martedì 15 dicembre 2015

LIBERTA' E SILENZIO (Piccole riflessioni) 15/dicembre/2015







Mario Scamardo


Libertà e Silenzio



         Il significato della parola Libertà ha suscitato diverse interpretazioni, sin dai tempi antichi. Il libero arbitrio nasceva dal caso per Lucrezio, mentre per Socrate nasceva dalla virtù e dalla conoscenza. La Libertà, ma è solo una mia opinione, nasce dalla storia e dall’evoluzione biologica; Socrate sosteneva che la virtù nasce dalla conoscenza, ed essa ci rende liberi. Platone, discepolo di Socrate, concorda con il suo maestro, sostenendo che agire in Libertà significa seguire la ragione e professare il bene. Virtù e conoscenza traggono la loro origine dall’anima, la quale le trasferisce alla mente. Dunque, la Libertà è diretta dalla ragione. Aristotele sosteneva invece che il libero arbitrio nasce dal cuore. Nell’era moderna con Galileo e Newton e, quindi, successivamente, con Cartesio, il concetto di Libertà è connesso alla coscienza di sé, convinti della casualità delle leggi che governano la natura, attraverso le quali ad ogni causa deve corrispondere un effetto e viceversa.
Discernere sulla Libertà non è cosa da poco, ritenendo che esistono tanti concetti di Libertà quanti sono gli uomini sulla terra.

[...Una sera, quando toccò nuovamente a Giulia disquisire su un nuovo argomento, la ragazza volle parlare della Libertà:
– Nessuno può impedire ad una persona di amarne un’altra, nessuno può impedire ad un uomo di pensare, di fantasticare, di sognare.
Un uomo si può imprigionarlo nelle segrete più oscure, incatenarlo, strappargli la lingua e gli occhi, seviziarlo, ma non si potrà mai imprigionare il suo pensiero! L’uomo è libero di pensare, libero di amare, libero di sognare e di fantasticare.
         I potenti di tutti i tempi hanno dichiarato di lottare per la libertà. Sempre ci rendiamo conto che essa non è altro che un simulacro; spesso una scatola vuota, un simbolo a immagine e somiglianza di chi ne parla, utilizzabile a seconda del contesto e degli umori della folla.
         Siamo qualunquisti al massimo quando diciamo che le lussuose vetrine piene di beni, i grandi magazzini intasati, un attimo di pornografia e i miraggi dei mass-media tengono buono il popolo, e tanto lo vediamo come trionfo della libertà? In tanti, nascondendosi dietro la libertà d’espressione, sono in grado di strappare i sentimenti più comuni e più sacri. In nome della libertà sono stati e vengono perpetuati genocidi, sono state combattute atroci guerre, si uccidono ancora oggi milioni di donne e bambini o si lasciano morire di stenti, di freddo, di sete, di terrore, di violenza, di insicurezza, tutto ciò per la libertà.
         Ogni giorno nuove crociate si organizzano sulla base della più nera intolleranza, talvolta malcelata e mai sopita. La libertà ha la capacità di dividere il genere umano in degni ed indegni, amici o nemici, santi e peccatori, come se la quasi totalità dei potenti fosse la depositaria di ogni verità rivelata. I grandi iniziati, i giusti, imitati maldestramente dai cattivi potenti, non si sono mai posto il problema di lottare chi sbaglia, ma l’errore, non la lotta contro il peccatore, ma contro il peccato, tutto ciò che è nemico dell’uomo e non contro l’uomo.
         Tutti parlano e vogliono la libertà ma nessuno ci ha mai insegnato cosa essa sia.  Se ci capita di scegliere le persone, le caratteristiche di cui di solito ci curiamo sono relative alla casta, alla cultura, al potere, all’intelligenza, all’onestà, ma quando abbiamo cercato in esse la caratteristica della libertà?  Mai, in quanto nessuno sa, con cognizione di causa, essa cosa sia. In realtà dentro di noi non siamo capaci di essere liberi realmente, perché dopo avere severamente interrogato la nostra coscienza, ci persuadiamo che la libertà è solo un termine, neppure un concetto preciso e che l’unico impedimento a che essa si materializzi siamo solamente noi. Sovente osiamo dire: “sarò libero di fare” ma libero nei confronti di chi, e libero di cosa?
         E’ certo, che non riusciamo a renderci liberi noi stessi dalla nostra parte negativa, da quella soma che ci impedisce di migliorarci, di pietire, di disperare, di desiderare, di illuderci, di tramare, di non essere veritieri verso noi stessi.
E’ possibile mettere un punto fermo nella vita, accettandoci per quello che siamo, per essere dotti da dove partire o su cosa star fermi se lo vogliamo, su come costruire e da dove cominciare a migliorarci o, se proprio vogliamo, a perderci?
L’unica libertà vera è l’amore, dove sogno e fantasia la fanno da padroni, dove il pensiero, come airone nel cielo, vola e, talvolta, si trasforma in poesia. ...][1]





