venerdì 21 novembre 2014

LA MATRIOSCA - Racconto breve - (giallo) 21 Novembre 2014




Mario Scamardo

I RACCONTI DEL BORGO
 

La matriosca
       I tronchetti bruciavano sugli alari del caminetto, don Adelmo, il parroco della chiesa del Carmelo, sorbendo un the che Marianna, la badante, gli aveva servito, intratteneva le quattro sorelle Grassi, tutte nubili, Rosina, Mafalda, Augusta e Delia, la più piccola, più minuta delle altre, gracile, malaticcia, scorbutica, consumatrice di farmaci fino alla paranoia, igienista, fino al punto di indossare i guanti per maneggiare le pillole che ingurgitava e che, di volta in volta, depositava con estrema cura nel cassetto del suo comodino. Tra Augusta e Delia c’era Piercarlo, che abitava in periferia, unico maschio, cinquantenne, che aveva sposato Rosaura, di vent’anni più giovane di lui. Tutti e cinque i fratelli dividevano un cospicuo vitalizio lasciato dai genitori che permetteva ad ognuno di vivere con grandi agi. Marianna ritirò il vassoio e ritornò in cucina, lasciando le quattro zitelle ai loro sfoghi col parroco che sapeva ascoltarle pazientemente, anche a fronte di cospicui oboli che riceveva settimanalmente da Rosina, in nome e per conto dell’intera famiglia. Pochi uomini erano entrati in quel salotto, ad accezione di un vecchio zio, l’elettricista e il commesso della pasticceria del bar difronte, che tre volte la settimana portava un vassoio di dolcini da accompagnare il the che veniva servito puntualmente alle diciassette, salvo qualche ritardo di don Adelmo. Da quando si era sposato Piercarlo accedeva alla sua casa natia il martedì da solo e il venerdì in compagnia di sua moglie, sempre sorridente, cordialissima, ma guardata sempre con sospetto, in quanto tutte e quattro le sorelle pensavano che lei avesse sposato il fratello solo per interesse. La più giovane, Delia, durante la visita, trovava sempre una scusa per appartarsi, e ritornava in compagnia, solo al momento del commiato. Non uscivano mai le sorelle Grassi, e se lo facevano, dovevano essere almeno in due, sempre eleganti, sempre curate, ma sempre guardinghe, a passo sostenuto si recavano alla fermata dei taxi e si facevano portare al centro per i loro acquisti. Il giardinetto che circondava la villetta era sempre ben tenuto, circondato da un’alta cancellata e da una fila di fitti allori ornamentali che non consentivano ad alcuno dei passanti di potere sbirciare dentro e, spesso, d’estate, le sorelle e gli eventuali ospiti, consumavano il rito del the sotto un gazebo nel piccolo prato. Due volte la settimana Rosina, la  maggiore, riuniva nel salotto davanti al camino le sorelle e leggeva loro una novella, un passo del Vangelo, il libretto di un’opera, un canto della Divina Commedia, un articolo del quotidiano, poi, nel rispetto delle idee di ognuna di loro, partiva il commento e il confronto, mentre Marianna, la badante, ascoltava i loro commenti spolverando piatti e ninnoli che facevano bella mostra in un’enorme vetrina liberty in palissandro.
        Si avvicinava il Natale, Rosina e Mafalda si erano recate al centro a comprare i regali per tutta la famiglia, Marianna e don Adelmo compresi. La famiglia era solita riunirsi il tredici dicembre, il giorno di Santa Lucia, per continuare a ricordare con una cena l’onomastico della loro mamma, deceduta da un ventennio. Il grande tavolo ovale della sala da pranzo venne apparecchiato con otto coperti, uno in più dei commensali, a capotavola veniva preparato un coperto ma non veniva messa la sedia, venivano girati sottosopra i piatti e i bicchieri e veniva posto il tovagliolo sul piatto, quello era il posto dove sedeva a tavola la madre, un rito diventato nel tempo una normalità. Bussarono alla porta, Marianna fece accomodare don Adelmo e cinque minuti dopo entrarono Rosaura e Piercarlo. Fu servito un aperitivo in salotto, poi tutti presero posto attorno alla grande tavola e al cenno di Rosina, Marianna servì le portate. Imperava il silenzio che venne rotto da don Adelmo:
-            Piercarlo, quando la tua bella moglie ci allieterà    regalandoci un bel bambino?
Il silenzio ritornò per un attimo sovrano e tutti gli occhi furono puntati su Piercarlo.
-             Don Adelmo, siamo sposati da cinque mesi, Rosaura ci regalerà sicuramente quest’evento importante, appena Dio vorrà.
       -       Non dovete temporeggiare, non c’è più bello di un bambino, la famiglia si completa e le ziette saranno felici di tenerlo fra le braccia. 
        Delia diventò irrequieta, nervosa, con la mano sinistra stropicciò il tovagliolo, si alzò.
        -        Scusate, sono stata distratta, corro in camera mia, ho dimenticato di prendere la mia compressa di valeriana, torno subito.
        Si alzò pure Rosina, imboccò il corridoio e dopo un po’ rientrò dalla cucina assieme alla sorella più piccola. Rosaura aspettò che don Adelmo finisse di servirle del vino:
        - Stai bene Delia?
        - Si cara, a volte dimentico di prendere le mie compresse, ma ora è tutto a posto, vi chiedo ancora scusa.
        - Perché domani non vieni a trovarmi a casa, staremo un poco assieme a raccontarci qualcosa, mi farà piacere, se vuoi verrà Piercarlo a prenderti.
