I Racconti del Borgo
MARIO SCAMARDO
La fata delle grotte di Raitano
Carletto
era un bambino di appena dieci anni, aveva completato da poco la scuola
elementare e, come tutti i figli dei piccoli pastori, sapeva qual’era il
suo destino fino all’arrivo della cartolina precetto che, l’avrebbe
chiamato ad assolvere un dovere verso la patria e, l’avrebbe portato,
almeno per un periodo, fuori dalla routine di tutti i giorni, guidare ed
accudire al piccolo gregge che il padre gli aveva affidato e che lui
portava al pascolo sulle colline intorno a San Cipirello, comune
dell’entroterra palermitano, dove abitava.
Tutte
le mattine, ancor prima che cantasse il gallo, il ragazzo apriva il
recinto e faceva venir fuori le sue pecorelle, attraversava un vecchio
tratturo e risaliva le colline in contrada Raitano, arrivando fino in
cima, alle grotte. Sulle alture di calcarinite erano stati scavati, in
epoche molto remote, alcuni tholos, di forma sferica, nei quali si
poteva accedere solo dall’alto, calandosi con corde o scale. Le funzioni
dei tholos, chiamate dalle genti del posto “grotte di Raitano”, nel
tempo, furono diverse: luoghi di segregazione, contenitori di derrate
alimentari, rifugi per malviventi, tombe, e quanto la fantasia dei
visitatori ha potuto immaginare. A contrassegnare le bocche d’ingresso
alle grotte c’erano piccoli recinti circolari in filo spinato, evitando
così che pecore, ma soprattutto agnellini, potessero precipitarvi
dentro. Il padre di Carletto lo aveva istruito a dovere e lo aveva
ammonito severamente di non affacciarsi ai buchi di accesso. Il ragazzo
era ubbidiente e se ne teneva lontano, in quanto, stante la loro forma
sferica con un diametro di non meno di dieci metri, uscirne da soli
sarebbe stato impossibile.
Un po’ più in basso un antico fontanile
consentiva l’abbeverata e l’opportunità di riempire la borraccia, ma
anche di godere dell’ombra di un secolare ulivo, per poter leggere
qualche libro che chiedeva in prestito ad un suo amichetto, più
fortunato di lui, che frequentava la scuola media. Quando arrivò
l’estate, recintata l’area della collina delle grotte, Carletto
realizzò, aiutato dal padre, una piccola tettoia in canne e frasche,
addossata ad un grosso masso e non portò più le pecore in paese. Il
padre, prima dell’imbrunire, gli portava gli alimenti e la biancheria e
ritornava ad accudire l’altro gregge che era al pascolo in una contrada
un po’ più lontana.
A
Carletto piaceva tanto dormire all’addiaccio, si sdraiava accanto alla
tettoia e scrutava il cielo, fino a quando non lo coglieva il sonno.
Era un
pomeriggio inoltrato, il sole era quasi all’orizzonte, le pecore si
erano addossate alle rocce, chiuse il libro che stava sfogliando e lo
depose con cura nello zaino. Era un libro di scienze naturali e Carletto
aveva finito di leggere un paragrafo sugli insetti che riguardava le
lucciole, la loro luminescenza dovuta all’ossidazione dell’enzima
luciferasi, il sistema di comunicazione, il loro modo di nutrirsi con
polline e nettare, quando un nugolo di questi simpatici coleotteri gli
passò davanti agli occhi e si unì con altri nugoli, quasi a formare un
grande sciame che si sollevò e girò attorno al grande sasso. Carletto
rimase a naso in aria, e più si fece buio, più il fenomeno diventò
affascinante. Le lucciole, come guidate da qualcuno, si scissero in due
formazioni e si disposero su due lunghe linee parallele che dal
fontanile raggiungevano la grotta posta più in alto, come a tracciare un
percorso ed illuminarlo contemporaneamente. Carletto fu preso solo da
grande meraviglia, non aveva mai avuto paura, pensò ad una danza degli
insetti ed attese attento gli eventi. Dalla grotta posta più in alto
vide uscire, sempre su due file parallele alcuni piccoli esserini, non
più alti del suo cane, poi altri un po’ diversi ed altri diversi ancora,
tutti seri, composti e silenziosi, dietro di loro una fanciulla
bellissima, vestita di veli, con i capelli cadenti sulle spalle. Le
lucciole si misero in agitazione e la luce fu tanta che sembrò giorno.