Khalil Gibran, pittore e filosofo libanese diceva: “Dicono che il silenzio sia di chi s’accontenta; ma io vi dico che il rifiuto, la ribellione e il disprezzo si annidano nel silenzio”.
Se il silenzio è qualcosa di cui l’uomo necessita, allora esso è libertà!
Maeterlinck soleva ripetere: “Le anime si pesano nel silenzio come l’oro e l’argento si pesano nell’acqua pura e le parole che pronunciamo non hanno peso che grazie al silenzio in cui sono immerse”.
Si possono fare molte considerazioni, filologiche, storiche, filosofiche o psicologiche sul silenzio, certamente interessanti; per molti versi non ne sarei capace, conscio dei miei limiti.
Presupposto che ogni credente abbia inteso il significato e vissuto intensamente il suo credo, del silenzio non sarebbe necessario dire nulla. Ma in questo caso io stesso avrei scambiato un processo che si compie nel tempo, con un avvenimento relativo, compiuto. Perciò è necessario raccordarsi alla vita tracciata dalle coscienze che ci hanno preceduto, ad un’aria di significati comuni a tutte le religioni ed a tutti gli individui che in qualche modo hanno testimoniato un processo di rinascita per così dire “ideale-culturale”, di contro ad un altro “effettivo-positivo”. Questa via, questi significati, questi individui, tutti, ci indicano il silenzio come una precondizione per un’autentica conoscenza che trascenda l’ovvia appartenenza delle cose.
Tutti ci dicono che il silenzio ha un senso: è l’esperienza del limite, della povertà, del digiuno, del deserto. E’ la polarità contrapposta al parlare per parlare, all’oltrepassare semplicemente per reagire, all’arricchire senza comprenderne la responsabilità, all’eccedere nell’uso dei beni, a ricercare l’opulenza.
Il significato del silenzio non è dunque mutismo. Anzi, nessuno deve tacere se ha da dire qualcosa che attiene al naturale diritto di difendere legittimamente la sua libertà personale e la sua vita. E’ stato giustamente osservato che “il silenzio ispirato dalla paura non è il silenzio” e che, paradossalmente, “alcuni raggiungono la loro massima cattiveria nel silenzio”. Da qui si comprende che il silenzio non può essere inteso come un accadimento elementare, come un punto matematico. Esso è espressione di un “continuum”, un processo “interiore” che struttura fondamentalmente la personalità dell’individuo e la sua relazione con gli altri, con la società.
Questo processo è scandito da tre momenti indipendenti, dai quali si possono ricavare le seguenti considerazioni.
La prima è che non si può capire senza ascoltare e che per ascoltare è necessario il silenzio. Un silenzio-digiuno però, perché se la “parola” mi raggiunge nel rumore interiore di ciò che già so, confondendosi con esso cosa potrò sapere di nuovo che già non so? Cosa potrò mai dire che non sia una semplice reazione a ciò che già sapevo, come potrà il nuovo divenire parte di me? Come si potrà tessere il filo della mia vita con quello della vita degli altri?
La seconda considerazione è che il silenzio risveglia un processo di chiarificazione. Chi non ha sperimentato il peso di un bagaglio di cose inutili alla propria crescita guardandosi dentro? Quante cose il tempo trascorso della nostra vita ci ha mostrato non essenziali? Come non constatare la debolezza di molte nostre caparbietà? Ogni uomo senziente scopre queste cose nel silenzio, con esso cadono molte passioni e si affermano, al contrario, benignità e tolleranza.
La terza considerazione riguarda la “parola proclamata, che, quando non sia arte retorica, ha da essere governata dalla concentrazione.
Lo stesso significato di con-centrazione allude alla ricerca del centro, del polo o del bersaglio, se si vuole.
Colpire il bersaglio richiede concentrazione, tutti, qualche volta, hanno sperimentato che questa operazione avviene nel silenzio più completo, tutto è deserto intorno al bersaglio, non c’è nulla che ce ne distrae, tutto è silenzio e noi siamo tutt’uno col bersaglio.
Penso che questa sia l’esperienza che precede, nel mistico, la comunione con l’Origine di tutte le cose. In molte religioni, specie in quelle orientali, il silenzio è praticato come norma per i neofiti. Questa consuetudine, che ha una radice antica e per così dire strutturale, spesso è malintesa: a volte è sentita come limitazione alla libertà di espressione, altre volte come il prezzo dovuto all’autorità e alla venerabilità delle persone o della società che li accoglie. Nulla è più riduttivo di questa ipotesi. La pratica del silenzio si attua né col mutismo né col multiloquio, ma attraverso l’ascolto delle ragioni dell’altro, la chiarificazione delle proprie ragioni, la concentrazione delle proprie intenzioni, ed è la condizione necessaria perché tutti concrescano avendo come fine la consonante realizzazione della società-amore.
Non c’è ombra di dubbio che queste riflessioni siano orientata ciò che ha da essere, piuttosto che a ciò che è. Ma la giustificazione di una società di saggi consiste proprio in ciò: condurre ogni individuo che bussi alla sua porta a scoprire in sé la potenza del seme che è già stato posto all’Origine.
A pensarci bene, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. C’è soltanto da divenire consapevoli ed agire con equità e silenzio.
Chi è più vittima del silenzio del popolo siciliano? Domanda strana la mia, ma pur sempre una domanda a cui necessita dare una risposta. Svestito dalla sua dignità, spogliato dalla sua unicità, allontanato dalla sua cultura, relegato ad un ruolo di vittima sacrificale, alimentato nella sua scelta di emarginato, esaltato nel ruolo di “vinto”, dato in pasto ai falsi orgogli, zittito dalla sferza piemontese, umiliato da una classe politica incapace e alla ricerca dell’opulenza, pronta a schiacciare ogni capo che tenta di sollevarsi.
Il popolo siciliano è “chiuso” nel suo mutismo!


