mercoledì 24 giugno 2015

IL TESORO DEI FANARA - Racconto breve - 24.06.2015
















I Racconti del Borgo

Mario Scamardo


Il tesoro dei Fanara


Palazzo Fanara si affacciava sull’asse viario più importante della città, il Cassaro. La fiancata destra era tutta su Piazza dei Giudici, ampia, ricca di palazzi nobiliari sormontati da enormi stemmi, con al centro una fontana con trenta tritoni e trenta zampilli. Il grande patio interno, retaggio dell’architettura spagnola, circondato da un enorme loggiato poggiante su dodici colonne sormontate da capitelli corinzi, offriva due grandi vani comunicanti adibiti dal proprietario, il conte Duilio Fanara, ad uffici dove riceveva i clienti. Ogni colonna era decorata con un segno zodiacale, quasi a testimoniare lo scorrere inesorabile del tempo. Il conte Duilio gestiva un Banco dei pegni, una specie di agenzia di credito su pegno. Lo aveva fatto suo nonno il conte Giorgio e suo padre questo lavoro, il conte Diego assieme alla baronessa Ersilia, sua moglie. Per più di cinquant’anni i Fanara avevano accumulato enormi tesori, non avevano investito tranne che nella loro attività e, non fidandosi delle banche, avevano creato in una segreta del palazzo un deposito per le loro fortune.
Il conte Duilio Fanara difficilmente si vedeva in giro, non frequentava circoli, non frequentava salotti, si fidava, dopo la morte del nonno, appena dei suoi genitori e del suo cameriere privato, che era anche il suo segretario, Leopoldo. Tutti i pegni non ritirati, e tutti i tassi sui prestiti, tutti i pomeriggi, a chiusura del Banco, venivano riposti nella segreta da Leopoldo che riconsegnava le chiavi al conte. Veniva chiusa la porta carraia e la vita a palazzo continuava tra cena e due chiacchere in salotto. Una volta al mese, l’ultimo venerdì pomeriggio la baronessa Ersilia riceveva le sue amiche nei tre salotti comunicanti tra loro, il salotto giallo, il salotto rosso ed il salotto verde, solo allora Duilio Fanara si intratteneva con la nobiltà della città, sperando sempre che qualcuno chiedesse un incontro appartato e gli proponesse un pegno o gli chiedesse un prestito, oppure gli offrisse per acquistarlo un oggetto di valore. Duilio non era mai stato venale, non aveva mai approfittato delle necessità altrui, aveva solo favorito chi aveva di bisogno operando un tasso tale da non essere considerato uno strozzino, e comunque inferiore a quello che praticavano le banche.
A trentotto anni il conte Duilio non aveva pensato mai di sposarsi, anche se sua madre, ogni ultimo venerdì del mese sperava che il figlio si intrattenesse con qualche giovane rampolla della nobiltà cittadina. Era un bell’uomo, colto, con un fisico da ginnasta, barba ben curata e baffi sottili.
Un mattino si fermò una carrozza all’angolo di Piazza dei Giudici, scesero la marchesa Ganci de Lollis e sua figlia la marchesina Aurelia, varcarono la soglia del portone di Palazzo Fanara e si diressero dritte dritte sotto il porticato, proprio davanti il Banco. Leopoldo fece accomodare le due nobildonne e chiamò il conte Duilio. Era davvero affascinante la marchesina Aurelia, due occhi neri grandi e due guance rosee vellutate, educata in maniera eccelsa, colta, esperta entomologa e collezionista di farfalle. Anche sua madre la marchesa era ancora una donna bellissima e piena di fascino.
Duilio si chinò alle due dame, fece segno a Leopoldo di allontanarsi ed invitò le due donne ad accomodarsi nel piccolo salotto.
- Marchesa, ditemi in cosa posso esservi utile.
- Conte, sapete voi che alla dipartita precoce di mio marito, le cose per la mia famiglia non sono andate bene, i conti in campagna tornano sempre meno, sono decisa a liberarmi del feudo di famiglia, venderò Pietraperciata, da tre anni è in passivo.
- Marchesa, non ho mai investito in terreni, non lo hanno fatto i miei genitori e neppure mio nonno.
- No non voglio proporvi il mio feudo, son qua per offrirvi qualcosa di diverso, due collane.