Gli occhi della fanciulla brillavano, le sue mani erano diafane e le
dita sottili e calzava delle scarpine di velluto rosso. Ogni esserino
che la precedeva teneva in mano una piccola brocca, era come se una
principessa venisse preceduta dai suoi cortigiani. Nessuna pecora si
mosse, il cane non abbaiò e non scodinzolò, strano, di solito bastava
che il vento muovesse le frasche per farlo abbaiare. Carletto fece un
lungo respiro e attese gli eventi.
Il
corteo si mosse e quando la fanciulla arrivò in direzione del ragazzo,
battè le mani e tutti si fermarono. Era davvero bella, sembrava non
avere età, le sue labbra sembravano disegnate da un artista ed i suoi
capelli assomigliavano alla filigrana d’oro. – Non mi chiedi chi sono? –
disse la fanciulla – so che non hai paura, e non devi averne, la
meraviglia che stai provando, tra poco passerà. Sono la fata delle
grotte, le altre fate mi chiamano Ortensia, perché tanti anni or sono,
un bambino come te, scivolando dal sasso addossato al quale tu hai
costruito la tua tettoia, cadde su una grande macchia secolare di rovi
dalle spine lunghe ed appuntite, io sentii il suo grido di terrore,
accorsi e tramutai i rovi in una altrettanto grande macchia di ortensie.
– Carletto l’ascoltò e rimase incantato da tanta grazia che non proferì
parola, allora la fata continuò: - vedi, io vivo nella grotta più in
alto, la prima che è stata scavata più di tremila anni fa, loro vivono
con me, i primi sono gnomi, saggi e buoni consiglieri, i secondi sono
folletti, vivaci, allegri, rallegrano le mie giornate, i terzi sono
elfi, scontrosi, dispettosi, talvolta burloni, mi fanno disperare, ma
con tutti vivo tutte le emozioni. Ogni sera andiamo al fontanile a
riempire le brocche d’acqua e le amiche lucciole ci illuminano la
strada. - Il ragazzo
timidamente disse: - signora, ma io le altre sere non vi ho visto,
eppure son quindici giorni che dormo su questa collina. – Ridacchiarono i
folletti e gli elfi, ma la fata battè le sue mani delicate e fu
silenzio – siamo noi che decidiamo di farci vedere, tutte le sere siamo
passati, sempre alla stessa ora, noi ti abbiamo visto, poi, riempite le
brocche, al ritorno, abbiamo vegliato sul tuo sonno, fino all’aurora. –
Signora – disse il ragazzo – io desidero rivedervi ogni sera, resisterò
al sonno e voi mi terrete compagnia. – Forse lo faremo e forse no, tu
hai già degli ottimi compagni, i tuoi libri. – Lo so, mi piacerebbe
averne tanti, ma anche di imparare tutto quanto c’è dentro, la mia vita è
segnata, sempre solo con le pecore, come mio padre e mio nonno, su
queste colline, senza vedere mai gente, senza la scuola. La mia famiglia
vive di questo lavoro, il pane non ci manca, però, cosa c’è al di la
dei monti? – La fata sorrise e gli disse: - dammi la tua mano, vieni con
noi giù alla fonte, mentre si riempiranno le brocche continueremo a
parlare. – Carletto diede la mano alla fata ed il corteo riprese la sua
marcia, giunti al fontanile il ragazzo disse: - mio padre mi ha sempre
raccomandato di non essere curioso, ma io non resisto dalla voglia di
farvi una domanda, com’è la vostra grotta? – Per i curiosi e gli
invadenti è come le altre – rispose Ortensia – tu non le hai mai viste? –
No – rispose il ragazzo – mio padre mi ha ammonito di non sporgermi a
guardare, ed io non l’ho mai fatto, anche se la curiosità, qualche
volta, mi ha sollecitato. – La fata sorrise e disse: - lo so che non hai
mai disubbidito a tuo padre, egli ti ha dato un giusto consiglio e tu
lo hai ascoltato. Io voglio premiare la tua ubbidienza, domani, dopo
l’abbeverata, verrà uno gnomo a prenderti e ti accompagnerà alla mia
grotta. – Riempite le brocche si riformò il corteo e giunti alla tettoia
Ortensia disse a Carletto: - ora verrà fuori uno spicchio di luna,
sdraiati sul tuo giaciglio e dormi. Il ragazzo accompagnò con gli occhi
la fata che, davanti all’ultima grotta, lo salutò con un cenno della
mano.
