martedì 27 dicembre 2011

LA FATA DELLE GROTTE DI REITANO (Favola)

   


     I personaggi di questa IV favola sono di fantasia. Elfi, fate, gnomi, folletti ci riportano alla nostra infanzia. Con essi riviviamo, in un catartico sogno, i giorni più belli e spensierati della nostra vita. Il loro ricordo non ci ha mai abbandonato, sono stati i compagni più lieti del bambino che è in ognuno di noi, e ci resteranno, fino a quando il nostro tempo non sarà compiuto! Essi hanno animato la nostra fantasia, ci hanno accompagnato, ci hanno fatto sorridere e ci hanno commosso, forse, sono stati gli unici a darci tanto senza averci mai chiesto nulla, li abbiamo amati, sono stati i nostri amici più cari!




Mario Scamardo










I Racconti del Borgo


IV  favola 

 
La fata delle grotte di Raitano

 
Carletto era un bambino di appena dieci anni, aveva completato da poco la scuola elementare e, come tutti i figli dei piccoli pastori, sapeva qual’era  il suo destino fino all’arrivo della cartolina precetto che, l’avrebbe chiamato ad assolvere un dovere verso la patria e, l’avrebbe portato, almeno per un periodo, fuori dalla routine di tutti i giorni, guidare ed accudire al piccolo gregge che il padre gli aveva affidato e che lui portava al pascolo sulle colline intorno a San Cipirello, comune dell’entroterra palermitano, dove abitava.
Tutte le mattine, ancor prima che cantasse il gallo, il ragazzo apriva il recinto e faceva venir fuori le sue pecorelle, attraversava un vecchio tratturo e risaliva le colline in contrada Raitano, arrivando fino in cima, alle grotte. Sulle alture di calcarinite erano stati scavati, in epoche molto remote, alcuni tholos, di forma sferica, nei quali si poteva accedere solo dall’alto, calandosi con corde o scale. Le funzioni dei tholos, chiamate dalle genti del posto “grotte di Raitano”, nel tempo, furono diverse: luoghi di segregazione, contenitori di derrate alimentari, rifugi per malviventi, tombe, e quanto la fantasia dei visitatori ha potuto immaginare. A contrassegnare le bocche d’ingresso alle grotte c’erano piccoli recinti circolari in filo spinato, evitando così che pecore, ma soprattutto agnellini, potessero precipitarvi dentro. Il padre di Carletto lo aveva istruito a dovere e lo aveva ammonito severamente di non affacciarsi ai buchi di accesso. Il ragazzo era ubbidiente e se ne teneva lontano, in quanto, stante la loro forma sferica con un diametro di non meno di dieci metri, uscirne da soli sarebbe stato impossibile. Un po’ più in basso un antico fontanile consentiva l’abbeverata e l’opportunità di riempire la borraccia, ma anche di godere dell’ombra di un secolare ulivo, per poter leggere qualche libro che chiedeva in prestito ad un suo amichetto, più fortunato di lui, che frequentava la scuola media. Quando arrivò l’estate, recintata l’area della collina delle grotte, Carletto realizzò, aiutato dal padre, una piccola tettoia in canne e frasche, addossata ad un grosso masso e non portò più le pecore in paese. Il padre, prima dell’imbrunire, gli portava gli alimenti e la biancheria e ritornava ad accudire l’altro gregge che era al pascolo in una contrada un po’ più lontana.
A Carletto piaceva tanto dormire all’addiaccio, si sdraiava accanto alla tettoia e scrutava il cielo, fino a quando non lo coglieva il sonno.