[1] Tratto dal romanzo di Mario Scamardo “I sette giorni della trasgressione”.






venerdì 6 novembre 2015

L'ALLERGIA - Racconto breve - (giallo) 06. Novembre. 2015




Mario Scamardo

I Racconti del Borgo

L’allergia


        Il giovane maestro Luca Lofonte si innamorò l’anno in cui prese servizio alla Scuola Elementare “Vittorino da Feltre” della sua giovanissima collega Lucia Latteri. Il fidanzamento fu breve e due anni dopo, appena il tempo di riattare il vecchio appartamento di don Gabriele il papà di Luca, deceduto troppo giovane assieme a mamma Rosa, convolò a nozze. Strana combinazione, le loro iniziali erano quattro “L”, un grattacapo che li faceva sorridere tutte le volte che il giovane maestro provvedeva da solo a prepararsi la biancheria intima da indossare dopo la doccia, pronto per vestirsi, si ritrovava tra le mani le culottes della moglie con ricamate sopra due “L” o la sua canottiera, magari a righine bianche e azzurre o addirittura a fiorellini. Uscivano assieme il mattino Lucia e Luca, si attendevano all’uscita dalle rispettive aule a fine lezione e, mano nella mano, ritornavano a casa a piedi, appena duecento metri. Per tre anni non ebbero figli, poi, a distanza di diciotto mesi l’una dall’altra, nacquero nell’ordine Luigina, Leda, Lidia e Laura, quattro bambine con un nome di battesimo che rigorosamente cominciava per elle. Sane come pesci, le bambine divennero fanciulle, ragazze, donne; solo una di loro un giorno accusò un leggero malessere, una intolleranza alimentare, una lieve allergia alla soia, ma che la ragazza era riuscita, con l’esercizio dell’olfatto, a riconoscere nei cibi. Diventate adulte le quattro ragazze, la famiglia Lofonte ebbe la necessità di cambiare casa, una villetta in periferia con un grande salone, una enorme cucina, una camera da pranzo, tre bagni, cinque camere da letto ed un enorme giardino con un prato suddiviso da aiuole con fiori di ogni sorta e dotato di comode panchine. Tutte si erano laureate, tutte avevano trovato occupazione, due in banca e due in Comune, nessuna si era sposata e, dopo la morte dei genitori, assunsero una badante-governante leggermente più giovane di Laura che era la più piccola, ma che aveva compiuto quarantotto anni, Lidia ne aveva quarantanove e sei mesi, Leda cinquantuno e Luigina cinquantadue e sei mesi. Nessuna di loro guidava, si spostavano in taxi o a piedi e quando cominciava la stagione allo stabile della città, tutte e quattro occupavano un palco centrale di II fila, proprio accanto al palco centrale di rappresentanza. Spesso le quattro signorine organizzavano delle feste in quell’enorme salone che avevano, invitando ognuna i colleghi di lavoro e gli amici. Nessuna delle quattro aveva mai avuto una storia d’amore, eppure erano delle donne belle e cordiali, tutte e quattro more con occhi scuri e profondi; Laura la più giovane era la più appariscente, abiti alla moda, parrucchiere tutte le settimane e spesso tagli diversi, era l’unica a forzare un po’ di più delle altre con il trucco, ombretti a tinte forti, rossetti rosso vermiglio, unghie curatissime e laccate dello stesso colore delle labbra. Laura lavorava in banca, le piaceva il contatto col pubblico, amava conversare e le pubbliche relazioni erano l’occupazione perfetta! Recita un vecchio detto siciliano: “Tantu va a quartara all’acqua o si rumpi o si ciacca!” (Tanto va la brocca allo fonte che rischia col tempo di rompersi o quantomeno di incrinarsi!). Fino a quasi cinquant’anni l’unico amore che aveva percepito era stato quello dei suoi familiari, prima i suoi genitori, poi le proprie sorelle ma, qualcosa di strano le stava succedendo. Tutte le volte che entrava nel suo ufficio il Cavaliere Guido Tortomasi, a Laura sorridevano gli occhi, sfoggiava un fantastico sorriso, si alzava e anziché farlo sedere difronte alla scrivania, lo faceva accomodare nel salottino e, dopo i convenevoli, lo ascoltava pazientemente. Guido Tortomasi, cavaliere del lavoro, amministrava la sua fabbrichetta dove si confezionavano le più belle camicie da uomo della città. Laureato in Economia e Commercio, abilitato all’esercizio della professione, insegnava Tecnica Bancaria in un Istituto Tecnico Commerciale, cinquantacinque anni, un bel fisico, occhi azzurri e tempie brizzolate; sempre vestito con gusto ed eleganza, aveva in teatro un palco di proscenio di II fila ed era sempre solo, davvero uno scapolone d’oro! Si, la brocca col tempo si era incrinata! I rapporti tra Laura e Guido divennero frequenti e la funzionaria di banca accettò, per la prima volta, di entrare in una tea room a gustare una fetta di torta e un tè alla cannella. Luigina, Leda e Lidia notarono i cambiamenti della sorella, si accorsero che i sabato pomeriggio Guido prelevava in auto Laura proprio davanti al cancello e tornava a riportarla a ora di cena. Non dissero mai una parola, come se tanto non le riguardasse e, quando Bettina la badante, chiese una sera se dovesse apparecchiare per tre, quattro o cinque, severamente Lidia l’apostrofò:

        - Sempre per quattro, mai per cinque!... eventualmente per tre!

        - Mi scusi signorina Lidia...

        - Scusata! ...e passate le venti togli un coperto, vuol dire che mia sorella Laura non ha fame!

Luigina e Leda si guardarono negli occhi con un sorrisino d’intesa, poi Leda:

        - E’ un po’ che Laura ha voglia di saltare la cena, vorrà dimagrire?

Bettina non era stupida, aveva conseguito la maturità commerciale, per necessità aveva dovuto ripiegare a far da badante in casa Lofonte, era stata allieva alle elementari della maestra Lucia Latteri, la mamma delle signorine, e delle quattro sorelle l’unica che stimava ed ammirava era proprio Laura. Da quel momento, dentro di se, stabilì che se ce ne fosse stato di bisogno, sarebbe stata pure disposta a fare da paraninfo. Il Cav. Tortomasi le faceva simpatia, perché era un bell’uomo, un gran signore ed era stato suo insegnante quando ancora era un bel giovanotto e lei una ragazzina.

        Un venerdì dopo cena, mentre Bettina sparecchiava e si accingeva a fare i lavori di pulizia in cucina, le quattro sorelle si chiusero nel grande salone e la voce tonante di Luigina sovrastò quella di tutte:

        - Ora state un pochino zitte e lasciatemi parlare!

Fu silenzio assoluto, le altre tre sedettero e Luigina rivolta a Laura:

        - Nessuno di noi può impedire a chiunque di innamorarsi, nessuno può impedire a chiunque di avere amici particolari, cara Laura, nessuno ce l’ha con te, solo che unite siamo state sempre una forza, oggi, che qualcosa ha turbato la pace che regnava in questa casa, non siamo più una forza, tendiamo a litigare, tendiamo a spezzare la catena umana che siamo state. Né Leda né Lidia, né io impediremo che tu possa vivere una vita felice legata ad un uomo, quindi non ritorneremo più sull’argomento, nessuno può cambiare il percorso del destino!

        Si conoscevano molto bene le sorelle? Certamente si, ma quella catena umana che sembrava d’acciaio, aveva ben quattro maglie fragili, le uniche maglie con cui era fatta e, bastava poco per spezzarle! Che la lettera “L” che le legava nel cognome e nei nomi, scelti da un padre come a volerle tutte identiche, portasse iella al loro sodalizio? Laura si   alzò, fissò negli occhi le sorelle, poi si rivolse ad ognuna di loro:

        - Luigina, sei la più grande, sei forse la più assennata, sei ancora una bella donna, anche se ti ostini a non curarti gran che nella persona, in ufficio in tanti ti hanno fatto la corte, non credo che non ce ne sia uno che non ti garbi! Lidia, tu sei la più timida, la più semplice, io so di tanti uomini che ti hanno ronzato attorno, ti hanno corteggiato, basta che tu lo voglia e di uomini in ginocchio davanti a te puoi farne una collezione, così pure tu Leda. Io ho resistito un bel po’, proprio per tenere fede al nostro sodalizio, poi non sono stata più in grado di farlo, ho ceduto ad un sentimento.