        - Grazie, ci penserò.
        La cena continuò serena tra gli aneddoti di don Adelmo e la faccia sorpresa di Mafalda che ascoltava senza perdere una battuta e si immedesimava nel racconto. Tutti erano ghiotti di panna, tranne Rosaura che aveva un’avversione a tutti i dolci che la contenessero. Rosina aveva ordinato al suo pasticciere una torta guarnita riccamente con riccioli di panna e fragoline, ed il garzone aveva portato un secondo involto con un dolce guarnito di crema pasticciera, proprio per Rosaura. La badante portò i due vassoi e a servire volle essere Augusta, destra nel tagliare la torta e impeccabile nel servirla. Arrivava dalla cucina la fragranza di caffè che Marianna aveva versato in una caffettiera di porcellana cinese, aveva appena finito di consumare il suo dolce Rosaura, quando si alzò di scatto:
        - Scusate, scusate, vado in bagno.
        Mentre Piercarlo continuava a far domande a don Adelmo, le quattro sorelle si guardarono in faccia, ma poi ognuna riprese a finire la torta e a sistemare il tovagliolo sotto lo sguardo di Marianna. Trascorsero venti minuti circa, Rosaura non ritornava dal bagno, solo Marianna ebbe il buon senso di parlare:
        - Scusate signor Piercarlo, la signora non è ritornata dal bagno, mi è sembrata concitata quando si è alzata dalla tavola.
        Don Adelmo si zittì e chiese alle donne:
        - Qualcuna vada a vedere, potrebbe sentirsi poco bene.
        Si alzò Piercarlo e seguito da Marianna imboccò il corridoio, un attimo dopo rientrò la badante sconvolta:
        - Correte, la signora è a terra, la sua bocca è piena di schiuma, padre, vada pure lei.
        Raggiunsero tutti il bagno, Rosaura esalava l’ultimo respiro, qualcuno corse al telefono a chiamare un medico che arrivò di li a poco, constatò la morte della donna e sentenziò:
        - Avvelenata! Stricnina! Dov’è un telefono, chiamo la polizia!
        Le quattro donne si strinsero in un angolo, farfugliarono qualcosa, il marito rimase in ginocchio accanto al corpo esanime e il sacerdote recitò una prece. Il medico fece uscire tutti e li convogliò nel salotto:
        - Nessuno tocchi niente e nessuno si allontani, la polizia sta arrivando!
        Una sirena, poi un’altra e due macchine si fermarono sull’uscio. Il commissario Parelli guardò assieme ad un sergente la scena del crimine, appuntò alcune cose su un taccuino, dopo che un fotografo immortalò la scena, uscì dal bagno e diede ordini ad un agente di informare il giudice. Si rivolse al medico e chiese l’ora del decesso e le sue impressioni.
        - Veleno, commissario! Stricnina! La schiuma alla bocca me ne da conferma, ma piglieremo un campione della saliva per averne certezza assoluta.
        - Fra poco lo farà il medico legale! Nessuno sparecchi, chiudete la cucina, rimanete tutti in salotto fino a quando non avremo finito i rilievi!
        Rosina, Mafalda, Augusta e Delia sedettero davanti al camino, don Adelmo accompagnò Piercarlo ad una poltrona e sedette accanto, Marianna ed il commissario entrarono in sala da pranzo.
        - Signora, da quanto tempo si occupa di questa casa?
        - Da venti anni esatti, da quando è venuta meno la signora Lucia, la mamma delle signorine Grassi e del signor Piercarlo.
        - Lei abita in questa casa?
        - Si, ho la mia stanza in fondo al corridoio, accanto alla camera della signorina Delia.
        - Chi ha avvelenato la signora?
        - Commissario, domanda da un milione di dollari!
        - E’ stata lei?
        - Perché avrei dovuto, lei era l’unica persona che frequentava questa casa e che portava un alito di freschezza, un sorriso, una gentilezza!
        - I domestici di solito sanno tutto di tutti i componenti delle famiglie, asti, incomprensioni, interessi.
        - Tutte nubili, solo Piercarlo si era sposato, direi contro le volontà delle sorelle, anche se non lo hanno mai detto, ma è trapelato dai loro umori. Interessi? Ognuno aveva la sua parte, stabilita di comune accordo.
        - Visite?
        - Tranne il prete e il commesso della pasticceria, mai nessuno. Il vecchio zio Ignazio Grassi, fratello del padre, anch’egli non sposato, che veniva una volta la settimana, è deceduto circa tre mesi addietro.
        - Bene, mi dica quale era la disposizione a tavola.
        Marianna fornì tutte le notizie e quando finì il commissario le chiese:
        - Durante la cena, qualcuno ha lasciato questa stanza?
        - Si, dopo aver servito il risotto, la signorina Delia si è recata nella sua camera per pigliare una compressa di valeriana, lo fa a tutti i pasti, se ne era dimenticata, Rosina si alzò anche lei e imboccò il corridoio, poi tornarono assieme e rientrarono dalla cucina, strano, di solito nessuno passa dalla cucina.
        - Altra gente che ha lasciato la stanza?
        - Nessuno!
        - Bene! Grazie, lei può andare a riposare, durante la notte i miei agenti faranno tutti i rilievi, domani la cucina sarà sua, stasera pentole e stoviglie varie rimarranno imbrattate.
        La badante andò in camera sua e si mise a letto. Il commissario interrogò Piercarlo e don Adelmo, poi mandò a letto le signorine e attese l’arrivo del giudice.
