lunedì 25 marzo 2013

IL CASELLO DI ORONZO 23.marzo.2013 Racconto breve - LINEA FERRATA PALERMO - SAN CIPIRELLO - GIBELLINA

















Mario Scamardo




I Racconti del Borgo 

Il casello di Oronzo
 





     Era il maggio del 1928 quando mamma Rosa diede alla luce il piccolo Oronzo, lultimo di otto figli, lunico maschio, le altre tutte femmine differivano in età, mediamente diciotto mesi luna dallaltra. Perché Oronzo? Perché lo zio Faro, il padre, era di origine pugliese ed aveva voluto dargli il nome del patrono della sua città natale. Otto figli, dieci bocche da sfamare e lunica cosa che possedeva lo zio Faro erano le sue braccia e, a periodi alterni, in funzione delle gravidanze, quelle di sua moglie che oltre ai lavori domestici si sobbarcava piccoli servigi presso alcune famiglie abbienti del paesino dove abitavano.
     Oronzo fu lunico degli otto figli a varcare la soglia di una scuola. Una mattina di ottobre, con un grembiulino nero ricavato da una sottoveste della madre e un collettino bianco, anchesso ricavato da una sdrucita federa di cuscino, il bambino venne accompagnato dal padre nellunica scuola del paese allocata in un fatiscente fabbricato di periferia dove, nei decenni precedenti, avevano girato le macine di un vecchio mulino, spinte da un asino bendato che girava attorno al grande asse.
     A gennaio del 1939, per le vie del paese il banditore, munito di un enorme tamburo, per una settimana di seguito, dopo aver fatto rullare il suo strumento, ad ogni angolo di strada annunziò che presso il comune ci si poteva registrare per essere impiegati nella costruzione della ferrovia che partendo da Palermo avrebbe dovuto raggiungere Gibellina e sarebbe passata, attraversando le montagne, proprio da San Cipirello. Lo zio Faro, avvertito dalla moglie e dalla figlia più grande, il mattino seguente si recò in comune e si pose in fondo ad una coda per la verità non tanto lunga. Lattesa anche se appena di una mezzora allo zio Faro sembrò infinita, non era andato, come soleva fare tutte le mattine, a piantare tutori in canna nel vigneto di un possidente e, non aveva racimolato una fascina di sterpi  per alimentare la cucina, e non aveva raccolto nei campi nessuna verdura da cucinare assieme a quel po di pasta che la moglie la sera prima aveva tirato fuori col mattarello ed aveva messo ad asciugare stendendola su un graticciato di cannucce. Quando arrivò il suo turno, dopo aver dato le generalità e le sue attitudini, lomino seduto al tavolo gli chiese se sapesse leggere e scrivere, poi gli mise un foglio davanti e gli dettò un paio di frasi. Lo zio Faro aveva una bella grafia, nelle ore di riposo leggeva, ma non potendosi consentire il lusso di comprare il quotidiano, leggeva con una o due settimane di ritardo, quelli che il barbiere risparmiava di tagliare in quadrucci  e che poi usava per pulirvi il rasoio mentre sbarbava gli avventori. Luomo da bambino, nella sua Puglia, era andato a scuola, aveva conseguito la licenza elementare ed aveva continuato a studiare sotto la vigile cura del suo parroco che sperava di farlo entrare in seminario. Lomino dietro il tavolo non segnò il suo nome sul solito registro ma, ne prese uno foderato con una carta fiorata e fù lì che appuntò i suoi dati, poi gli chiese di ritornare il mattino seguente perché avrebbe voluto riparlargli del suo nuovo impiego.
Lo zio Faro non ritornò subito a casa, imboccò un viottolo della periferia e tornò di lì a due ore con un grosso tronco sulle spalle e con un bel fascio di verdure.  Parlò in disparte con la moglie e assistette al suo inginocchiarsi davanti ad una piccola immagine della Vergine Maria, si segnò anche lui, poi cominciò a spaccare il tronco e lo ridusse in piccoli ciocchi.