        Bussò alla porta Bettina col vassoio del caffè, Laura aprì la porta e fece accomodare la badante, che posato il vassoio stava per uscire, ma Laura la fermò:

        - Bettina, domani apparecchia per cinque, il professor Guido Tortomasi è invitato a pranzo, è mio ospite, sistema lui a destra di mia sorella Luigina, io sarò a sinistra, a destra di Guido sistemerai Leda, alla mia sinistra Lidia.

        Le tre sorelle non dissero una parola, non si guardarono neppure negli occhi, riempirono le tazzine di caffè e ne diedero una a Laura, lo bevvero e riposero le tazzine sul vassoio che porsero a Bettina che uscendo ascoltò l’ordine perentorio di Lidia:

        - Domani doppie posate d’argento e la cristalleria migliore!

        Le quattro donne sedettero davanti al televisore senza dire una parola, scorrevano le immagini di un capolavoro del cinema di tutti i tempi, “Via col vento”.

        Il mattino seguente Bettina si diede un gran da fare, e mentre tutte e quattro le signorine, libere dagli impegni di lavoro, si preparavano per uscire a far spese, apparecchiò in sala da pranzo e si premurò di recidere in giardino alcuni fiori per confezionare una piccola corbeille da porre a centro tavola, quindi si mise ai fornelli. Laura, prima di uscire assieme alle sorelle, si recò in cucina e disse a Bettina:

        - Noi stiamo per uscire, il garzone della pasticceria all’angolo porterà una crostata verso le undici, se telefonasse il professor Tortomasi, per qualunque motivo, digli che rientreremo per mezzodì.

        Bettina assentì col capo, mentre triturava un ciuffo di prezzemolo, e sfoderò uno dei suoi sorrisi che elargiva soltanto a Laura.

        Alle dodici e quaranta, preceduto da un fascio di rose scarlatte, si presentò alla villa il cavaliere Guido, elegantissimo in un doppiopetto blu elettrico e pantalone beige. Laura lo accolse nel salone, poi, una alla volta entrarono le sorelle, si conoscevano da tempo, coetaneo di Luigina era stato allievo di suo padre alla “Vittorino da Feltre”. Tanti convenevoli e tante domande sulle sue camicie e sui premi che l’azienda riceveva, poi entrò Bettina con un vassoio di stuzzichini e salutò sfoggiando un sorriso:

        - Buongiorno professor Tortomasi.

        Guido, meravigliato della presenza di Bettina in quella casa nelle vesti di domestica:

        - Buongiorno signorina, quante sorprese quest’oggi, sono davvero contento, che piacere rivederla.

        Bettina si commiatò con un inchino ed uscì, per ritornare di lì a poco con un vassoio di bicchieri, attese un segno da Laura, sturò una bottiglia di spumante, riempì i flute e li porse agli astanti iniziando dall’ospite, quindi ritornò in cucina a ricontrollare che tutto fosse a puntino. Sia Laura che le sorelle apprezzarono i modi eleganti della badante, ma soprattutto ne colsero la soddisfazione. A pranzo finito Luigina invitò l’ospite in giardino e avvertì Bettina di portare loro il caffè. Guido, come ai vecchi tempi, chiese a Luigina la mano della sorella più piccola. Un momento di silenzio, piccole occhiate d’intesa fra le sorelle, poi:

        - Caro Guido, ci conosciamo tutti da quasi mezzo secolo, i desideri e le volontà di Laura sono i nostri desideri e le nostre volontà; una donna a cinquant’anni avrà ponderato di certo le sue scelte, si sarà interrogata tante volte su cosa farà da grande.

        - Se Laura lo vorrà, solo sei mesi per rinfrescare l’appartamento dove abito da solo e possiamo fissare la data del matrimonio.

        Era scontato che Bettina, seguisse dalla finestra della cucina i loro discorsi e, quando il cavaliere Tortomasi si commiatò, ringraziando per la loro ospitalità, non resistette a congratularsi e ad esprimere la sua gioia con Laura che era andata a trovarla in cucina.