Era un pomeriggio inoltrato, il sole era quasi all’orizzonte, le pecore si erano addossate alle rocce, chiuse il libro che stava sfogliando e lo depose con cura nello zaino. Era un libro di scienze naturali e Carletto aveva finito di leggere un paragrafo sugli insetti che riguardava le lucciole, la loro luminescenza dovuta all’ossidazione dell’enzima luciferasi, il sistema di comunicazione, il loro modo di nutrirsi con polline e nettare, quando un nugolo di questi simpatici coleotteri gli passò davanti agli occhi e si unì con altri nugoli, quasi a formare un grande sciame che si sollevò e girò attorno al grande sasso. Carletto rimase a naso in aria, e più si fece buio, più il fenomeno diventò affascinante. Le lucciole, come guidate da qualcuno, si scissero in due formazioni e si disposero su due lunghe linee parallele che dal fontanile raggiungevano la grotta posta più in alto, come a tracciare un percorso ed illuminarlo contemporaneamente. Carletto fu preso solo da grande meraviglia, non aveva mai avuto paura, pensò ad una danza degli insetti ed attese attento gli eventi. Dalla grotta posta più in alto vide uscire, sempre su due file parallele alcuni piccoli esserini, non più alti del suo cane, poi altri un po’ diversi ed altri diversi ancora, tutti seri, composti e silenziosi, dietro di loro una fanciulla bellissima, vestita di veli, con i capelli cadenti sulle spalle. Le lucciole si misero in agitazione e la luce fu tanta che sembrò giorno. Gli occhi della fanciulla brillavano, le sue mani erano diafane e le dita sottili e calzava delle scarpine di velluto rosso. Ogni esserino che la precedeva teneva in mano una piccola brocca, era come se una principessa venisse preceduta dai suoi cortigiani. Nessuna pecora si mosse, il cane non abbaiò e non scodinzolò, strano, di solito bastava che il vento muovesse le frasche per farlo abbaiare. Carletto fece un lungo respiro e attese gli eventi.
Il corteo si mosse e quando la fanciulla arrivò in direzione del ragazzo, battè le mani e tutti si fermarono. Era davvero bella, sembrava non avere età, le sue labbra sembravano disegnate da un artista ed i suoi capelli assomigliavano alla filigrana d’oro. – Non mi chiedi chi sono? – disse la fanciulla – so che non hai paura, e non devi averne, la meraviglia che stai provando, tra poco passerà. Sono la fata delle grotte, le altre fate mi chiamano Ortensia, perché tanti anni or sono, un bambino come te, scivolando dal sasso addossato al quale tu hai costruito la tua tettoia, cadde su una grande macchia secolare di rovi dalle spine lunghe ed appuntite, io sentii il suo grido di terrore, accorsi e tramutai i rovi in una altrettanto grande macchia di ortensie. – Carletto l’ascoltò e rimase incantato da tanta grazia che non proferì parola, allora la fata continuò: - vedi, io vivo nella grotta più in alto, la prima che è stata scavata più di tremila anni fa, loro vivono con me, i primi sono gnomi, saggi e buoni consiglieri, i secondi sono folletti, vivaci, allegri, rallegrano le mie giornate, i terzi sono elfi, scontrosi, dispettosi, talvolta burloni, mi fanno disperare, ma con tutti vivo tutte le emozioni. Ogni sera andiamo al fontanile a riempire le brocche d’acqua e le amiche lucciole ci illuminano la strada. -  Il ragazzo timidamente disse: - signora, ma io le altre sere non vi ho visto, eppure son quindici giorni che dormo su questa collina. – Ridacchiarono i folletti e gli elfi, ma la fata battè le sue mani delicate e fu silenzio – siamo noi che decidiamo di farci vedere, tutte le sere siamo passati, sempre alla stessa ora, noi ti abbiamo visto, poi, riempite le brocche, al ritorno, abbiamo vegliato sul tuo sonno, fino all’aurora. – Signora – disse il ragazzo – io desidero rivedervi ogni sera, resisterò al sonno e voi mi terrete compagnia. – Forse lo faremo e forse no, tu hai già degli ottimi compagni, i tuoi libri. – Lo so, mi piacerebbe averne tanti, ma anche di imparare tutto quanto c’è dentro, la mia vita è segnata, sempre solo con le pecore, come mio padre e mio nonno, su queste colline, senza vedere mai gente, senza la scuola. La mia famiglia vive di questo lavoro, il pane non ci manca, però, cosa c’è al di la dei monti? – La fata sorrise e gli disse: - dammi la tua mano, vieni con noi giù alla fonte, mentre si riempiranno le brocche continueremo a parlare. – Carletto diede la mano alla fata ed il corteo riprese