        Il cadavere della bella Rosaura fu portato in obitorio per l’autopsia che accertò l’avvelenamento da stricnina.
        Il commissario Parelli ispezionò tutte le camere, compresa quella della badante, non trovò nulla che gli desse l’idea di un movente, ma nella camera di Delia notò un mobiletto delle medicine, mille scomparti, tante ricette appese e centinaia di scatole di compresse per tutte le malattie, flaconi di pillole di effetto placebo, era di fronte ad una malata immaginaria che aveva la mania di ingurgitare pasticche in tutte le circostanze, solo una mania! Non una pillola che fosse in grado di uccidere una mosca, nessun flacone di stricnina, ed un elenco di specialità medicinali con orari di somministrazione. Stava per uscire quando notò che un quadro appeso ad una parete pendeva da un lato, lo staccò, dietro attaccata con lo scotch una busta gialla. Staccò la busta, la aprì, era il testamento dello zio Ignazio, una ingente somma destinata in parti uguali ai cinque nipoti, poi un’altra somma ingente destinata a Rosaura, solo se le avesse regalato un nipotino maschio che portasse avanti il nome dei Grassi. Nel caso contrario, la somma sarebbe stata ridivisa tra i cinque fratelli. Trovato un movente! Bisognava trovare l’avvelenatrice o le avvelenatrici! Il mattino delle esequie, mentre tutti erano in chiesa, il commissario Parelli, certo dell’estraneità di Marianna, si recò a casa Grassi e la incontrò:
        - Signora, lei sapeva del testamento?
        - No, per nulla!
        - Il movente è forte, ma chi delle quattro ha ucciso Rosaura?
        Parelli si mise a passeggiare in camera da pranzo, poi entrò in salotto. Marianna spolverava i ninnoli della grande vetrina in palissandro, prelevò una matriosca, la smontò, la spolverò e la ricompose, lasciando fuori la bambolina più piccola, la mise accanto alla grande e continuò il suo spolverare. Parelli percorse per lungo e per largo il salotto, si recò in cucina e ritornò ad ammirare la grande vetrina. Strano! Marianna aveva ricomposto la matriosca e aveva lasciato fuori la bambola più piccola. Non disse una parola, La grande Rosina, la piccola Delia, le uniche due che si erano allontanate durante la cena, le due avvelenatrici? Era un messaggio della badante? Andò via il commissario, era stanco, andò a casa e dopo un panino lo colse il sonno. Quando si svegliò erano le sedici e trenta, sentiva freddo, si sciacquò il viso, lavò i denti, indossò cappotto e cappello ed uscì per recarsi in commissariato dove rilesse tutte le carte e tutti gli appunti sul caso Rosaura. La matriosca, la grande e la piccola! Cosa sa o cosa sospetta la badante! Il mattino seguente si recò a casa Grassi, quando arrivò in salotto si accorse subito che mancava la bambola piccola della matriosca, forse Marianna l’aveva rimessa a posto accortasi della dimenticanza. Si recò in cucina e con sua grande meraviglia vide in una scatolina il resto delle bamboline della matriosca, pure la più piccola. Marianna era lì, si asciugò le mani con uno strofinaccio, poi guardò in faccia il commissario:
        - Si, solo la grande!
        - Rosina?
        - Si meraviglia?
        - Mi spieghi come posso dimostrarlo.
        - Semplice! La mania di mettersi i guanti per toccare ogni medicina, e poi la mania di riporre con ordine certosino i guanti di filo bianco dentro il comodino. Mai Delia avrebbe toccato una boccetta contenente farmaci o veleni senza i suoi guanti, ed i suoi, quella stessa sera erano riposti in ordine nel comodino quando la giovane è andata in cucina. Rosina aveva già avvelenato il dolce con la crema pasticciera, senza farsene accorgere da alcuno, poi, quasi a cercarsi un alibi, attese la metodica sorella che era solita riporre l’involucro della pasticca nella pattumiera della cucina e rientrò in sala da pranzo con lei, dando l’idea che si era presa cura di Delia. La signorina Rosina è l’unica che usa il rossetto per labbra, la boccetta del veleno che io ho trovato per caso, spolverando l’acquasantiera posta sotto il suo capezzale, è sporca di rossetto, il suo, forse l’ha baciata come si bacia un amico, prima di aprirla e svuotarla sul dolce, una sostanziosa fetta di eredità, lo zio Ignazio!
        - Marianna, lei è un genio!
        - No, commissario, sono stata fortunata nel ritrovare la boccetta!
        - Mi consegni quella boccetta.
        - Non ce l’ho!... Venga, andiamo in salotto! La signorina Rosina l’ha cercata disperatamente, non poteva chiedermi se l’avessi vista io.
Il commissario seguì la badante che lo portò davanti alla vetrina liberty in palissandro nero, aprì in presenza dei cinque fratelli l’anta, poi additò la matriosca:
        - Commissario, è lei che è depositaria della verità!
Parelli prese la matriosca, l’aprì sotto lo sguardo torvo di Rosina e vi trovò dentro la boccetta unta di rossetto, che conteneva la stricnina. Marianna prese un tronchetto, lo sistemò nel camino, si tolse il grembiule e andò a prendere la valigia in camera sua.
        Rosina fu arrestata e venne condannata a ventisei anni di galera. Non scontò l’intera pena, trapassò solo due anni dopo.