        Una o due volte al mese Guido era a cena o a pranzo in casa Lofonte, tutti erano loquaci, i sorrisi si sprecavano. Ognuna interloquiva a turno con Guido che, a proposito di gusti, confessò una sera che non resisteva alla vista di un panzerotto alla crema di pistacchio, mentre Lidia confessava che spesso, nella notte, si alzava per gustarsi un toast imburrato con due fettine di salame d’asino. Tutto sembrava filare liscio come l’olio, Laura sembrava ringiovanita di due lustri, spesso cenava fuori, avvertendo in tempo Bettina di apparecchiare per tre! Quando si festeggiò il compleanno di Laura, vennero invitati a cena anche il preside dell’ITC dove insegnava Guido, il professor Antonio Merlo e don Raffaele, il parroco della chiesa frequentata dalle sorelle Lofonte. Fiori per ogni dove, aperitivo in giardino e cena nel grande salone. Il menù lo ordinò Leda per telefono presso una azienda di catering che fornì anche due camerieri. Alle sedici del pomeriggio le quattro sorelle uscirono di casa pigliando quattro direzioni diverse, ognuna si affidò una commissione. Alle diciannove e trenta varcò il cancello della villa don Raffaele, seguito dal preside Merlo e da Guido, entrò con loro il furgone del catering e alle venti in punto il garzone del pasticciere consegnò a una delle sorelle la torta ed un vassoio di dolci. A turno le quattro sorelle si recarono il cucina a controllare dall’aperitivo al dessert. Bettina impartì gli ordini ai due camerieri e, come un navigato maestro di casa controllò che ogni cosa fosse al posto giusto. Servito l’aperitivo, tutti si spostarono nel grande salone e le tre grandi pendole, poste in tre angoli, batterono all’unisono il tocco delle 20.45. Don Raffaele e il preside Merlo, compagni di classe dalle elementari al ginnasio, tirarono fuori i loro ricordi infantili fino alla decisione di entrare in seminario, poi le loro strade furono diverse. La cena si protrasse fino alle 22,30, poi tutti di nuovo in giardino per la torta. Spente le candeline Laura ringraziò i due invitati e i camerieri continuarono a servire e a mescere spumante. Una delle sorelle si recò in cucina a prelevare il vassoio con i dolci, tra tanti pasticcini di ogni foggia c’erano due panzerotti con la crema di pistacchio, si fermò davanti a Guido, alzò il vassoio ed odorò, posò il vassoio sul tavolinetto e invitò Guido a pigliare un panzerotto, contemporaneamente lei prelevò l’altro e lo portò alla bocca. Tutti presero un dolcetto e poi l’ultimo sorso di spumante. Quando Bettina si recò in cucina a prendere la caffettiera e le tazzine, in giardino cominciò il subbuglio, Guido si contorceva a terra , come se avesse crampi allo stomaco e, quando cominciò a non controllarsi più e a gridare, don Raffaele chiamò un’ambulanza che lo portò al pronto soccorso. Nel tragitto la stricnina aveva fatto il suo effetto e il medico di guardia constatò l’avvenuta morte di Guido per avvelenamento da stricnina. Sopraggiunta la notizia don Raffaele chiamò il commissario Parelli, in quella villa c’era un avvelenatore, un assassino. Chiusi i cancelli, Parelli in compagnia di due ispettori al suo seguito, visitarono tutta la casa, presero campioni di cibo, rilevarono con fotografie i luoghi e a turno interrogarono tutti. Il preside, don Raffaele e i due camerieri vennero autorizzati ad andar via ma a tenersi comunque disponibili, il commissario Parelli ricominciò gli interrogatori proprio con Bettina che, con gli occhi pieni di lacrime, non si dava pace per la morte di un uomo che aveva sempre stimato.

        - Signorina Bettina, da quanto tempo siete impegnata nel lavoro di badante, o governante.

        - Quattro anni proprio ieri, l’indomani che mi hanno assunta la signorina Laura festeggiava il suo compleanno.

        - Lei conosceva il cavaliere Tortomasi?

        - Sono stata sua allieva all’ITC, un gran galantuomo, e quando ho capito che avrebbe frequentato questa casa sposando la signorina Laura, ho provato grande soddisfazione.

        - Domattina sapremo quale cibo l’ha avvelenato, forse avremo meno ombre. Tutte le portate sono state depositate in cucina, chi è entrato oltre a lei e ai camerieri in cucina?

        - Tutti tranne il cavaliere e il preside.

        - E don Raffaele?

        - Anche lui è entrato in cucina, appena arrivato mi ha chiesto un bicchiere d’acqua per deglutire una compressa, io volevo portargli il bicchiere, ma lui è voluto entrare in cucina, ha bevuto l’acqua ed è uscito.

        - L’avete perso di vista?

        - Neppure un istante!

        - Avrebbe potuto avvelenare del cibo?

        - No! Ma che domande mi fate commissario, è rimasto sulla soglia della cucina, ha prelevato la compressa dalla tasca della tunica e l’ha deglutita davanti a me, mi ha reso il bicchiere ed io l’ho accompagnato di nuovo in giardino.

        - Chi è entrato in cucina?

        - Tutte e quattro le sorelle, è casa loro, entravano ed uscivano una alla volta, talvolta a due a due.

        - Una di loro ha avvelenato il cavaliere e si è disfatta della boccetta della stricnina.

        - Commissario, saranno antipatiche, ma che motivo avrebbero avuto di assassinare quel galantuomo!