L’alba
del mattino seguente svegliò Carletto, che arrotolò la sua coperta,
condusse il piccolo gregge al fontanile, fece le sue pulizie personali e
consumò la sua colazione, un pezzo di pane e delle albicocche che il
padre gli aveva portato il giorno prima. Si sedette all’ombra del grande
ulivo, prese tra le mani il libro che aveva nello zaino, ma non riuscì
a concentrarsi nella lettura. Non riuscì a non pensare a quell’evento
straordinario della sera prima, alle lucciole, agli elfi, ai folletti,
agli gnomi, ma soprattutto aveva stampati nella mente gli occhi dolci di
Ortensia, i suoi capelli di filigrana, le sue mani diafane, le sue
parole, ed ebbe il dubbio che quanto ricordava, fosse stato soltanto un
sogno, di quelli che ti lasciano il segno per un po’ e sembrano reali.
Il dubbio lo colse, forse aveva sognato davvero, ma accostandosi alla
polla per bere, notò con sua grande sorpresa che, accanto alla sorgente,
stava una brocca, un po’ più grande delle altre, ma identica nella
forma a quelle che la sera prima aveva visto riempire dai folletti. Ciò
gli permise di fugare il dubbio, riempì la brocca e risalì verso la
grotta più alta, la depositò quasi davanti all’imbocco e ritornò dalle
sue pecore.
Quando
pian pianino risalì la collinetta col suo gregge, guardò in direzione
della prima grotta, non c’era più la brocca, al suo posto uno dei
barbuti gnomi salutava con la manina.
Il
sole era allo zenith, faceva caldo e le pecore cercavano l’ombra dei
pochi arbusti. Carletto sedette sotto la sua tettoia e si appisolò.
Quando si svegliò, accanto, seduto su un sasso, c’era lo gnomo barbuto
che sorrise e gli disse: - non preoccuparti per le tue pecore, ci sono i
miei fratelli ad accudirle, tu alzati e seguimi, Ortensia vuole
esaudire il tuo desiderio, ti riceverà nella sua grotta. Mai essere
umano l’ha visitata, quando tremila anni or sono fu scavata, il despota
che ne ordinò la realizzazione, una volta ultimata, fece uccidere le
maestranze e ricoprì l’imbocco proprio con questo sasso dove tu hai
accostato la tettoia. Nel tempo, un violento terremoto fece rotolare la
grande pietra e la grotta vide la luce. Carletto si alzò, bevve un sorso
d’acqua dalla sua borraccia e seguì lo gnomo.
Davanti
all’imbocco della grotta, il ragazzo chiese allo gnomo: - come faremo a
calarci giù? – non ebbe il tempo di finire che vennero fuori due elfi
che appoggiarono sul ciglio una comodissima scala, foderata di seta, con
due passamani in metallo lucido. Lo gnomo scese i primi due gradini e
disse a Carletto: - vieni – e tutti e due guadagnarono il fondo.
L’interno era una grande sfera, illuminata da migliaia di lucciole
attaccate alla parete, dal pavimento si dipartivano quattro corridoi,
portavano agli alloggi per elfi, gnomi, folletti, e quello per Ortensia.