la sua marcia, giunti al fontanile il ragazzo disse: - mio padre mi ha sempre raccomandato di non essere curioso, ma io non resisto dalla voglia di farvi una domanda, com’è la vostra grotta? – Per i curiosi e gli invadenti è come le altre – rispose Ortensia – tu non le hai mai viste? – No – rispose il ragazzo – mio padre mi ha ammonito di non sporgermi a guardare, ed io non l’ho mai fatto, anche se la curiosità, qualche volta, mi ha sollecitato. – La fata sorrise e disse: - lo so che non hai mai disubbidito a tuo padre, egli ti ha dato un giusto consiglio e tu lo hai ascoltato. Io voglio premiare la tua ubbidienza, domani, dopo l’abbeverata, verrà uno gnomo a prenderti e ti accompagnerà alla mia grotta. – Riempite le brocche si riformò il corteo e giunti alla tettoia Ortensia disse a Carletto: - ora verrà fuori uno spicchio di luna, sdraiati sul tuo giaciglio e dormi. Il ragazzo accompagnò con gli occhi la fata che, davanti all’ultima grotta, lo salutò con un cenno della mano.
L’alba del mattino seguente svegliò Carletto, che arrotolò la sua coperta, condusse il piccolo gregge al fontanile, fece le sue pulizie personali e consumò la sua colazione, un pezzo di pane e delle albicocche che il padre gli aveva portato il giorno prima. Si sedette all’ombra del grande ulivo, prese tra le mani il libro che aveva nello zaino, ma non  riuscì a concentrarsi nella lettura. Non riuscì a non pensare a quell’evento straordinario della sera prima, alle lucciole, agli elfi, ai folletti, agli gnomi, ma soprattutto aveva stampati nella mente gli occhi dolci di Ortensia, i suoi capelli di filigrana, le sue mani diafane, le sue parole, ed ebbe il dubbio che quanto ricordava, fosse stato soltanto un sogno, di quelli che ti lasciano il segno per un po’ e sembrano reali. Il dubbio lo colse, forse aveva sognato davvero, ma accostandosi alla polla per bere, notò con sua grande sorpresa che, accanto alla sorgente, stava una brocca, un po’ più grande delle altre, ma identica nella forma a quelle che la sera prima aveva visto riempire dai folletti. Ciò gli permise di fugare il dubbio, riempì la brocca e risalì verso la grotta più alta, la depositò quasi davanti all’imbocco e ritornò dalle sue pecore.
Quando pian pianino risalì la collinetta col suo gregge, guardò in direzione della prima grotta, non c’era più la brocca, al suo posto uno dei barbuti gnomi salutava con la manina.
Il sole era allo zenith, faceva caldo e le pecore cercavano l’ombra dei pochi arbusti. Carletto sedette sotto la sua tettoia e si appisolò. Quando si svegliò, accanto, seduto su un sasso, c’era lo gnomo barbuto che sorrise e gli disse: - non preoccuparti per le tue pecore, ci sono i miei fratelli ad accudirle, tu alzati e seguimi, Ortensia vuole esaudire il tuo desiderio, ti riceverà nella sua grotta. Mai essere umano l’ha visitata, quando tremila anni or sono fu scavata, il despota che ne ordinò la realizzazione, una volta ultimata, fece uccidere le maestranze e ricoprì l’imbocco proprio con questo sasso dove tu hai accostato la tettoia. Nel tempo, un violento terremoto fece rotolare la grande pietra e la grotta vide la luce. Carletto si alzò, bevve un sorso d’acqua dalla sua borraccia e seguì lo gnomo.
Davanti all’imbocco della grotta, il ragazzo chiese allo gnomo: - come faremo a calarci giù? – non ebbe il tempo di finire che vennero fuori due elfi che appoggiarono sul ciglio una comodissima scala, foderata di seta, con due passamani in metallo lucido. Lo gnomo scese i primi due gradini e disse a Carletto: - vieni – e tutti e due guadagnarono il fondo. L’interno era una grande sfera, illuminata da migliaia di lucciole attaccate alla parete, dal pavimento si dipartivano quattro corridoi, portavano agli alloggi per elfi, gnomi, folletti, e quello per Ortensia. La fata era giù, seduta su una comodissima poltrona rivestita