        - Tutte negano, domani al lume dei risultati dell’autopsia e degli esami sul cibo rimasto sapremo qualcosa di più. Voi potete farmi una cortesia, quella di raccontarmi cosa avverrà dal momento in cui io uscirò da questa villa a domani quando ritornerò.

        - Commissario, posso rassettare ogni cosa e fare le pulizie?

        - Certo che potete farlo, anzi, dovete riprendere il normale lavoro che facevate prima. Io vado via, due agenti rimarranno in giardino, a sorvegliare, che nessuno esca al di la del cancello. Serena notte!

Il commissario Parelli impartì gli ordini ai due agenti in giardino e andò via. Bettina chiese ad ognuna delle signorine se avessero bisogno di qualcosa, alla risposta negativa ritornò in cucina e si mise a lavorare. Dalla finestra che dava in giardino la governante notò i due agenti che passeggiavano, non sentì altro rumore e, anziché andare a letto, si accomodò in una sdraio e passò in sonno veglia tutta la notte. Ai primi rumori preparò il caffè per i poliziotti e la colazione per le signorine. Man mano che entrarono in cucina chiese loro come stavano e tutte erano sconvolte per quanto accaduto. Laura prese solo un caffè e ritornò in camera sua con gli occhi pieni di pianto. Tutta la notte aveva cercato nella sua mente un particolare, un gesto, un atteggiamento, un rifiuto di qualche portata da parte di qualcuno, nulla, proprio nulla che la potesse far sospettare di qualcosa. Bettina era curiosa, in quel giardino era stata sin dal primo giorno attratta da un alberello, una mimosa sensitiva, bastava accarezzarle le foglie che le stesse si chiudevano, quasi a difendersi dall’azione nefasta che la mano avrebbe potuto compire, tutte le volte che passava l’accarezzava ed assisteva alla reazione della pianta. Quella mattina, magari per sviare i cattivi pensieri, si asciugò le mani nel suo grembiule e si recò in giardino a carezzare le foglie della mimosa sotto gli occhi increduli dei due poliziotti. Mentre stava per rincasare notò che uno dei mattoni che delimitavano l’aiuola era stato mosso, forse un piede maldestro dei camerieri o di un’ospite, si abbassò e lo sollevò, sotto il mattone una boccetta di vetro col contagocce. Le tremarono le labbra e provò una sensazione di freddo, e se fosse il contenitore della stricnina? Lasciò lì la boccetta e vi rimise sopra il mattone, rincasò e  poggiò i gomiti proprio sullo stipite della finestra che guardava verso la mimosa. Nessuno si mosse fino alla mezzora dopo le undici, quando Bettina bussò alla porta della camera di Luigina.

        - Scusi signorina, posso preparare per pranzo?

        - Grazie, certamente, se puoi prepara una pastina e una frutta, siamo tutte sconvolte, Laura è attaccata al telefono con don Raffaele, non si da pace poverina.

        - Chiamo un po’ prima di mettere in tavola.

        - Vuoi che ti aiuti?... anche tu mi sei sembrata sconvolta.

        - No grazie signorina, conforti la signorina Laura, io faccio da sola.

Il campanello suonò e il commissario Parelli entrando si informò sulla notte con i due poliziotti, poi chiese permesso ed entrò direttamente in cucina.

        - Buongiorno signorina, passata serena la notte?

        - Beh, un po’ sconvolta, non ho dormito tanto. Scusi commissario, com’è morto il cavaliere Tortomasi?

        - Avvelenato dalla stricnina messa in un panzerotto alla crema di pistacchio!

        - Venga commissario, venga con me in giardino.

Bettina si fermò davanti alla mimosa sensitiva, accarezzò le sue foglie che si chiusero, poi puntò il dito sul mattone sollevato. Il commissario Parelli alzò il mattone e prese tra le dita la boccetta, la guardò controluce e rimise il mattone a posto.

        - Chi ce l’ha messa?

        - Con me e i due camerieri eravamo in dieci, uno di noi, perché qui non entra mai anima viva. Se escludiamo il cavaliere allora eravamo in nove!

        - Escludiamo il preside e don Raffaele, i due camerieri e voi, rimangono solo le signorine Lofonte, una di loro è l’avvelenatrice, anche perché è l’unica che conosceva l’esistenza di un mattone mobile dell’aiuola, ma quale movente avrebbe spinto una di loro ad avvelenare il futuro marito o il futuro cognato.

        - Me lo sono chiesta anch’io, perché avvelenarlo, per quale motivo?

        - Bettina, avvertite tutte e quattro le signorine che io devo reinterrogarle. Mostrerò loro la boccetta e osserverò le loro reazioni.