La fata era giù, seduta su una comodissima poltrona rivestita in seta,
sfolgorante, nel suo abito di veli di un rosso carminio stretto alla
vita da una cinta in giallo-oro, le sue scarpette erano in velluto rosso
ed i suoi capelli di filigrana erano legati dietro la nuca con un
nastro di seta nero. Gli occhi le brillavano e le sue mani sembravano di
cera. Carletto rimase abbagliato da tanta bellezza e tanta grazia, non
trovò parole. La fata sorrise, battè le mani ed un folletto portò un
morbido cuscino di seta che diede al ragazzo e questi, all’invito di
sedersi, vi si adagiò davanti a lei. - Come vedi, il tuo desiderio è
stato esaudito, ho voluto premiare la tua ubbidienza, la tua devozione
al lavoro e alla famiglia, la tua generosità. La brocca che hai portato
piena era la mia, era quella più grande, l’ho lasciata volutamente vuota
giù al fontanile, per darti la prova che quanto avevi visto era vero e
non era soltanto un sogno. La tua è certamente una vita grama, ma tu non
ti lamenti, e per non perdere il contatto col mondo, ti fai prestare i
libri e attingi da essi quanto ti serve per soddisfare il tuo desiderio
di cultura. Dimmi, cosa desideri più nella vita, qual è il tuo sogno più
grande? Rifletti, non rispondermi subito, la fretta non è mai una buona
consigliera. Fra poco arriverà tuo padre per portarti ciò che ti
occorre e tu dovrai essere con il tuo gregge, ma ancora hai tempo, ti
condurrò nella mia stanza e ti mostrerò un oggetto in miniatura e poi ti
assegnerò un compito. – Carletto seguì le parole della fata, non smise
mai di fissarla e poi disse: - bellissima signora, io non racconterò mai
a nessuno quanto ho visto, nemmeno alla mia mamma, lo conserverò come
un bel ricordo, ma permettetemi di rivedervi ogni giorno, ciò non mi fa
pensare alla mia solitudine, rende il mio lavoro piacevole e non sognerò
più di andare via da questo posto per cambiar vita. – La fata sorrise,
si alzò, si chinò sul ragazzo, lo strinse al suo seno e lo baciò sulla
fronte. – Vieni, andiamo nella mia stanza – lo prese per mano e
attraversò con lui uno dei quattro corridoi illuminati da migliaia di
lucciole. – Entra e siediti – prelevò da uno dei suoi tavolinetti colmi
di oggetti un modellino in tufo di una poltrona, glielo porse e disse: -
ho sempre desiderato sedermi all’esterno della grotta, nelle serate
d’estate, su una poltrona scavata nella calcarinite, ma i miei amici
sono tanto piccoli, non hanno la forza per realizzare il mio sogno, ed i
loro attrezzi sono minuscoli, riescono a realizzare soltanto oggetti in
miniatura, guarda, i miei tavoli sono pieni.- Carletto sorrise, studiò
la piccola miniatura, fissò nella sua mente le forme e calcolò la misura
adatta alla sua fata, poi riconsegnò l’oggetto e disse: - giù nella
parete a ridosso della tettoia, dove la pietra è più friabile,
realizzerò la tua poltrona, ci lavorerò fino a tarda sera e anche di
notte, quando ci sarà la luna piena, te lo prometto. – La fata sorrise –
ricordati, oggi sarà luna piena, ed io desidero che per la prossima
luna la mia poltrona potrà servirmi per mirarla, quindi, vent’otto
giorni da oggi. Puoi andare ora, tuo padre sta per arrivare. – Carletto,
accompagnato ai piedi della scala la risalì e si trovò fuori dalla
grotta tra le sue pecorelle.
Appena
arrivò il padre gli fece la richiesta di uno scalpello ed un mazzuolo, a
tarda sera l’anziano pastore ritornò e consegnò gli attrezzi al figlio.
Il
mattino seguente, abbeverate pecore ed agnelli, si mise all’opera sulla
parete di pietra friabile. Carletto era infaticabile, giorno dopo giorno
la pietra prese forma, ma lui era soltanto un ragazzo e quando
cominciava a far buio, era così stanco che cadeva in un sonno profondo.
Erano
già trascorsi ventisei giorni, il lavoro abbisognava delle rifiniture,
occorreva eliminare le asperità, la sua fata non poteva sedersi e
poggiare le spalle sul ruvido, bisognava far presto, ma non bastava il
tempo. Carletto cominciò a disperarsi, ed al ventottesimo giorno, pur
lavorando a sera inoltrata, capì che non poteva finire la sua opera. A
tentoni asportava le asperità e, talvolta, batteva il martello sulle sue
dita facendosi male. D’un tratto uno sciame di lucciole si posò sulla
parete di pietra e illuminò la poltrona, il ragazzo si diede un gran da
fare e, quando tutte le superfici divennero lisce, guadagnò il suo
giaciglio.