in seta, sfolgorante, nel suo abito di veli di un rosso carminio stretto alla vita da una cinta in giallo-oro, le sue scarpette erano in velluto rosso ed i suoi capelli di filigrana erano legati dietro la nuca con un nastro di seta nero. Gli occhi le brillavano e le sue mani sembravano di cera. Carletto rimase abbagliato da tanta bellezza e tanta grazia, non trovò parole. La fata sorrise, battè le mani ed un folletto portò un morbido cuscino di seta che diede al ragazzo e questi, all’invito  di sedersi, vi si adagiò davanti a lei. - Come vedi, il tuo desiderio è stato esaudito, ho voluto premiare la tua ubbidienza, la tua devozione al lavoro e alla famiglia, la tua generosità. La brocca che hai portato piena era la mia, era quella più grande, l’ho lasciata volutamente vuota giù al fontanile, per darti la prova che quanto avevi visto era vero e non era soltanto un sogno. La tua è certamente una vita grama, ma tu non ti lamenti, e per non perdere il contatto col mondo, ti fai prestare i libri e attingi da essi quanto ti serve per soddisfare il tuo desiderio di cultura. Dimmi, cosa desideri più nella vita, qual è il tuo sogno più grande? Rifletti, non rispondermi subito, la fretta non è mai una buona consigliera. Fra poco arriverà tuo padre per portarti ciò che ti occorre e tu dovrai essere con il tuo gregge, ma ancora hai tempo, ti condurrò nella mia stanza e ti mostrerò un oggetto in miniatura e poi ti assegnerò un compito. – Carletto seguì le parole della fata, non smise mai di fissarla e poi disse: - bellissima signora, io non racconterò mai a nessuno quanto ho visto, nemmeno alla mia mamma, lo conserverò come un bel ricordo, ma permettetemi di rivedervi ogni giorno, ciò non mi fa pensare alla mia solitudine, rende il mio lavoro piacevole e non sognerò più di andare via da questo posto per cambiar vita. – La fata sorrise, si alzò, si chinò sul ragazzo, lo strinse al suo seno e lo baciò sulla fronte. – Vieni, andiamo nella mia stanza – lo prese per mano e attraversò con lui uno dei quattro corridoi illuminati da migliaia di lucciole. – Entra e siediti – prelevò da uno dei suoi tavolinetti colmi di oggetti un modellino in tufo di una poltrona, glielo porse e disse: - ho sempre desiderato sedermi all’esterno della grotta, nelle serate d’estate, su una poltrona scavata nella calcarinite, ma i miei amici sono tanto piccoli, non hanno la forza per realizzare il mio sogno, ed i loro attrezzi sono minuscoli, riescono a realizzare soltanto oggetti in miniatura, guarda, i miei tavoli sono pieni.- Carletto sorrise, studiò la piccola miniatura, fissò nella sua mente le forme e calcolò la misura adatta alla sua fata, poi riconsegnò l’oggetto e disse: - giù nella parete a ridosso della tettoia, dove la pietra è più friabile, realizzerò la tua poltrona, ci lavorerò fino a tarda sera e anche di notte, quando ci sarà la luna piena, te lo prometto. – La fata sorrise – ricordati, oggi sarà luna piena, ed io desidero che per la prossima luna la mia poltrona potrà servirmi per mirarla, quindi, vent’otto giorni da oggi. Puoi andare ora, tuo padre sta per arrivare. – Carletto, accompagnato ai piedi della scala la risalì e si trovò fuori dalla grotta tra le sue pecorelle.
Appena arrivò il padre gli fece la richiesta di uno scalpello ed un mazzuolo, a tarda sera l’anziano pastore ritornò e consegnò gli attrezzi al figlio.
Il mattino seguente, abbeverate pecore ed agnelli, si mise all’opera sulla parete di pietra friabile. Carletto era infaticabile, giorno dopo giorno la pietra prese forma, ma lui era soltanto un ragazzo e quando cominciava a far buio, era così stanco che cadeva in un sonno profondo.