   Il venditore di biciclette consegnò allo zio Faro, senza un centesimo di anticipo, una bici usata, telaio, manubrio, ruote, pedali ed un fanale collegato alla dinamo, poi gli consegnò una pompa per gonfiare le ruote, due chiavette un tubo di mastice, un pezzo di vecchia camera daria:
 - C’è tutto nelleventualità che foriate, me la pagherete a settimana, la ferrovia paga il sabato, voi per raggiungere la galleria che stanno scavando non potete andare a piedi.
Dopo una settimana, lomino che lo aveva registrato al comune, nel consegnargli il salario, che era triplo rispetto a quello che guadagnava in campagna, gli disse che, ultimata la galleria avrebbe avuto lincarico di far lui da contabile per il pagamento dei salari e che durante la settimana si sarebbe adoperato a gestire il magazzino delle attrezzature che la ferrovia aveva approntato nel cantiere.
     Lo zio Faro era diventato un punto di riferimento, tanto che anche la sua diaria era aumentata e si era consentito il lusso di far montare nella bicicletta i parafanghi e il campanello.
     Le prime tre figlie erano diventate da marito e, così, a cominciare dalla prima, ogni diciotto o venti mesi, si sposavano. Dote, anche se modestissima, vestiti, rinfreschi, e lo zio Faro si indebitò, troppi impegni, troppi debiti, sembrava dovesse sfamare tre bocche in meno, mentre le bocche diventarono tre in più. Da solo, ad onta di una retribuzione quasi doppia rispetto agli altri, non ce la faceva e, pur sacrificandosi con le ore di lavoro straordinario, non ne veniva fuori. Oronzo aveva finito le elementari, anche lui con laiuto del parroco aveva superato il secondo anno del ginnasio. Col cuore in gola zio Faro si recò dallomino della ferrovia e chiese un lavoro per il suo figliolo. La galleria era quasi ultimata, il percorso tracciato e nei vari paesi si innalzavano le mura delle minuscole stazioni, i binari erano accatastati lungo il percorso ed anche le traversine. Lomino, lo guardò in viso, colse il suo quasi terrore di non poter far fronte agli impegni presi e lo interrogo:
 - Quanti anni ha il vostro figliolo?
 - Dodici, signore, dodici compiuti e sa leggere e scrivere.
Lomino sbigottito:
- Dodici?...
- Si, signore, è un ragazzo forte, e poi ancora quattro sorelle che fra poco saranno anche loro in età da marito.
- Ma è un bambino! Questo è un lavoro pesante!
Lo zio Faro abbassò gli occhi e chinò il capo, non seppe trattenere una lacrima e lasciugò con la tesa del suo cappello sdrucito.
- Non vi prometto nulla, lasciatemi pensare dodici anni un sacrilegio!
Si alzò dal piccolo scranno, si avvicinò a zio Faro, gli sbattè una mano sulla spalla:
- Sognavo di fare il medico secondo di sei fratelli avevo tredici anni quando mio padre e mio fratello maggiore rimasero schiacciati da una frana. Tonnellate di terra li copersero, ci vollero due giorni per recuperare i corpi e mia madre non potè nemmeno piangerli, quattro bambini piccoli e senza un lavoro implorò tutti perché la facessero lavorare nella stessa cava, alla fine le concessero di prendere me a mezza paga, avevo tredici anni appena compiuti, e come ben vedete non ero un gigante
Sollevò un piede, slacciò la scarpa, se la tolse:
- Guardate, il mio sinistro è mezzo piede, la scarpa e piena di carta stropicciata, un blocco non mi schiacciò ma tranciò il mio piede e, solo la pietà degli altri operai, che lo chiesero a viva forza, mi consentì di ritornare al lavoro facendo il vivandiere. Signor Faro, attrezzatelo di un paio di brocche dargilla, di un po di piccole caraffe, ora è estate e fa caldo, girerà per il cantiere portando lacqua agli operai, di pomeriggio tenetelo in magazzino a rimettere in ordine gli attrezzi.
Lo zio Faro, commosso, prese il braccio dellomino, lo strinse e singhiozzò. Lomino lo rincuorò:
- Su, signor Faro, sul registro non segnerò la sua data di nascita e, a fine settimana avrà la sua paga intera!
     Oronzo fece per tutta lestate la spola tra le squadre di operai trascinandosi la sua brocca e, nel pomeriggio aiutato dal padre, sistemò nella rastrelliera gli attrezzi. Quando sopravvenne la stagione invernale si attrezzò di due grossi thermos, di un po di bicchieri e rifocillò le maestranze.
     La linea ferrata si allungava ogni giorno di più, traversine, binari e bulloni, poi ancora ghiaia ed ancora binari, e le stazioni erano già munite dei piazzali, vi era stata portata la corrente elettrica ed erano stati montati i grandi orologi. Oronzo era orgoglioso, lui aveva contribuito acchè quei paesini sperduti tra le colline, fossero più vicini tra loro e più vicini alla città, Palermo, il capoluogo, che lui non aveva mai visitato, ma che era nelle promesse del padre che gli aveva detto:
- Figliolo, la prima corsa sarà nostra, andremo a Palermo, voglio comprarti un bel vestito, un cappello ed un paio di scarpe nuove, di quelle che fanno lo scrocchio quando cammini, e voglio comprare un cappellino a tua madre
Quando lo zio Faro nominava sua moglie, gli tremava la voce, quella donna che oltre a dargli otto figli, gli aveva donato la gioia di vivere.