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lunedì 3 novembre 2014

LA GAZZA - Racconto breve - 03 novembre 2014






















 
I Racconti del Borgo

Mario Scamardo

                               LA GAZZA                        



                Giorgio Zimma, sin da ragazzo aveva sempre fatto il maniscalco, aveva ferrato muli, asini e cavalli, aveva forgiato zappe, picconi, rastrelli e qualche vomere di aratro a traino animale. Figlio unico, aveva perso il padre in guerra e la madre l’aveva lasciato quando era ritornato dal servizio militare. Il lavoro, nella vecchia bottega, che era stata del padre, gli consentiva di sopravvivere, ma con l’avvento della meccanizzazione agricola, muli e cavalli cedettero il posto a sferraglianti trattori, e di zappe da forgiare se ne vedevano poche, fino a quando Giorgio spense la forgia e cercò un’occupazione presso un deposito di legnami. A cinquant’anni suonati, il lavoro di accatastare tronchi e di spostare assi di legno era diventato pesante, allora, per sopravvivere, si adoperò a fare dei servigi, piccoli lavoretti, pulire e rigovernare un pollaio, andare a fare la spesa a degli anziani, recarsi alla posta per spedire delle raccomandate o ritirare dei pacchi, rigovernare una stalla con tre o quattro mucche. Il compenso?  Un uovo, due lenticchie cucinate, un pezzo di pane, allora mangiava altrimenti, al calar delle ombre, era un cercare nei cassonetti per racimolare gli avanzi. Pensione? Non l’aveva neppure richiesta, non aveva versato nessun contributo, e quando aveva faticato presso il deposito di legnami, lo aveva fatto in nero. Per fortuna non era stato mai male, e l’unica medicina che aveva usato erano i limoni che crescevano nel piccolo orto abbandonato, proprio limitrofo alla sua bottega, rimedio per mal i testa, diarrea, influenza, prurito, usato come disinfettante e per condire talvolta un’insalata. Solo una volta gli era capitato di trovare una banconota da diecimila lire a terra, saggiamente piegata in quattro, si era abbassato, l’aveva raccolto e, tenendola in mano, sperava che qualcuno ne rivendicasse la proprietà. Nessuno gliela chiese e la intascò. Da quel giorno, i suoi occhi scrutarono ogni centimetro quadrato delle strade che percorreva, e si abbassava a raccogliere qualunque cosa luccicasse, una monetina, un tappo a corona, un frammento di vetro, tanto da meritarsi l’appellativo di “Giorgio a carcarazza”,  (Giorgio la gazza).