Tirò fuori da una borsetta due collane, una in oro bianco e sedici smeraldi, l’altra in oro rosso e una diecina di grossi rubini, le poggiò sul tavolinetto e fissò in faccia Duilio.
- Volete darmele in pegno?
- Si, sta a voi dare una valutazione.
Il conte alzò gli occhi, fissò la marchesa, poi volse lo sguardo verso la marchesina.
- Quanto vi serve marchesa?
- Diecimila tarì (60.000 euro)
- Ripigliatevi le vostre collane, vi presterò diecimila tarì senza alcun pegno, me li renderete con comodo entro due anni, a rate se volete, non voglio neppure gli interessi.
Sorpresa la marchesa, timidamente ritirò la collana coi rubini.
- Conte Duilio, vi prego, trattenete la collana di smeraldi.
- No marchesa, vi prego, ripigliate le vostre collane, Casa Ganci de Lollis non ha bisogno di lasciare pegni! Domattina verrò a casa vostra e personalmente vi consegnerò i diecimila tarì. Ora se volete, vi accompagno in salotto, mia madre sarà felicissima di vedervi e di vedere la marchesina vostra figlia poi, quando vorrete, vi farò accompagnare a casa dal mio cocchiere, Leopoldo avvertirà il vostro di andar via.
Si alzarono tutti e tre e Duilio li accompagnò in salotto ed avvertì sua madre. Quando la marchesa manifestò la voglia di ritornare a casa, Duilio diede ordini al suo cocchiere, montò in carrozza assieme alle due dame e le accompagno fino a Palazzo de Lollis.
Il mattino seguente, dopo aver contato diecimila tarì ed averli sistemati in tre borse di renna, si recò in carrozza a casa della marchesa e glieli consegnò personalmente. La marchesina era raggiante, in tenuta da campagna, aveva tra le mani il retino per acchiappar farfalle, ma fino a quando Duilio non chiese di licenziarsi, lei se ne stette lì a dialogare e, quando la marchesa prese carta e penna per rilasciare una ricevuta, Aurelia Ganci de Lollis si stupì per il fatto che Duilio non accettò alcuna ricevuta.
- Conte Duilio, voi siete sempre indaffarato col vostro lavoro, difficilmente vi si vede in giro o vi si incontra nei salotti della città, avete voi qualche hobby?
- Certo marchesina, i sabati e le domeniche mi piace andare a cavallo, di solito mi reco nel feudo di famiglia a Fontanacalda che fu dimora estiva di mio nonno, parlo col fattore e con la sua famiglia, faccio un giro per la campagna e a pomeriggio inoltrato rincaso.
- Vi andrebbe di visitare le mie collezioni di coleotteri e di farfalle?
- Certo marchesina, ma non voglio essere invadente e non voglio sottrarvi del tempo da dedicare alla vostra passione, voi eravate pronta per la vostra escursione.
La Marchesa ascoltò passiva il dialogare dei due giovani, quasi compiaciuta, e stante ai comportamenti di Duilio nei suoi confronti, percepì che del tenero stava nascendo tra i due, come spiegarsi altrimenti la rinuncia non tanto ad un giustissimo agio, ma alla ricevuta!
- Conte, non siete invadente affatto, se avete tempo e se vi va, andate con Aurelia, vi mostrerà il suo lavoro di tanti anni, io rimango a sistemare alcune carte, andate pure, quando avrete finito ci saluteremo.
Aurelia posò il suo retino, poi si avvicinò a Duilio:
- Mi consentite di pigliarvi sottobraccio? Dobbiamo scendere al piano terra, attraversare il patio e accedere al mio laboratorio.
La collezione di Aurelia era imponente, una quarantina di bacheche con ogni sorta di lepidotteri, di coleotteri, di imenotteri e ditteri. La ragazza parlò di esoscheletri, di tegumenti, di apparati boccali, del sistema muscolare degli insetti e di quant’altro. Capi tutto il conte Duilio? Forse si, o forse no, ma per tutto il tempo ammirò Aurelia, fissò i suoi grandi occhi neri e le sue labbra rosse e assistette compiaciuto alle movenze armoniche del suo gesticolare. Ultimata la visita la marchesina si recò con lui in salotto, fece portare una spremuta di arancia da una cameriera, la offrì a Duilio e aspettò che la mamma ritornasse per il commiato.