Erano già trascorsi ventisei giorni, il lavoro abbisognava delle rifiniture, occorreva eliminare le asperità, la sua fata non poteva sedersi e poggiare le spalle sul ruvido, bisognava far presto, ma non bastava il tempo. Carletto cominciò a disperarsi, ed al ventottesimo giorno, pur lavorando a sera inoltrata, capì che non poteva finire la sua opera. A tentoni asportava le asperità e, talvolta, batteva il martello sulle sue dita facendosi male. D’un tratto uno sciame di lucciole si posò sulla parete di pietra e illuminò la poltrona, il ragazzo si diede un gran da fare e, quando tutte le superfici divennero lisce, guadagnò il suo giaciglio.
Quando la luna piena fece capolino all’orizzonte, Ortensia, accompagnata dai folletti, dagli gnomi e dagli elfi, raggiunse la poltrona e sedette ad ammirarne il suo procedere lento. Il sonno di Carletto durò poco, andò incontro alla fata dai capelli di filigrana che brillavano attraversati dai raggi di luna. Nel suo viso si leggeva la gioia che provava, la sua fata aveva la sua poltrona, questo lo fece sentire importante. – Torna a dormire – disse la fata – sei stanco, io veglierò il tuo sonno e domani, dopo l’abbeverata mi verrai a trovare.-
Il giorno seguente, quando il sole era già alto, il ragazzo si avvicinò alla grotta, i due elfi appoggiarono la scala sul ciglio ed egli scese giù. Ortensia l’aspettava, gli andò incontro e lo carezzò - è giunto il momento di dirmi qual è il tuo più grande desiderio, hai avuto del tempo per riflettere, ventotto giorni in cui hai faticato, venendo a capo di un impegno arduo per un ragazzo come te, io posso esaudirne solo uno di desideri, su, esprimilo! – Carletto sorrise, capì che la fata era pronta a dargli un premio e disse: - fa che io possa ritornare a scuola, che possa frequentare nuovamente l’oratorio, che possa studiare per potere aiutare i miei genitori nella loro vecchiaia. – Ortensia sciolse i suoi capelli, prelevò la sua bacchetta magica da un cassetto e la fece ruotare in aria disegnando un grande cerchio, poi fissò Carletto: - tutto avverrà in ventotto giorni! – Abbracciò il ragazzo e prima di licenziarlo andò nella sua camera e ritornò con la miniatura della piccola poltrona. – Tieni è tua – disse – è d’oro, non è il valore che conta, non cederla mai, portala sempre con te, tutte le volte che la guarderai o la sfiorerai ti ricorderai della fata delle grotte di Raitano – lo baciò e lo accompagnò ai piedi della scala. Ventotto giorni dopo arrivò a casa sua il telegramma di un notaio statunitense che avvertiva la famiglia che lo zio del padre di Carletto, passando a miglior vita, gli aveva lasciato in eredità una fortuna inestimabile. Giusto il tempo di fare le carte e Carletto andò in America con i suoi. Lì, ebbe modo di studiare, laurearsi ed assicurare una vecchiaia serena ai suoi genitori. Quando dopo quindici anni tornò in Sicilia, volle recarsi a Raitano, ed in una notte di plenilunio godette della compagnia della sua fata seduta sulla poltrona di pietra. Il tempo non era trascorso, non aveva scalfito la sua bellezza, tutto era immutato. Si avvicinò, cacciò dalla tasca una piccola scatola e la porse alla sua fata, senza proferir parola. Ortensia aprì la scatola, dentro c’era una piccola stella realizzata in diamanti che brillarono sotto i raggi della luna piena. – Bambino mio – disse la fata commossa – non mi hai dimenticata, il vile denaro non ti ha dato alla testa, il tuo cuore è rimasto quello del mite pastorello – prese la piccola stella e l’appuntò sulla sua chioma dorata, e la stella brillò come le sue lucciole. – Ascolta Carletto, non perdere mai la tua innocenza, fai che il bambino che c’è in te, venga sempre fuori e al momento giusto. Ricordati, tutti i grandi sono stati bambini una volta, ma pochi di essi se ne ricordano! - In un baleno tutto svanì, Carletto si guardò attorno, stringeva tra le mani la miniatura che gli era stata regalata, capì che non avrebbe più rivisto la sua fata; solo le lucciole erano rimaste ad illuminare la poltrona scavata nella roccia. 