 L’inverno si avvicinava, e il vecchio maniscalco aveva riempito l’ampio vano della propria bottega di fascine racimolate per le strade di campagna, piccoli tronchi rinsecchiti dalle siepi e i rami che il vento aveva strappato agli eucalipti. In un angolo, il carbone che nel tempo gli era servito per azionare la forgia, e che poi aveva adoperato, anche se di rado, per lessare qualche patata, qualche manciata di legumi, qualche ciuffo di verdure raccolte qua e la per i viottoli, che poi condiva con appena quattro o cinque gocce d’olio e un pizzico di sale, era agli sgoccioli, ancora sette o otto secchi ammonticchiati da decenni in quell’angolo nero dove nemmeno i ragni tessevano le loro tele.

            Era l’imbrunire di un giorno piovoso, Giorgio era appoggiato allo stipite della porta cigolante della bottega, aspettò che fumasse il camino della casa di fronte, prese la paletta che nel tempo gli era servita a prendere il carbone e bussò, uscì di li a poco con una palettata di brace, la depose in una vecchia bacinella di zinco e vi pose sopra alcuni piccoli ramoscelli che prelevò da una fascina, vi soffiò e subito una fiamma illuminò l’oscuro ambiente, poi mise sopra una palettata di carbone e aspettò che covasse per portarselo su nella camera in cui dormiva. Accese un moccolo di candela ed attese il sonno a pancia vuota, l’unico pasto lo aveva fatto nel primo pomeriggio, due fette di melone bianco e un pezzo di pane raffermo. Portò fuori la bacinella, ormai colma di cenere, soffiò sul moccolo e si mise a letto ricoprendosi con una vecchia trapunta. Sognò Giorgio, di solito non ricordava i sogni, diceva sempre che non sognava, che l’entità soprannaturale che gestiva i sogni non gliene mandava, perché sapeva che lui non avrebbe potuto pagare il sogno. Quella notte la gazza sognò di trovarsi alla corte del Regno di Napoli, riccamente vestito, imparruccato, profumato ed incipriato, al cospetto di Sua Maestà Ferdinando II che salutava una gran dama vestita di seta ricamata in oro, sua madre, si, così come l’aveva vista l’ultima volta, cinquantenne, compita, sorridente.

-         Mamma…

-         Giorgio, figliolo, avvicinati.

-         Si mamma, cosa facciamo qua, al cospetto di Sua Maestà?

-         Stai sereno figlio mio, Re Ferdinando ci ha invitato, non potevamo rinunciarci.

-         Ma, io sono un povero maniscalco, cosa potrà volere da me il Re.

-         Giorgio, noi siamo stati leali sudditi, Sua Maestà ci ha invitati perché vuole premiare la nostra devozione, porgimi la tua mano, è arrivato il nostro turno.

-         Cosa dobbiamo fare?

-         Nulla, dobbiamo solo inginocchiarci davanti a lui, poi dobbiamo attendere.

            Madre e figlio, mano nella mano, fecero i passi che li portarono davanti al trono, si inchinarono e poi si inginocchiarono. Ferdinando II assentì col capo, sorrise e:

-         Alzatevi, so della vostra devozione, e voglio ringraziarvi come solo un Re può ringraziare.

            Fece un cenno al ciambellano di corte che prelevò uno scrigno da un forziere, lo aprì e presi due pezzi di carbone li mise in mano a Giorgio.

-         Tieni figliolo, intasca questi due pezzi di carbone, sono la mia ricompensa, li tirerai fuori quando sarai uscito dal palazzo reale, non buttarli, nel carbone sta nascosta la forza dell’uomo, quel carbone che si trasforma in fuoco, che riscalda e poi, pian piano si consuma diventando cenere. Ora andate, Dio vi accompagni!

            Giorgio e sua madre fecero tre passi indietro, si inchinarono e guadagnarono l’esterno della grande sala del trono.