- Conte Duilio, non consideratemi una sfacciata se mi autoinvito a fare una passeggiata a cavallo con voi un sabato che vi recherete a Fontanacalda, non vi ruberò del tempo, porterò con me il mio retino, le mie scatoline e i miei spilli, io raccoglierò insetti, voi farete la vostra visita.
- Vi prego marchesina, chiamatemi Duilio, io vi chiamerò Aurelia se me lo consentite, sabato tenetevi pronta, passerò alle otto in punto, fatevi bardare una cavalla dal passo lesto.
- Si, chiamiamoci per nome, sabato vi aspetto davanti all’ingresso.
Si chinò Duilio, prese la mano della Marchesa e la baciò, poi baciò quella di Aurelia che lo accompagnò giù fino alla carrozza.
Gli incontri tra i due giovani si ripeterono quasi tutti i sabati e la baronessa Ersilia percepì che finalmente il figlio si era innamorato.
Era passato quasi un anno quando la marchesa Ganci de Lollis chiese a sua figlia di invitare a cena Duilio. A cena finita, la nobildonna si allontanò un paio di minuti e ritornò di li a poco con tre sacchetti in pelle di daino, contenenti diecimila tarì.
- Conte Duilio, io ho venduto Pietraperciata al duca Caldera Dittaino, voi gentilmente mi avete prestato diecimila tarì, oggi ve li rendo, ma vi prego di accettare il relativo tasso di interesse, ditemi quant’è.
- Nulla marchesa, non mi dovete nulla, il mio è stato un prestito fra amici e nulla più. Mi state rendendo quanto vi avevo dato e questo basta e avanza.
- Non so come ringraziarvi Duilio, pensavo che un mestiere come il vostro incrudisse gli animi, mi sbagliavo!
Sei mesi dopo, la baronessa Ersilia ed il conte Diego, genitori di Duilio, annunciarono una visita a casa de Lollis e in quell’occasione chiesero per il loro unico figliolo la mano della marchesina Aurelia. Lo stesso giorno che Duilio compì quarant’anni, nella cappella di famiglia Ganci sposò Aurelia che ne aveva trentuno.
Non fu mai in dolce attesa la giovane sposa, il buon Dio, nel Suo imperscrutabile disegno, non aveva concesso alla donna il dono della maternità. Una brutta epidemia afflisse la città e in men di due mesi il portone di Palazzo Fanara si aprì cigolando, per fare entrare il carro funebre tirato da sei morelli, la baronessa madre era passata a miglior vita. Due mesi dopo si riapri ancora il portone, il conte Diego, anche lui, aveva abbandonato la vita terrena.
Aurelia passava le sue giornate col marito al banco dei pegni, non più farfalle né coleotteri, contar monete e trattare ratei era diventata un’ossessione, fino al punto di sostituire il marito nel lavoro. Leopoldo un pomeriggio si appartò con Duilio e lo avvertì che la moglie applicava tassi molto alti, e più la gente aveva bisogno di contante, più lei alzava il tasso di interesse, aveva doppiato i tassi delle banche, in poche parole era diventata una strozzina! I sabati e le domeniche, anziché pensare a svagarsi, a frequentare i salotti della città, ad andare a teatro, si immergeva nella contabilità e nei calcoli dell’usura che aveva praticato. Ripresa più volte dal marito, sulle prime lo aveva assecondato, in seguito era diventata scontrosa, irascibile, irritabile, collerica, praticamente intrattabile!
- Faccio meglio di te!
- No cara, noi non siamo mai stati strozzini, abbiamo chiesto appena il minimo, molto meno dei banchieri e, spesso, non abbiamo chiesto gli interessi! Così non va Aurelia, tu non puoi infangare il nome della mia famiglia, non te lo permetterò!
Un periodo di stasi, poi la marchesa Aurelia ripigliava a strozzare chi aveva più di bisogno. Duilio aveva solo un modo per evitare tutto ciò, non farla venire a contatto col denaro e impedirle di trattare con i clienti. Il matrimonio traballava e i rapporti erano diventati difficili. Il rapporto con la Marchesa Ganci de Lollis, mamma di Aurelia, diventò frequente da parte di Duilio, che le confidava tutto come faceva con sua madre, ma anche la marchesa non riuscì a convincere la figlia a non occuparsi più di finanza. Sottobanco Aurelia trattava, e sotto gli occhi di suo marito e di Leopoldo, incassava i ratei, depositava il capitale e teneva per se l’utile.