     Aveva sedici anni Oronzo quando il piazzale della piccola stazione si riempì di gente, cera il sindaco, il parroco, il farmacista, il medico, la sua prima maestra e cera pure una fanfara dei bersaglieri, fatta arrivare apposta. Tutti guardavano verso est, verso Palermo, finalmente un campanello si mise a trillare, poi il primo sbuffo della locomotiva che lentamente si avvicinava e la fanfara intonava linno di Mameli. Con un grosso sibilo il locomotore sbuffante si fermò davanti alla stazione, scesero delle persone in cappello con barbe curate, militari  gallonati, un vescovo e tante signore in cappello. Qualcuno nel piazzale parlò, il vescovo benedisse il treno e gli astanti, poi il capostazione fischiò e tutti risalirono sulle tre carrozze, alzò la paletta e il treno ripartì per raggiungere la prossima stazione.
     Le maestranze pian pianino vennero licenziate, fino a quando arrivò il turno dello zio Faro. Lomino delle ferrovie lo convocò e gli comunicò che il lavoro era finito, ma per Oronzo aveva ottenuto che diventasse casellante, là dove, cinquecento metri prima della stazione i binari incrociavano la strada che conduceva a Corleone. Un dolore per la perdita del lavoro ed una gioia per la sistemazione definitiva del figlio.


