martedì 15 dicembre 2015

LIBERTA' E SILENZIO (Piccole riflessioni) 15/dicembre/2015







Mario Scamardo


Libertà e Silenzio



         Il significato della parola Libertà ha suscitato diverse interpretazioni, sin dai tempi antichi. Il libero arbitrio nasceva dal caso per Lucrezio, mentre per Socrate nasceva dalla virtù e dalla conoscenza. La Libertà, ma è solo una mia opinione, nasce dalla storia e dall’evoluzione biologica; Socrate sosteneva che la virtù nasce dalla conoscenza, ed essa ci rende liberi. Platone, discepolo di Socrate, concorda con il suo maestro, sostenendo che agire in Libertà significa seguire la ragione e professare il bene. Virtù e conoscenza traggono la loro origine dall’anima, la quale le trasferisce alla mente. Dunque, la Libertà è diretta dalla ragione. Aristotele sosteneva invece che il libero arbitrio nasce dal cuore. Nell’era moderna con Galileo e Newton e, quindi, successivamente, con Cartesio, il concetto di Libertà è connesso alla coscienza di sé, convinti della casualità delle leggi che governano la natura, attraverso le quali ad ogni causa deve corrispondere un effetto e viceversa.
Discernere sulla Libertà non è cosa da poco, ritenendo che esistono tanti concetti di Libertà quanti sono gli uomini sulla terra.

[...Una sera, quando toccò nuovamente a Giulia disquisire su un nuovo argomento, la ragazza volle parlare della Libertà:
– Nessuno può impedire ad una persona di amarne un’altra, nessuno può impedire ad un uomo di pensare, di fantasticare, di sognare.
Un uomo si può imprigionarlo nelle segrete più oscure, incatenarlo, strappargli la lingua e gli occhi, seviziarlo, ma non si potrà mai imprigionare il suo pensiero! L’uomo è libero di pensare, libero di amare, libero di sognare e di fantasticare.
         I potenti di tutti i tempi hanno dichiarato di lottare per la libertà. Sempre ci rendiamo conto che essa non è altro che un simulacro; spesso una scatola vuota, un simbolo a immagine e somiglianza di chi ne parla, utilizzabile a seconda del contesto e degli umori della folla.
         Siamo qualunquisti al massimo quando diciamo che le lussuose vetrine piene di beni, i grandi magazzini intasati, un attimo di pornografia e i miraggi dei mass-media tengono buono il popolo, e tanto lo vediamo come trionfo della libertà? In tanti, nascondendosi dietro la libertà d’espressione, sono in grado di strappare i sentimenti più comuni e più sacri. In nome della libertà sono stati e vengono perpetuati genocidi, sono state combattute atroci guerre, si uccidono ancora oggi milioni di donne e bambini o si lasciano morire di stenti, di freddo, di sete, di terrore, di violenza, di insicurezza, tutto ciò per la libertà.
         Ogni giorno nuove crociate si organizzano sulla base della più nera intolleranza, talvolta malcelata e mai sopita. La libertà ha la capacità di dividere il genere umano in degni ed indegni, amici o nemici, santi e peccatori, come se la quasi totalità dei potenti fosse la depositaria di ogni verità rivelata. I grandi iniziati, i giusti, imitati maldestramente dai cattivi potenti, non si sono mai posto il problema di lottare chi sbaglia, ma l’errore, non la lotta contro il peccatore, ma contro il peccato, tutto ciò che è nemico dell’uomo e non contro l’uomo.
         Tutti parlano e vogliono la libertà ma nessuno ci ha mai insegnato cosa essa sia.  Se ci capita di scegliere le persone, le caratteristiche di cui di solito ci curiamo sono relative alla casta, alla cultura, al potere, all’intelligenza, all’onestà, ma quando abbiamo cercato in esse la caratteristica della libertà?  Mai, in quanto nessuno sa, con cognizione di causa, essa cosa sia. In realtà dentro di noi non siamo capaci di essere liberi realmente, perché dopo avere severamente interrogato la nostra coscienza, ci persuadiamo che la libertà è solo un termine, neppure un concetto preciso e che l’unico impedimento a che essa si materializzi siamo solamente noi. Sovente osiamo dire: “sarò libero di fare” ma libero nei confronti di chi, e libero di cosa?
         E’ certo, che non riusciamo a renderci liberi noi stessi dalla nostra parte negativa, da quella soma che ci impedisce di migliorarci, di pietire, di disperare, di desiderare, di illuderci, di tramare, di non essere veritieri verso noi stessi.
E’ possibile mettere un punto fermo nella vita, accettandoci per quello che siamo, per essere dotti da dove partire o su cosa star fermi se lo vogliamo, su come costruire e da dove cominciare a migliorarci o, se proprio vogliamo, a perderci?
L’unica libertà vera è l’amore, dove sogno e fantasia la fanno da padroni, dove il pensiero, come airone nel cielo, vola e, talvolta, si trasforma in poesia. ...][1]