Duilio Fanara decise di togliere il banco dei pegni, avvertì gli ultimi clienti e poi, pian piano riscosse quello che poté, poi decise di trasferirsi in campagna, a Fontanacalda. Aurelia non gradì la scelta del marito, ancor meno quella di spostarsi dalla città. Il giorno in cui sua moglie andò a far visita a sua madre, con l’aiuto di Leopoldo, caricò le sei casse di monete su tre carrozze e si trasferì a Fontanacalda dove aveva allestito un’altra segreta per depositarvi il suo tesoro. Le casse erano blindate, munite di grossi chiavistelli e potevano essere murate a terra. Sua moglie non gradì tutto ciò, si barricò nel palazzo e dopo circa un anno, ad un ricevimento, annunciò che il marito impazzito viveva da eremita in campagna e che anche con la testa non ci stava bene. Leopoldo informava il conte delle diavolerie della moglie, delle dicerie, del comportamento, ma Duilio rideva. Un mattino arrivò in città la notizia che era scomparso il conte Duilio Fanara, di lui si erano perse le tracce e dopo pochi mesi, la notizia che era venuto a mancare. Aurelia si recò a Fontanacalda, interrogò il fattore e la sua famiglia, poi parlò con Leopoldo chiedendogli le chiavi della segreta dove era riposto il suo tesoro. Leopoldo consegnò le chiavi, ma dentro la segreta non c’era nulla, solo qualche ragnatela e delle fiasche di ottimo vino. Aurelia interrogò Leopoldo per sapere dove fosse finito l’ingente tesoro del marito, ma non ebbe risposta alcuna; il segretario disse che da quando non c’era più il banco, lui non si era più occupato di nulla, tranne che di riscuotere gli ultimi ratei degli ultimi prestiti.
- Voi mentite Leopoldo!
- No signora marchesa, in questa villa  è venuta tanta gente, è passata tutta la nobiltà della città, ma anche mercanti e tantissimi borghesi. Sono passate autorità civili ed ecclesiastiche, cosa volete che sappia oltre quello che vi ho detto?
Fontanacalda diventò meta di visite quotidiane, tutti cercavano il tesoro dei Fanara, sei enormi forzieri pieni di tarì d’oro e d’argento, un valore enorme da potersi comperare mezza città. Dov’erano finite le sei casse? Nessuno mai chiese dove fosse seppellito il conte, per deporre un fiore sulla sua tomba. Furono rovistate decine di camere, disfatti decine di letti, svuotati decine di armadi e vennero tastate tutte le pareti nella speranza di trovarne una finta o mobile, un passaggio segreto che conducesse ai tarì! All’esterno della villa? C’era solo una stalla ed un fienile, anche quelli vennero rovistati, persino le imbottiture delle tre carrozze, nulla, nulla di nulla! Dov’erano finiti i forzieri? Aurelia, unica erede, non si dava pace, ma la nobiltà della città godeva della sua disperazione, figlia di un galantuomo e di una gentildonna, si era trasformata in una strozzina avara e senza alcuna pietà! Ben gli stava! In tanti, di notte, si aggirarono attorno alla tenuta di Fontanacalda, alla ricerca di un indizio che desse l’ubicazione del tesoro. Qualcuno addirittura sognò una mappa e la riprodusse, costringendo tanti ad una caccia al tesoro. Qualche altro speculò riproducendo la mappa e vendendola a sprovveduti. Col tempo scemò la caccia al tesoro tranne che per Aurelia, erano tanti i tarì, lei li aveva visti, in sei grandi casse, quattro d’oro e due d’argento, non potevano essere spariti così! Il fattore, l’unico che non aveva cercato un tesoro, solo soletto, stanco del continuo andirivieni, un mattino entrò nella villa, proprio sullo scrittoio che era stato del conte Duilio, era in bella mostra un rotolo legato con un nastro rosso. L’anziano fattore sciolse il nodo e srotolò il foglio in cima al quale c’era scritto a caratteri cubitali: “Testamento del conte Duilio Fanara fu Diego e fu Ersilia dei baroni Cantone”, poi tutto il resto scritto in bella grafia e in fondo le firme del conte e quella del notaio Pappalardo, tra le due firme il sigillo su ceralacca rossa del notaio. Non se la sentì di leggerlo il fattore e, quando entrò sua moglie, considerando che le donne sono spesso un po’ comari e ciarliere, lo riarrotolò e rifece il nodo col nastro rosso, poi preparò il calesse e si recò nello studio del notaio.