     Oronzo prese a fare il casellante, due treni al giorno, alle otto del mattino passava per andare a Gibellina, alle sedici ripassava per andare a Palermo. Non gli avevano dato neppure una divisa, solo un cappello con visiera e due bandierine rosse.
     La guerra era sul finire, gli americani giravano in jeep e non si vide più lombra di un tedesco o di un fascista, nessuno gli fece più le sgridate e le paternali ostentando senza ragione potere su tutto. Un giorno cominciò a non passare più il treno, lavevano appena finita quella ferrovia, ma qualcuno in alto decretò che era già un ramo secco da smobilitare. Cominciarono a smontare  i binari, poi le traversine, poi gli orologi, i campanelli, i lampeggiatori, anche quelli del casello, ma nessuno comunicò ad Oronzo che il casello non aveva più funzione e allufficio postale continuò ad arrivare il suo stipendio, fino a quando un mattino qualcuno a Palermo lo convocò per comunicargli il suo licenziamento. Oronzo non fece una grinza, senza conferire col padre, cominciò a cercarsi un lavoro. Nelle campagne nessuno gli offrì di lavorare una sola giornata, in estate quando le messi erano bionde, attese che tutti ebbero finito di mietere il grano e, con un sacco sulle spalle, cominciò a raccattare qualche spiga qua e là , fino a riempire il sacco. Misero bottino il suo, un giorno a raccogliere spighe ed un giorno a battere con un bastone le stesse, spagliarle e separarle dalla pula. Oronzo per riempire tre sacchi di grano impiegò un mese. La legna la raccoglieva per le strade di campagna, ed il vento che spezzava qualche ramo, non era sempre benevolo con lui. Le sue scarpe erano a brandelli e quando qualcuno, per un paio di scarpe ancora in buone condizioni, gli chiese di pulirgli una stalla con venti mucche, il ragazzo accettò e quando vennero liberati i vitelli per allattarsi, Oronzo si attaccò ad una mammella pregna di latte e succhiò come un vitellino fino a saziarsi, finì di scaricare il letame nella concimaia, prese le sue scarpe ed andò via. Brutta cosa la guerra, cosa aveva lasciato tuttintorno, miseria e desolazione! La sua famiglia non riuscì a convincerlo di ritornare a casa a dividere un pasto, ed un mattino, a piedi, si recò a Palermo. Trenta chilometri di strada sterrata e impervia transitata da qualche carrozza e una corriera dove gli sparuti passeggeri, nei tratti in salita dovevano scendere e spingerla, due giorni di marcia forzata e, quelle sue scarpe quasi nuove cominciarono a dare i primi segni di vecchiaia. A Palermo, ancora distrutta dai bombardamenti, il giovane trovò piccoli lavoretti faticosissimi e non sempre riuscì a riempirsi la pancia, scaricare cassette al mercato, spingere carrettini degli ambulanti che non potevano consentirsi un asino, trasportare fuori dai condomini i bidoni delle immondizie, raccattare cartoni, ma mai una lira in più di quanto non gli servisse appena per alimentarsi. Dormiva al porto, in una stanzetta di un palazzo sventrato dalle bombe, senza porta, senza una parete, con un tetto penzolante e, talvolta, sentiva rotolare i mattoni che pian pianino si staccavano dalle grandi crepe.
Il suo fu sempre un sonno poco sereno, segnato dalla stanchezza. Quando dopo avere scaricato decine e decine di cassette, si vide ricompensare con cinque mele, allora capì che quella città non poteva dargli altro, ed intraprese il viaggio di ritorno, a piedi. Ritornò in paese al suo casello, dove non cerano più le sbarre, calcò il suo cappello con la visiera e strinse tra le mani le sue bandierine rosse. Vide andare in malora la stazione, assistette ai furti delle traversine, dei binari, dei bulloni, sinanco della ghiaia. Non sapeva fare altro Oronzo, quelle cose le aveva imparato a dodici anni, proprio quando avrebbe dovuto giocare, studiare, erudirsi e prepararsi alla vita. La miseria dilagava ed anche nelle campagne il vecchio padre non trovava lavoro, la sua vita seguiva il degrado della piccola stazione, della linea ferrata, del casello.
     Ridotto ad un relitto, passava le giornate a cercare nei campi qualche verdura, razziava le uova nei nidi dei piccioni, in quelli dei corvi e, in uno stagno che era di lì a poco, acchiappava le rane per prepararsi la cena. Un monaco questuante un giorno si fermò al casello per ripararsi da unacquazzone, Oronzo lo fece accomodare sulla panca di legno incastrata alla parete di fronte, ed il monaco ascoltò il lungo narrare del giovane, ma ebbe altresì conto dello stato di depressione e di abbandono. Lo invitò a recarsi con lui al piccolo monastero, avrebbe trovato conforto e, forse, come riempirsi la pancia, e per cercare di persuaderlo gli disse:
- Caro figliolo, ormai da un bel po la guerra non è più, ha lasciato miseria e morte, tanta morte da far si che tu ti sei convinto che anche la speranza sia morta. Vedi, lo Stato dovrebbe essere un buon padre, ed un buon padre si cura di tutti i propri figli, a cominciare da quelli meno fortunati. Al sud non ci sono industrie, tarderà a partire la ricostruzione, c’è solo unagricoltura arretrata, senza meccanizzazione; al sud non si sono fatte mai infrastrutture, questa ferrovia, che poteva essere il mezzo per lo sviluppo di questa zona, prima ancora che cominciasse a produrre frutti, è stata cancellata dai progetti dello Stato, di quel padre che anziché curarsi dei deboli, li abbandona al loro destino, noi siamo i figli di un Dio minore! Tu non perdere mai la speranza, lotta, il buon Dio sicuramente non ci abbandonerà!
Oronzo ascoltava, forse capiva poco, forse la sua mente era distratta:
- Fratello, se lo Stato, ripensandoci, dovesse aver lidea di attuare il programma che sera fissato per lo sviluppo di questarea, allora io voglio non perdere la speranza. Ho visto bagnare col sudore della fronte degli operai tutto il tracciato della ferrovia, dalla galleria a questa stazione, avevo appena dodici anni e, con la brocca sulle spalle ho percorso chilometri per dissetare gli operai, alleviando la loro fatica. Aspetterò in questo casello che ripassi il locomotore e le carrozze e con le mie bandierine segnalerò il passaggio del treno.
     Il monaco lo abbracciò e carezzò il suo capo, ma capì che la sua mente era travagliata e che nessuno avrebbe potuto sradicarlo da quel casello ferroviario.
     Un giorno Oronzo si mise a scavare una grande buca, proprio davanti alla stazione, mise un po di ghiaia al fondo, poi staccò dal muro la lavagnetta di ardesia dove il vecchio capostazione scriveva gli orari di partenza e di arrivo, la lavò per bene e cominciò a scolpirla con un minuscolo scalpello ed un martellino, realizzò la sua lapide e la sistemò in cima alla buca. Linverno venne gelido ed anche le verdure spontanee furono ricoperte dalla neve, lultima riserva di petrolio che alimentava il suo fanale era agli sgoccioli, si sistemò nella buca con in mano le sue bandierine ed attese che il freddo compisse la sua opera.
Giorni dopo la pietà dei cittadini gli diede sepoltura in luogo consacrato, la lapide di ardesia con raffigurato un locomotore campeggia sul povero tumulo, ma tutti il giorno dei morti deposero su quel tumulo un fiore.
La guerra aveva lasciato miseria e morte, la ricostruzione era ancora lontana. Ancora oggi, quel rudere mai distrutto è il casello di Oronzo, ancor oggi chi passa si segna ripetendo sommessamente: - Uno dei tanti figli del Sud!




La vecchia stazione, concessa dalle ferrovie, ospita oggi gli uffici di una cantina sociale, la vecchia linea ferrata è stata trasformata in una strada che collega San Cipirello a Piana degli Albanesi, una diramazione conduce al Parco Archeologico di Monte Jato, il vecchio casello, ristrutturato, è diventata una casa di civile abitazione... ma questo è ancora Sud!