Spero di avere soddisfatto le vostre aspettative, se non ci fossi riuscito, chino il capo coperto di cenere.

                                      Grazie per la vostra attenzione.



lunedì 26 dicembre 2011

NON HO DIMENTICATO CHE OGGI E' LUNEDI', QUINDI.... POESIA!!!!!








Tratto dal mio ultimo libro "I SEMI DEL MELOGRANO NANO".


Dialogo tra Fabrizio Cascio ed un malavitoso.


- Baciamo le mani signor Cascio, posso accomodarmi?
Fabrizio con un cenno della mano gli indicò la poltrona davanti a lui:
- Prego, sedete. A che devo l'onore della vostra visita.
L'uomo si avvicinò alla scrivania e disse:
- Voglio stringervi la mano.
Fabrizio rimase immobile:
- Sono io che non voglio stringere la vostra, non avete dimenticato, spero, che sono io a condurre il gioco, ma parlate, vi ascolto.
L'uomo ritirò irritato la mano e sedette:
- Sono venuto per congratularmi con voi e per ringraziarvi, vi sono debitore e un uomo d'onore come me, non dimentica mai quello che gli amici fanno per lui.
Fabrizio ordinò per telefono un caffè e poi, a sorpresa:
- Sapete chi era Pirandello? Forse si, forse no.
L'uomo lo guardò negli occhi in cerca di spiegazione ma l'imprenditore fece finta di non capire e riprese a parlare:
- E' giusta l'idea pirandelliana secondo la quale "siamo tutti pupi", marionette, burattini, maschere, ombre, animati dall'onnipotente Spirito divino, che è nel cuore di tutti gli esseri e tutto agita al ritmo incalzante del tempo, col potere della "meraviglia".
Alzò gli occhi, guardò una vecchia pendola posta in un angolo dello studio, attese che battesse le ore sotto lo sguardo stupito del suo interlocutore poi, scandendo le parole:
- L'onore è quel termine che indica la reputazione di una persona, la stima e la considerazione godute nell'ambito di un gruppo sociale. Voi siete uomo d'onore nell'ambito della delinquenza organizzata; nella società civile, quella che lavora e che produce, quella che educa i figli alla tolleranza, quella in cui il termine onore si identifica con dignità, moralità, onestà, decoro, correttezza, sincerità, lealtà, rispettabilità, integrità, irreprensibilità, virtù, e dove trovano interessi specifici il buon nome, la gloria, il piacere, la stima, il prestigio, voi siete vergogna, disprezzo, inverecondia, impudenza, spudoratezza, slealtà, falsità, scorrettezza, disonestà, immoralità, disonore!
La ragazza della ricezione portò un caffè..................


Ho voluto estrapolare dal mio libro, parte di questo dialogo, perchè le due poesie di oggi trattano un tema, quello delle forze negative che hanno bloccato da sempre lo sviluppo di un territorio come la Valle dello Jato, che ricco com'è di storia, di bellezze naturali, di archeologia, li laboriosità, non avrebbe dovuto conoscere emigrazione, sacrifici e stenti.




L'onorata società

Uomini e donne pieni di belletti
tirati a lucido, eleganti,
grandi pompe e tanti fumi,
giovanette gracchianti
piene di lustrini,
facciate e apparenze.
Femmine gravide di odio
partoriscono piccoli mostri,
brutti, arcigni e cattivi,
mine vaganti incontrollate
in un mondo senza regole.
Fameliche Medee
divorano intere nidiate
con grande ingordigia
ed inghiottono fiele.
Bocche traboccanti di lercio,
di orrido sudiciume
che vomitano veleni.
Cervelli colmi di tragedie
e machiavelliche rovine.
Brutti rospacci luridi
colmi di tentazioni
guazzanti nella mota!
Sangue nelle loro mani
e attorno a loro grate,
enormi gabbie d'acciaio
per bestie sanguinarie.