- Scusate messere, io sono solo il fattore di villa Fontanacalda, da quando è venuto a mancare il mio padrone, la gente è impazzita cercando il suo tesoro. Lo hanno cercato nei pozzi, nelle stalle, nel fienile, nelle stanze della villa, tutti hanno pensato a grandi forzieri ricolmi d’oro, nessuno ha sbirciato tra le carte. Io ho trovato il suo testamento sul suo scrittoio, non l’ho neppure letto, ve l’ho riportato affinché voi possiate ridare alla villa la serenità di sempre.
- Capisco, chiamerò quanti sono interessati al testamento, li convocherò a Fontanacalda, lì leggerò il testamento, affinchè finisca la fregola della ricerca del tesoro. Lo farò lunedì prossimo alle dieci del mattino, fateci trovare la villa aperta.
Il fattore rimontò sul calesse e fece ritorno in campagna.
Il lunedì successivo il fattore fece rassettare il grande salotto della villa da sua moglie, poi sedette sull’uscio ad aspettare. Per primo arrivò il notaio sul suo calesse, poi sopraggiunse la carrozza della marchesa Aurelia, quindi arrivò a cavallo Leopoldo. Il notaio si rivolse al fattore e disse:
- Siamo tutti, accomodatevi pure voi e chiudete la porta!
La moglie del fattore aveva aggiunto in salotto parecchie sedie, ma oltre al notaio erano solo in tre, la moglie, l’amico e segretario e il fattore. Il notaio attese che i tre prendessero posto, poi schiarì la voce e lesse:
- “Testamento del conte Duilio Fanara fu Diego e fu Ersilia dei baroni Cantone”. Io sottoscritto Duilio Fanara, nel pieno delle mie facoltà mentali dispongo dei miei beni nel seguente modo: lascio la tenuta di Fontanacalda, compresa la villa, le stalle, il fienile e l’intero arredo al mio fattore Calogero Pallavicino e alla di lui moglie Carmela Trabona; lascio il mio palazzo del Cassaro angolo Piazza dei Giudici a mia moglie la marchesa Aurelia Ganci de Lollis, a condizione che lei non eserciti il banco dei pegni, in caso contrario la proprietà di detto palazzo passerà alle suore della Misericordia di Piazza della Ruota; lascio un legato di trentamila tarì al mio amico e segretario Leopoldo Rossetti che potrà ritirare quando vorrà dal notaio Norberto Pappalardo. Lascio infine cinque milioni e trecentomila tarì ai poveri di questa città, esecutore testamentario sarà lo stesso notaio Pappalardo che provvederà a darne di volta in volta ricevuta al mio amico Leopoldo.
Così ho deciso il 21 luglio del 1751 in Palermo.
Firmato : Conte Duilio Fanara
Il notaio chiuse la sua cartella e mogi mogi tutti uscirono dalla villa e montarono chi in carrozza, chi sul calesse, chi sul cavallo. Calogero e Carmela, il fattore e sua moglie, si guardarono in faccia, si accertarono che fossero tutti andati via e rincasarono nella loro dependance, bussarono ad una camera che si aprì, Duilio Fanara era là vivo e vegeto, i suoi bagagli erano pronti.
- Signor conte, finalmente è tutto finito, nessuno cercherà più il tesoro dei Fanara. A mezzanotte salpa la nave per Marsiglia, due ore prima raggiungeremo il porto col mio calesse, vestito da popolano nessuno vi riconoscerà. I poveri di Palermo vi ricorderanno sempre come il loro salvatore, io e mia moglie ci recheremo ogni tanto a deporre un fiore sulla vostra tomba vuota, mentre voi ricomincerete una nuova vita in Francia.
- Grazie Calogero, grazie per l’ospitalità, grazie per il tuo silenzio, grazie per la discrezione e ancora grazie per la bravura nel recitare la vostra parte. Su, carichiamo i bagagli sul calesse e buona fortuna!
Salpò la nave a mezzanotte in punto, sui Fanara calò il silenzio e, come nuova pianta, Duilio cominciò la sua nuova vita.








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