Khalil Gibran, pittore e filosofo libanese diceva: “Dicono che il silenzio sia di chi s’accontenta; ma io vi dico che il rifiuto, la ribellione e il disprezzo si annidano nel silenzio”.
Se il silenzio è qualcosa di cui l’uomo necessita, allora esso è libertà!
Maeterlinck soleva ripetere: “Le anime si pesano nel silenzio come l’oro e l’argento si pesano nell’acqua pura e le parole che pronunciamo non hanno peso che grazie al silenzio in cui sono immerse”.
Si possono fare molte considerazioni, filologiche, storiche, filosofiche o psicologiche sul silenzio, certamente interessanti; per molti versi non ne sarei capace, conscio dei miei limiti.
Presupposto che ogni credente abbia inteso il significato e vissuto intensamente il suo credo, del silenzio non sarebbe necessario dire nulla. Ma in questo caso io stesso avrei scambiato un processo che si compie nel tempo, con un avvenimento relativo, compiuto. Perciò è necessario raccordarsi alla vita tracciata dalle coscienze che ci hanno preceduto, ad un’aria di significati comuni a tutte le religioni ed a tutti gli individui che in qualche modo hanno testimoniato un processo di rinascita per così dire “ideale-culturale”, di contro ad un altro “effettivo-positivo”. Questa via, questi significati, questi individui, tutti, ci indicano il silenzio come una precondizione per un’autentica conoscenza che trascenda l’ovvia appartenenza delle cose.
Tutti ci dicono che il silenzio ha un senso: è l’esperienza del limite, della povertà, del digiuno, del deserto. E’ la polarità contrapposta al parlare per parlare, all’oltrepassare semplicemente per reagire, all’arricchire senza comprenderne la responsabilità, all’eccedere nell’uso dei beni, a ricercare l’opulenza.
Il significato del silenzio non è dunque mutismo. Anzi, nessuno deve tacere se ha da dire qualcosa che attiene al naturale diritto di difendere legittimamente la sua libertà personale e la sua vita. E’ stato giustamente osservato che “il silenzio ispirato dalla paura non è il silenzio” e che, paradossalmente, “alcuni raggiungono la loro massima cattiveria nel silenzio”. Da qui si comprende che il silenzio non può essere inteso come un accadimento elementare, come un punto matematico. Esso è espressione di un “continuum”, un processo “interiore” che struttura fondamentalmente la personalità dell’individuo e la sua relazione con gli altri, con la società.
Questo processo è scandito da tre momenti indipendenti, dai quali si possono ricavare le seguenti considerazioni.
La prima è che non si può capire senza ascoltare e che per ascoltare è necessario il silenzio. Un silenzio-digiuno però, perché se la “parola” mi raggiunge nel rumore interiore di ciò che già so, confondendosi con esso cosa potrò sapere di nuovo che già non so? Cosa potrò mai dire che non sia una semplice reazione a ciò che già sapevo, come potrà il nuovo divenire parte di me? Come si potrà tessere il filo della mia vita con quello della vita degli altri?
La seconda considerazione è che il silenzio risveglia un processo di chiarificazione. Chi non ha sperimentato il peso di un bagaglio di cose inutili alla propria crescita guardandosi dentro? Quante cose il tempo trascorso della nostra vita ci ha mostrato non essenziali? Come non constatare la debolezza di molte nostre caparbietà? Ogni uomo senziente scopre queste cose nel silenzio, con esso cadono molte passioni e si affermano, al contrario, benignità e tolleranza.
La terza considerazione riguarda la “parola proclamata, che, quando non sia arte retorica, ha da essere governata dalla concentrazione.
Lo stesso significato di con-centrazione allude alla ricerca del centro, del polo o del bersaglio, se si vuole.
Colpire il bersaglio richiede concentrazione, tutti, qualche volta, hanno sperimentato che questa operazione avviene nel silenzio più completo, tutto è deserto intorno al bersaglio, non c’è nulla che ce ne distrae, tutto è silenzio e noi siamo tutt’uno col bersaglio.
Penso che questa sia l’esperienza che precede, nel mistico, la comunione con l’Origine di tutte le cose. In molte religioni, specie in quelle orientali, il silenzio è praticato come norma per i neofiti. Questa consuetudine, che ha una radice antica e per così dire strutturale, spesso è malintesa: a volte è sentita come limitazione alla libertà di espressione, altre volte come il prezzo dovuto all’autorità e alla venerabilità delle persone o della società che li accoglie. Nulla è più riduttivo di questa ipotesi. La pratica del silenzio si attua né col mutismo né col multiloquio, ma attraverso l’ascolto delle ragioni dell’altro, la chiarificazione delle proprie ragioni, la concentrazione delle proprie intenzioni, ed è la condizione necessaria perché tutti concrescano avendo come fine la consonante realizzazione della società-amore.
Non c’è ombra di dubbio che queste riflessioni siano orientata ciò che ha da essere, piuttosto che a ciò che è. Ma la giustificazione di una società di saggi consiste proprio in ciò: condurre ogni individuo che bussi alla sua porta a scoprire in sé la potenza del seme che è già stato posto all’Origine.
A pensarci bene, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. C’è soltanto da divenire consapevoli ed agire con equità e silenzio.
Chi è più vittima del silenzio del popolo siciliano? Domanda strana la mia, ma pur sempre una domanda a cui necessita dare una risposta. Svestito dalla sua dignità, spogliato dalla sua unicità, allontanato dalla sua cultura, relegato ad un ruolo di vittima sacrificale, alimentato nella sua scelta di emarginato, esaltato nel ruolo di “vinto”, dato in pasto ai falsi orgogli, zittito dalla sferza piemontese, umiliato da una classe politica incapace e alla ricerca dell’opulenza, pronta a schiacciare ogni capo che tenta di sollevarsi.
Il popolo siciliano è “chiuso” nel suo mutismo!


[1] Tratto dal romanzo di Mario Scamardo “I sette giorni della trasgressione”.