 Alla poesia in vernacolo ho aggiunto le note, perchè tanti termini sono andati quasi in disuso.




Jatu[1]

Tra li troffi di ina[2],
Sciloccu sona l’arpa ciusciannu…
Un vastunacu[3] ancora trimulia,
cu la so testa bianca, ‘ncapu a tutti
comu un suvrastanti chi talia,
mentri nna zivula[4] s’annaca ‘nto ruvettu[5].
Urmi[6] e zabbari[7], ferla e sudda,
cavuliceddi ciuruti e paparina,
si movinu comu varchi a mari
e l’aria si inchi d’arrianu ciurutu…
‘Nta sta muntagna ca fu pupulata,
conca ddu mila anni di sapiri,
nna tinta gramignazza s’allignatu[8],
e chidda ch’era di civiltà nna naca[9]
addivintau mavuta[10], un putritu ristagnu,
un fangu russu, ‘nchiappatu di sangu.
China di ricchi assai e di pizzenti,
di granni varvasapiu e di gnuranti
di massarazza e di nullafacenti,
di chiazzalora e di puliticanti
di assassini e di tanti nnuccenti,
di latri, di sbirri e di riffanti[11]
di fimmini parati ed eleganti,
di sigrigatura e pinitenti
un munnu di zuini[12] priputenti,
un brancu di lupa azzannanti…
ma quannu si chiueru i sirramenti[13],
un’urda di pintuti ricitanti,
pupi, tutti mmanu a manovranti,
‘nsemmula, scecchi ccu li ferri lenti,
tinta sulami di tutti li simenti,
su lu squadruni di li dichiaranti,
tutti, nuddu ammiscati ccu nenti,
l’urtimu schifiu di la genti.
Ora, nun cc’è cchiù nenti di pirciari,
nnè ppi virrini[14] nnè ppi puntalori,
nnè ppi parrini nnè ppi curtigghiari
nnè ppi ‘nfamuna nnè ppi tradituri.
A fastu anticu avemu arriturnari,
munnu di puisia e di sapiri,
‘ntall’occhi i picciriddi taliari
senza vriogna e senza dispiaciri.
Canciamucci a sta terra lu culuri,
tincemuli di rosa tutti i mura,
accussì, comu fici la natura
                              ca tempu arreri la vosi pittari.


[1] Jatu – Sinonimo dell’agglomerato urbano unico di San Giuseppe Jato e San Cipirello con due municipalità e delle campagne circostanti.
[2] Troffi di ina – Piante di avena selvatica.
[3] Vastunacu – Cicuta maggiore, pianta della famiglia delle ombrellifere, velenosa, alta fino a due metri con infiorescenza ad ombrello.
[4] Zivula – Verzellino, piccolo uccello simile al canarino, ma con piumaggio verde olivastro sul dorso, che per il canto melodioso spesso viene tenuto in cattività.
[5] Ruvettu – Tralcio di rovo.
[6] Urmi – Olmi, ed in genere ogni alberello o cespuglio atto a far ombra e non coltivato.
[7] Zabbari – Agavi – Piante grasse talvolta ornamentali, le cui fibre vengono utilizzate per la fabbricazione di cordami.
[8] Nna tinta gramignazza s’allignato – Ha radicato una mala pianta, la mafia, che come la gramigna ha invaso il territorio con l’assenso di una borghesia malata.
[9] Naca – Culla.
[10] Mavuta – Mota, fanghiglia, sedimento di sozzura.
[11] Riffanti -  Tenutari di lotterie private, prepotenti, imbroglioni.
[12] Zuini – Manovali del crimine.
[13]Quannu si chiueru i serramenti – Quando sono stati sbattuti in prigione.
[14] Virrini  Succhielli - Strumenti per forare che hanno le punte a spira. Nel linguaggio figurato: persone che fanno imbrogli e raggiri – Arzigogoloni.