le sue pulizie personali e consumò la sua colazione, un pezzo di pane e delle albicocche che il padre gli aveva portato il giorno prima. Si sedette all’ombra del grande ulivo, prese tra le mani il libro che aveva nello zaino, ma non  riuscì a concentrarsi nella lettura. Non riuscì a non pensare a quell’evento straordinario della sera prima, alle lucciole, agli elfi, ai folletti, agli gnomi, ma soprattutto aveva stampati nella mente gli occhi dolci di Ortensia, i suoi capelli di filigrana, le sue mani diafane, le sue parole, ed ebbe il dubbio che quanto ricordava, fosse stato soltanto un sogno, di quelli che ti lasciano il segno per un po’ e sembrano reali. Il dubbio lo colse, forse aveva sognato davvero, ma accostandosi alla polla per bere, notò con sua grande sorpresa che, accanto alla sorgente, stava una brocca, un po’ più grande delle altre, ma identica nella forma a quelle che la sera prima aveva visto riempire dai folletti. Ciò gli permise di fugare il dubbio, riempì la brocca e risalì verso la grotta più alta, la depositò quasi davanti all’imbocco e ritornò dalle sue pecore.
Quando pian pianino risalì la collinetta col suo gregge, guardò in direzione della prima grotta, non c’era più la brocca, al suo posto uno dei barbuti gnomi salutava con la manina.
Il sole era allo zenith, faceva caldo e le pecore cercavano l’ombra dei pochi arbusti. Carletto sedette sotto la sua tettoia e si appisolò. Quando si svegliò, accanto, seduto su un sasso, c’era lo gnomo barbuto che sorrise e gli disse: - non preoccuparti per le tue pecore, ci sono i miei fratelli ad accudirle, tu alzati e seguimi, Ortensia vuole esaudire il tuo desiderio, ti riceverà nella sua grotta. Mai essere umano l’ha visitata, quando tremila anni or sono fu scavata, il despota che ne ordinò la realizzazione, una volta ultimata, fece uccidere le maestranze e ricoprì l’imbocco proprio con questo sasso dove tu hai accostato la tettoia. Nel tempo, un violento terremoto fece rotolare la grande pietra e la grotta vide la luce. Carletto si alzò, bevve un sorso d’acqua dalla sua borraccia e seguì lo gnomo.
Davanti all’imbocco della grotta, il ragazzo chiese allo gnomo: - come faremo a calarci giù? – non ebbe il tempo di finire che vennero fuori due elfi che appoggiarono sul ciglio una comodissima scala, foderata di seta, con due passamani in metallo lucido. Lo gnomo scese i primi due gradini e disse a Carletto: - vieni – e tutti e due guadagnarono il fondo. L’interno era una grande sfera, illuminata da migliaia di lucciole attaccate alla parete, dal pavimento si dipartivano quattro corridoi, portavano agli alloggi per elfi, gnomi, folletti, e quello per Ortensia. La fata era giù, seduta su una comodissima poltrona rivestita in seta, sfolgorante, nel suo abito di veli di un rosso carminio stretto alla vita da una cinta in giallo-oro, le sue scarpette erano in velluto rosso ed i suoi capelli di filigrana erano legati dietro la nuca con un nastro di seta nero. Gli occhi le brillavano e le sue mani sembravano di cera. Carletto rimase abbagliato da tanta bellezza e tanta grazia, non trovò parole. La fata sorrise, battè le mani ed un folletto portò un morbido cuscino di seta che diede al ragazzo e questi, all’invito  di sedersi, vi si adagiò davanti a lei. - Come vedi, il tuo desiderio è stato esaudito, ho voluto premiare la tua ubbidienza, la tua devozione al lavoro e alla famiglia, la tua generosità. La brocca che hai portato piena era la mia, era quella più grande, l’ho lasciata volutamente vuota giù al fontanile, per darti la prova che quanto avevi visto era vero e non era soltanto un sogno. La tua è certamente una vita grama, ma tu non ti lamenti, e per non perdere il contatto col mondo, ti fai prestare i libri e attingi da essi quanto ti serve per soddisfare il tuo desiderio di cultura. Dimmi, cosa desideri più nella vita, qual è il tuo sogno più grande? Rifletti, non rispondermi subito, la fretta non è mai una buona consigliera. Fra poco arriverà tuo padre per portarti ciò che ti occorre e tu dovrai essere con il tuo gregge, ma ancora hai tempo, ti condurrò nella mia stanza e ti mostrerò un oggetto in miniatura e poi ti assegnerò un compito. – Carletto seguì le parole della fata, non smise mai di fissarla e poi disse: - bellissima signora, io non racconterò mai a nessuno quanto ho visto, nemmeno alla mia mamma, lo conserverò come un bel ricordo, ma permettetemi di rivedervi ogni giorno, ciò non mi fa pensare alla mia solitudine, rende il mio lavoro piacevole e non sognerò più di andare via da questo posto per cambiar vita. – La fata sorrise, si alzò, si chinò sul ragazzo, lo strinse al suo seno e lo baciò sulla fronte. – Vieni, andiamo nella mia stanza – lo prese per mano e attraversò con lui uno dei quattro corridoi illuminati da migliaia di lucciole. – Entra e siediti – prelevò da uno dei suoi tavolinetti colmi di oggetti un modellino in tufo di una poltrona, glielo porse e disse: - ho sempre desiderato sedermi all’esterno della grotta, nelle serate d’estate, su una poltrona scavata nella calcarinite, ma i miei amici sono tanto piccoli, non hanno la forza per realizzare il mio sogno, ed i loro attrezzi sono minuscoli, riescono a realizzare soltanto oggetti in miniatura, guarda, i miei tavoli sono pieni.- Carletto sorrise, studiò la piccola miniatura, fissò nella sua mente le forme e calcolò la misura adatta alla sua fata, poi riconsegnò l’oggetto e disse: - giù nella parete a ridosso della tettoia, dove la pietra è più friabile, realizzerò la tua poltrona, ci lavorerò fino a tarda sera e anche di notte, quando ci sarà la luna piena, te lo prometto. – La fata sorrise – ricordati, oggi sarà luna piena, ed io desidero che per la prossima luna la mia poltrona potrà servirmi per mirarla, quindi, vent’otto giorni da oggi. Puoi andare ora, tuo padre sta per arrivare. – Carletto, accompagnato ai piedi della scala la risalì e si trovò fuori dalla grotta tra le sue pecorelle.