Quando
la luna piena fece capolino all’orizzonte, Ortensia, accompagnata dai
folletti, dagli gnomi e dagli elfi, raggiunse la poltrona e sedette ad
ammirarne il suo procedere lento. Il sonno di Carletto durò poco, andò
incontro alla fata dai capelli di filigrana che brillavano attraversati
dai raggi di luna. Nel suo viso si leggeva la gioia che provava, la sua
fata aveva la sua poltrona, questo lo fece sentire importante. – Torna a
dormire – disse la fata – sei stanco, io veglierò il tuo sonno e
domani, dopo l’abbeverata mi verrai a trovare.-
Il
giorno seguente, quando il sole era già alto, il ragazzo si avvicinò
alla grotta, i due elfi appoggiarono la scala sul ciglio ed egli scese
giù. Ortensia l’aspettava, gli andò incontro e lo carezzò - è giunto il
momento di dirmi qual è il tuo più grande desiderio, hai avuto del tempo
per riflettere, ventotto giorni in cui hai faticato, venendo a capo di
un impegno arduo per un ragazzo come te, io posso esaudirne solo uno di
desideri, su, esprimilo! – Carletto sorrise, capì che la fata era pronta
a dargli un premio e disse: - fa che io possa ritornare a scuola, che
possa frequentare nuovamente l’oratorio, che possa studiare per potere
aiutare i miei genitori nella loro vecchiaia. – Ortensia sciolse i suoi
capelli, prelevò la sua bacchetta magica da un cassetto e la fece
ruotare in aria disegnando un grande cerchio, poi fissò Carletto: -
tutto avverrà in ventotto giorni! – Abbracciò il ragazzo e prima di
licenziarlo andò nella sua camera e ritornò con la miniatura della
piccola poltrona. – Tieni è tua – disse – è d’oro, non è il valore che
conta, non cederla mai, portala sempre con te, tutte le volte che la
guarderai o la sfiorerai ti ricorderai della fata delle grotte di
Raitano – lo baciò e lo accompagnò ai piedi della scala. Ventotto giorni
dopo arrivò a casa sua il telegramma di un notaio statunitense che
avvertiva la famiglia che lo zio del padre di Carletto, passando a
miglior vita, gli aveva lasciato in eredità una fortuna inestimabile.
Giusto il tempo di fare le carte e Carletto andò in America con i suoi.
Lì, ebbe modo di studiare, laurearsi ed assicurare una vecchiaia serena
ai suoi genitori. Quando dopo quindici anni tornò in Sicilia, volle
recarsi a Raitano, ed in una notte di plenilunio godette della compagnia
della sua fata seduta sulla poltrona di pietra. Il tempo non era
trascorso, non aveva scalfito la sua bellezza, tutto era immutato. Si
avvicinò, cacciò dalla tasca una piccola scatola e la porse alla sua
fata, senza proferir parola. Ortensia aprì la scatola, dentro c’era una
piccola stella realizzata in diamanti che brillarono sotto i raggi della
luna piena. – Bambino mio – disse la fata commossa – non mi hai
dimenticata, il vile denaro non ti ha dato alla testa, il tuo cuore è
rimasto quello del mite pastorello – prese la piccola stella e l’appuntò
sulla sua chioma dorata, e la stella brillò come le sue lucciole. –
Ascolta Carletto, non perdere mai la tua innocenza, fai che il bambino
che c’è in te, venga sempre fuori e al momento giusto. Ricordati, tutti i
grandi sono stati bambini una volta, ma pochi di essi se ne ricordano! -
In un baleno tutto svanì, Carletto si guardò attorno, stringeva tra le
mani la miniatura che gli era stata regalata, capì che non avrebbe più
rivisto la sua fata; solo le lucciole erano rimaste ad illuminare la
poltrona scavata nella roccia.
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