        Chiuso nel salone, una alla volta, Parelli reinterrogò le donne mostrando loro la boccetta. Tutte cadute dalle nuvole, tutte senza movente, tutte affrante per l’accaduto, tutte accettano di essere entrate più volte in cucina e tutte asseriscono che anche Lidia ha mangiato un panzerotto alla crema di pistacchio senza aver subito alcun nocumento. Parelli non ha uno straccio di prova né un movente, ma è certo che una di loro è una mentitrice, come risolvere l’arcano? Il commissario si commiatò non escludendo di ritornare per ulteriori chiarimenti.

        Bettina mise assieme il ritrovamento della boccetta e il panzerotto alla crema di pistacchio, le tornò alla mente quel vassoio colmo di pasticcini poggiato sul tavolo della cucina con solo due panzerotti al pistacchio, si, solo due! La signorina Lidia ne aveva preso uno, quello che non aveva preso Guido, quindi poteva essere proprio Lidia la vittima designata! Quando le quattro sorelle, dopo pranzo, si misero a dialogare nel salone, Bettina chiese se poteva rifare le loro camere. Rassettò prima quella di Leda, poi quella di Luigina e di Laura, infine quella di Lidia. Sotto il passamano dello scrittoio una foto in bianco e nero ritraeva due ragazzi in atteggiamento tenero, la stava riponendo dove l’aveva trovato quando nel volto di quel giovanotto forse appena ventenne riconobbe Guido Tortomasi e lei? Ma si, era proprio Lidia di trent’anni più giovane. Ripose con cura la foto dove l’aveva trovata, chiuse la porta e ritornò nella sua camera, fece una doccia si vesti e si recò a trovare una sua compagna d’istituto, più grande di lei, che abitava proprio accanto alla vecchia casa dei maestri Lofonte. Chiese su Lidia e sui suoi amori da ragazzina, ebbe conferma che Guido e Lidia erano stati trentacinque anni prima fidanzatini, ma lui si spostò per motivi di studio in un’altra città e quello che sembrava un grande amore s’era sciolto in breve tempo come neve al sole. Bettina passò dal commissariato di polizia e pregò Parelli di passare da villa Lofonte per mostrargli la foto trovata in camera di Lidia. Il commissario diede alla ragazza il tempo di rientrare, poi con calma si avviò verso la villa. In presenza delle quattro sorelle si recò con una scusa in camera di Lidia, aprì un po’ di cassetti, diede una sbirciata, poi alzò il passamano sullo scrittoio e prese in mano la foto, fece finta di riporla dov’era, ma con sguardo incuriosito l’ammiccò come un miope, poi la girò verso Luigina:

        - Chi è di voi?

        - Non sono io, è mia sorella studentessa di ginnasio o di prima liceo.

        - Scusi, sua sorella chi?

        - E’ Lidia!

        - E il giovanotto?

        - Non saprei, non ricordo, forse un compagno di scuola.

Ripose la foto sotto lo scrittoio e invitò le quattro sorelle a recarsi nel salone pregandole di rimanere sedute. Chiamò Bettina dopo avere fatto una telefonata:

        - Signorina, la prego, disponga su un vassoio dei biscottini, io piglierò posto accanto alla signorina Laura, lei porti il vassoietto, ripeteremo la scena.

        Bettina rientrò con un vassoietto con cinque biscotti, lo poggiò sul tavolinetto mentre il commissario invitò le ragazze a pigliarne uno ciascuno e mangiarlo, tutte lo fecero tranne Lidia.

        - Signorina Lidia, lei non piglia il biscotto?

        - Mi dispiace, non posso!

        - Capito! Le comparirebbe un’altra macchia rosso rubino sulle labbra come quella che aveva fino ad ieri, lei è allergica alla soia, è così allergica che per evitare di assaggiare qualcosa che la contenga si è allenata per tanto tempo fino a riconoscerne l’odore a distanza!

        Non fece una grinza il volto di Lidia, ma dentro di se si chiese come faceva a sapere della sua allergia alla soia.

        - Commissario, lei non può obbligarmi a mangiare qualcosa che per cui io sono allergica.

        - Giusto!

Qualcuno bussò alla porta, la governante andò ad aprire, era don Raffaele.

        - Grazie don Raffaele di essere venuto, lei porta con se la ciliegina da mettere sulla torta, si accomodi. Lei Bettina, si rechi nella camera della signorina Lidia, sotto il passamano dello scrittoio c’è una foto, per favore la porti e la consegni a don Raffaele.

        Il sacerdote prese la foto tra le mani ed esclamò:

        - Quanto eravamo giovani!... Guido e Lidia, un amore svanito nel nulla!

        Il commissario Parelli tirò dalla tasca la boccetta che conteneva ancora tracce di stricnina, la mostrò agli astanti:

        - Grazie don Raffaele, grazie signorina Bettina, ora non manca nulla, la gelosia è il movente, l’arma del delitto è il contenuto che stava in questa boccetta, l’assassina è allergica alla soia! Il caso è chiuso!  



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