Appena arrivò il padre gli fece la richiesta di uno scalpello ed un mazzuolo, a tarda sera l’anziano pastore ritornò e consegnò gli attrezzi al figlio.
Il mattino seguente, abbeverate pecore ed agnelli, si mise all’opera sulla parete di pietra friabile. Carletto era infaticabile, giorno dopo giorno la pietra prese forma, ma lui era soltanto un ragazzo e quando cominciava a far buio, era così stanco che cadeva in un sonno profondo.
Erano già trascorsi ventisei giorni, il lavoro abbisognava delle rifiniture, occorreva eliminare le asperità, la sua fata non poteva sedersi e poggiare le spalle sul ruvido, bisognava far presto, ma non bastava il tempo. Carletto cominciò a disperarsi, ed al ventottesimo giorno, pur lavorando a sera inoltrata, capì che non poteva finire la sua opera. A tentoni asportava le asperità e, talvolta, batteva il martello sulle sue dita facendosi male. D’un tratto uno sciame di lucciole si posò sulla parete di pietra e illuminò la poltrona, il ragazzo si diede un gran da fare e, quando tutte le superfici divennero lisce, guadagnò il suo giaciglio.
Quando la luna piena fece capolino all’orizzonte, Ortensia, accompagnata dai folletti, dagli gnomi e dagli elfi, raggiunse la poltrona e sedette ad ammirarne il suo procedere lento. Il sonno di Carletto durò poco, andò incontro alla fata dai capelli di filigrana che brillavano attraversati dai raggi di luna. Nel suo viso si leggeva la gioia che provava, la sua fata aveva la sua poltrona, questo lo fece sentire importante. – Torna a dormire – disse la fata – sei stanco, io veglierò il tuo sonno e domani, dopo l’abbeverata mi verrai a trovare.-
Il giorno seguente, quando il sole era già alto, il ragazzo si avvicinò alla grotta, i due elfi appoggiarono la scala sul ciglio ed egli scese giù. Ortensia l’aspettava, gli andò incontro e lo carezzò - è giunto il momento di dirmi qual è il tuo più grande desiderio, hai avuto del tempo per riflettere, ventotto giorni in cui hai faticato, venendo a capo di un impegno arduo per un ragazzo come te, io posso esaudirne solo uno di desideri, su, esprimilo! – Carletto sorrise, capì che la fata era pronta a dargli un premio e disse: - fa che io possa ritornare a scuola, che possa frequentare nuovamente l’oratorio, che possa studiare per potere aiutare i miei genitori nella loro vecchiaia. – Ortensia sciolse i suoi capelli, prelevò la sua bacchetta magica da un cassetto e la fece ruotare in aria disegnando un grande cerchio, poi fissò Carletto: - tutto avverrà in ventotto giorni! – Abbracciò il ragazzo e prima di licenziarlo andò nella sua camera e ritornò con la miniatura della piccola poltrona. – Tieni è tua – disse – è d’oro, non è il valore che conta, non cederla mai, portala sempre con te, tutte le volte che la guarderai o la sfiorerai ti ricorderai della fata delle grotte di Raitano – lo baciò e lo accompagnò ai piedi della scala. Ventotto giorni dopo arrivò a casa sua il telegramma di un notaio statunitense che avvertiva la famiglia che lo zio del padre di Carletto, passando a miglior vita, gli aveva lasciato in eredità una fortuna inestimabile. Giusto il tempo di fare le carte e Carletto andò in America con i suoi. Lì, ebbe modo di studiare, laurearsi ed assicurare una vecchiaia serena ai suoi genitori. Quando dopo quindici anni tornò in Sicilia, volle recarsi a Raitano, ed in una notte di plenilunio godette della compagnia della sua fata seduta sulla poltrona di pietra. Il tempo non era trascorso, non aveva scalfito la sua bellezza, tutto era immutato. Si avvicinò, cacciò dalla tasca una piccola scatola e la porse alla sua fata, senza proferir parola. Ortensia aprì la scatola, dentro c’era una piccola stella realizzata in diamanti che brillarono sotto i raggi della luna piena. – Bambino mio – disse la fata commossa – non mi hai dimenticata, il vile denaro non ti ha dato alla testa, il tuo cuore è rimasto quello del mite pastorello – prese la piccola stella e l’appuntò sulla sua chioma dorata, e la stella brillò come le sue lucciole. – Ascolta Carletto, non perdere mai la tua innocenza, fai che il bambino che c’è in te, venga sempre fuori e al momento giusto. Ricordati, tutti i grandi sono stati bambini una volta, ma pochi di essi se ne ricordano! - In un baleno tutto svanì, Carletto si guardò attorno, stringeva tra le mani la miniatura che gli era stata regalata, capì che non avrebbe più rivisto la sua fata; solo le lucciole erano rimaste ad illuminare la poltrona scavata nella roccia. 
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