-         Mamma, ci ha fatto venire fin qua per due pezzi di carbone!

-         Abbi fiducia figliolo, tu segui quanto ti è stato detto, ripensa sempre alle parole che hai sentito, ora usciamo dal palazzo, io devo ritornare nel posto dove sono stata tanti anni, tu ritorna alla tua bottega. Quando accenderai questi due carboni, fanne buon uso, fai che chi sente freddo possa riscaldarsi con te, dividi con gli altri il suo calore, vedrai, si consumerà più lentamente e, forse, si rigenererà dalle stesse ceneri. A Chi sta al di sopra di noi, tutto è possibile, anche quello che potrà sembrarti assurdo!



            Varcarono la soglia del palazzo, ma Giorgio, come per incanto, si ritrovò vestito di stracci e sua madre era sparita, nelle tasche della vecchia giacchetta a quadri, solo i due pezzi di carbone e nulla più.  Il gallo dei vicini lo svegliò e Giorgio si ritrovò ricoperto della sua trapunta sdrucita, senza aver nulla da mettere sul fuoco. Quel sogno lo tormentò tutta la mattinata e, dopo essersi guadagnato tre uova per avere pulito un pollaio e rigovernato tre mucche, andò per i viottoli di campagna a raccogliere rape da mettere in pentola.

            Quando il vecchio maniscalco andò a ripigliare la palettata di brace nella casa di fronte, raccontò il suo sogno senza omettere nulla, tutti gli fecero notare che né lui né sua madre avevano potuto conoscere Ferdinando II che aveva regnato due secoli prima. La presenza della madre nel sogno fece fantasticare chi lo ascoltava e tutti tirarono fuori i numeri da giocare al lotto per tre settimane consecutive, otto la madre, dieci il re, quarantadue il carbone, un bel terno sulla ruota di Napoli! Il botteghino del lotto non ebbe pace per tre settimane di fila, i più furbi giocarono il terno su Palermo e Napoli, perché il sovrano aveva avuto i natali nel capoluogo siciliano, ed era morto nella reggia di Caserta, qualcuno giocò la cinquina, aggiungendo il trentuno e il quarantasette, morto che parla! Le tre settimane passarono, i numeri non uscirono e il sogno di Giorgio sprofondò nell’oblio. 




            La primavera stentava ad arrivare dopo un inverno pesante, nella bottega rimaneva poca legna, anche il vento non era stato bravo a rompere i rami di eucalipto e qualche stocco inzuppato stentava ad accendere, inondando di acre fumo tutto l’ambiente. Giorgio pensò allora di dar fondo al suo carbone, e quando fu davanti alla piccola catasta, si ricordò del sogno, dei due carboni che Sua Maestà Ferdinando II gli aveva regalato, si soffermò a pensare un po’, vide la sua giacchetta appesa al mantice della forgia, si avvicinò, infilò le mani nelle tasche e, con suo grande stupore trovò i due pezzi di carbone. Ma non era un sogno? Giorgio Zimma, inteso la gazza, scosse la testa, si recò sull’uscio e tirò a pieni polmoni un paio di boccate di aria fresca, o meglio, freddissima. La sua mente era confusa, si portò una mano alla testa e si grattò tra i capelli, come a volere uscire da uno stato confusionale, poi scosse il capo e ritornò all’angolo nero, prese la paletta e riempì la bacinella, qualcosa luccicò tra i pezzetti di carbone, Giorgio si fermò, abituato com’era a raccattare da terra ogni cosa, si abbassò e prese quel dischetto giallo che luccicava, una moneta d’oro, la strofinò saggiamente sulla manica della giacca da ambo le facce. Era proprio lui, Sua Maestà Ferdinando II, bello, pasciuto, con la barba, una moneta d’oro da quindici ducati, una piccola fortuna! Un fremito lo colse, il suo sogno, lui e sua madre tra i fasti di una corte e, due minuti dopo, la miseria imperante e la triste realtà del risveglio! Si pose sulla soglia e guardò la sua moneta alla luce del giorno, la intascò e tornò alla catasta di carbone per cercare di capire come c’era finita in quella catasta, piano piano scostò altri due pezzi di carbone, ancora un luccichio, poi un altro e un altro ancora, ne contò cinquanta, tutte d’oro, dodici da quindici ducati di Ferdinando II, dodici da trenta ducati con l’effige di Francesco I, sedici da trenta ducati con l’effige di Ferdinando I e dieci da sei ducati dove era raffigurato Carlo di Borbone, tutte d’oro, un tesoro inestimabile! Chiuse  la porta cigolante della bottega, salì per le scale e sedette sul letto, confuso ma contento, bevve un bicchiere d’acqua e cercò il calzino più integro che aveva in un cassetto, controllò che fosse adatto a contenere il suo tesoro, vi infilò le monete e baciò la calza, poi ne estrasse una a caso, una da sei ducati e, sistemata la sua calza sotto la camicia, con la moneta in mano si recò dal parroco. Don Fulgenzio, indaffarato in sacrestia a riporre i paramenti della messa, lo fece accomodare:

-         Giorgio, è un po’ che non ti si vede in chiesa.

-         Don Fulgenzio, il maltempo, il freddo, e spesso la fame mi hanno costretto a casa, anche se non dimentico mai di segnarmi prima di mettermi a letto e quando il gallo dei vicini mi sveglia al mattino.

-         Dimmi, cosa posso fare per te.

-         Reverendo, io ho avuto tra le mie tante disgrazie, una piccola fortuna, sbirciando tra le cataste di immondizie, ho visto luccicare qualcosa, mi sono chinato e l’ho raccolta.

                        L’anziano maniscalco, dopo la piccola bugia sul ritrovamento, infilò la mano in tasca e tirò fuori la moneta da sei ducati in oro, la porse a don Fulgenzio che la guardò con espressione di meraviglia.

-         Caspita! Sei ducati di Carlo di Borbone! Un collezionista la pagherebbe una fortuna!

-         Don Fulgenzio, io non conosco collezionisti, nemmeno gioiellieri, chiunque vedendomi così male in arnese mi accontenterebbe con una manciata di lire, io per la fame che mi ritrovo sarei costretto ad accettare e questa  piccola fortuna non riuscirebbe a soddisfare neppure la mia fame arretrata.

-         Giusto! Approfitterebbero di te.

-         Reverendo, io mi fido solo di lei, di un uomo  capace di dividere la sua minestra col primo mendicante che bussa alla sua porta. Le lascio la mia moneta, a lei difficilmente la piglierebbero in giro, io continuerò a riscaldarmi col carbone che mi è rimasto, troverò delle verdure per i viottoli di campagna poi, quando mi chiamerà, comprerò cinque ceri di quelli grandi, uno lo porterò sulla tomba di mia madre, gli altri quattro li accenderò ad altrettanti santi, poi le dirò a quali.

-         Cercherò di trarre il massimo profitto, lasciami andare in città, mi farò consigliare dal vescovo.

Intascò la moneta don Fulgenzio, si segnò, batté una mano sulla spalla di Giorgio, lo accompagnò alla porta della sacrestia e lo vide inginocchiarsi a pregare. Quattro giorni dopo il sacerdote si recò alla bottega del maniscalco, lo trovò seduto su uno sgabello davanti al fuoco, lo salutò e sedette sul cippo che prima portava l’incudine.

-         Amico mio, il buon Dio mi ha accompagnato nel delicato cammino che mi hai affidato, una fortuna! Cinque milioni e trecentomila lire.

Tirò dalla tasca un libretto al portatore di una banca cittadina con cinque milioni e glielo diede, poi uscì dalla tasca della tunica sei biglietti da cinquantamila e glieli mise in mano.

-         Giorgio, tu mi hai dato la tua fiducia, io ho adempiuto ad un dovere. Ora vado via, vado a confessare i fedeli prima che cominci la messa vespertina.

Giorgio la gazza si alzò, baciò la mano del parroco e lo accompagnò all’uscio. Infilò la mano sotto la camicia, toccò la calza piena di monete, chiuse la porta e si recò da un merciaio, acquistò cinque grossi ceri e ne accese uno al cimitero, ai piedi della tomba di sua madre. Ritornato a casa, estrasse da sotto la camicia la calza, la aprì e prelevò quattro monete con le effigi di Carlo di Borbone, di Ferdinando I, di Francesco I e di Ferdinando II, le poggiò al muro sul tavolo, distanziate l’una dall’altra, per ognuna accese un cero e recitò un requiem per ciascuno, e così tutti i giorni fin che i ceri non si consumarono. Si recò in città e comprò scarpe e vestiario decenti, poi riempì uno stipo di generi alimentari e chiamò un muratore e lo aiutò a fare le piccole riparazioni di casa sua. Liberò di ogni cosa la sua vecchia bottega e la imbiancò a calce di colore azzurro. Prima che finissero i soldi sul suo libretto, si recò in città e vendette una seconda moneta, stavolta era un trenta ducati di Francesco I, da un collezionista ricavò il triplo di quanto aveva realizzato don Fulgenzio, tanti soldi! Giorgio da buon parsimonioso spendeva il giusto necessario per poter vivere in maniera dignitosa. Quando incontrò un senzatetto che viveva di stenti, se lo portò a casa, gli approntò un letto e divise con lui la sua mensa. La gente del luogo spesso si chiese perché e come era cambiato lo stato di Giorgio, e lui:

-         Diventate carcarazze come me, gazze dovete diventare, io guardo sempre a terra, raccolgo tutto quello che luccica, lo metto in tasca e siccome raccatto ogni cosa, ho trovato una vecchia giocata al lotto, una quaterna, otto, dieci, quarantadue e quarantasette, la madre, il re, il carbone e il morto che parla, sulla ruota di Napoli, quaterna secca!

Gli interlocutori, convinti dalla piccola bugia di Giorgio, gli facevano gli auguri e si complimentavano con lui.

-         E quanto hai vinto?

-         Quanto basta a non saltare più i pasti, a far attaccare la corrente elettrica e ad invitare qualche poveraccio a consumare con me una cena.

Gli anni passarono, Giorgio la gazza diventò calvo e sdentato, le sue gambe cominciarono a vacillare, appoggiandosi ad un bastone, davanti ad un negozio di alimentari, si accorse di una donna giovane, vestita a lutto, che portava per mano un fanciullino di quattro anni con ciabattine di plastica in una giornata fredda e piovosa, l’avvicinò e chiese alla donna perché quel bambino infreddolito non aveva un paio di scarpe chiuse. La donna abbassò lo sguardo, strinse a se il bambino e, con le lacrime agli occhi, allargò una borsetta di plastica mostrandola a Giorgio:

-         Signore, questo pezzo di pane raffermo è tutto quello che abbiamo, quando sarà buio ci recheremo al vecchio casello ferroviario per passare la notte, tra i cartoni e una vecchia coperta.

Giorgio tirò dalla tasca un fazzoletto e si asciugò una lacrima, prese il bambino per mano:

-         Accompagnatemi a fare la spesa, io ho una casa, avevo un’ospite ma il buon Dio proprio dieci giorni fa lo ha chiamato a se, io son vecchio e solo, vi ospiterò nella mia casa, divideremo il cibo, in cambio non mi dovete nulla, solo la vostra compagnia. Poi, dopo aver pranzato mi racconterete la vostra storia. Io sono Giorgio Zimma, ma tutti mi chiamano carcarazza, la gazza.

-         Lui è Marco, ha quattro anni, io sono Adele, mio marito è morto solo due mesi fa, non abbiamo una casa, non ho un lavoro, viviamo di carità. Accetto il vostro invito, questo bambino al freddo, che piange per la fame, mi strazia il cuore.

Giorgio prese per mano il bambino e trascinandosi sul suo bastone entrò nel negozio, fecero la spesa e pian pianino si avviarono.  Adele prese possesso dell’abitazione, sistemò la stanza di Giorgio e sistemò la sua con due lettini, si diede da fare per rendere funzionale la cucina, il piccolo bagno, il locale a piano terra, e quella casa ebbe di nuovo una famiglia. Un giorno si fermò davanti l’uscio una vettura di grossa cilindrata, scese un signore ben vestito con una grossa borsa in cuoio marrone, entrò, salutò e si accomodò dietro un tavolo, era il notaio che raccoglieva le volontà di Giorgio, il quale donava alla sua morte la casa ad Adele. Quando Giorgio capì che mancava poco alla sua dipartita, lucidissimo, raccontò minuziosamente la sua storia, alzò un mattone dal pavimento e tirò fuori la sua calza con il piccolo tesoro, ancora quaranta monete, le consegnò alla donna.

-         Adele, sono quaranta monete, un tesoro, io te lo consegno, fanne uso solo per fare del bene, dividi sempre il tuo fuoco con chi ha freddo. Io non ti chiedo nulla, solo di ricordarti di comprare cinque ceri all’anno, uno lo accenderai sulla tomba di mia madre il giorno dei morti, gli altri quattro li accenderai in casa, fino a che non si consumeranno del tutto, i Borbone sapranno ognuno quale è il proprio cero, reciterai un requiem per loro.

               Poi prese il suo libretto al portatore, glielo diede e raccomandò di far studiare Marco, il suo figliolo, quel bambino che col suo amore e il suo sorriso, aveva alleviato la sua vecchiaia, lo aveva reso felice. Cenò con loro e si mise a letto, il mattino seguente, il giovane prete che aveva sostituito don Fulgenzio, fu chiamato per benedire la sua salma.