Mario Scamardo
Il tesoro e la chiave di Volta
Quando ai primi del ‘900 i feudi potevano
essere spezzettati, non ereditava più soltanto il primogenito, ma in egual
misura tutti i figli di ambo i sessi. Carlo Maria Guai era figlio unico e lo erano stati suo padre, suo nonno ed il
suo bisnonno che, come lui, portava lo stesso nome. Il titolo di barone se lo
erano tramandati di padre in figlio, e con il titolo anche il feudo di
Pietraforata e Palazzo Guai-Carbone in cima al Cassaro, proprio di fronte
all’abbazia benedettina. Guai, un nome antipatico, anche se Carlo Maria era una
persona amabile, generosa e sempre sorridente e, quando c’era bisogno di
presentarsi, ironizzava sul suo casato proprio per quel nome. Immergendosi
nella lettura degli atti notarili della sua famiglia, scoprì che il suo
trisavolo in realtà si chiamava Guadi e che nel trascrivere in bella copia, il
notaio aveva dimenticato la lettera (d), ma in fondo all’atto col quale gli si
trasferiva il feudo, Carlo Maria, cercando il nome dell’avo, notò una bella
croce al posto della firma e la notazione : “Il sottoscritto non sottoscrive perché nobile”. Stranezze? E
chi lo sa! I nobili non firmavano perché erano nobili o perché erano del tutto
analfabeti? Carlo Maria non lo seppe mai! Suo padre lo aveva fatto addottrinare
da un aio molto colto che era stato per tanto tempo Abate proprio al convento
dei benedettini.
Il giovane barone Guai perse i genitori molto presto a causa di una pandemia che decimò la città; quando compì ventotto anni sposò Veronica Grifo, cinque anni più giovane di lui, nobildonna trapanese dei marchesi di Zubbio. Veronica era una donna bellissima, abituata agli agi, corteggiata da tutta la nobiltà isolana, vanitosa e sempre elegante. Amava viaggiare la marchesa e non disdegnava il lusso. Carlo Maria nei primi dieci anni di matrimonio delapidò buona parte del patrimonio di famiglia e, quando si rese conto che, del feudo di Pietraforata erano rimasti solo una cinquantina di ettari dei trecento iniziali, si diede una calmata, eliminò parte del personale, vendette le tre carrozze e lasciò soltanto un calesse, un cavallo e lo stalliere che si occupava pure di andare a fare la spesa e i piccoli servigi. A rigovernare la casa, fare le pulizie e cucinare rimasero l’anziana Rosalia e sua figlia nubile Concettina. Poi invitò un maestro muratore che fosse in grado di ottenere da tutto il piano terra del palazzo, una serie di locali da affittare ai bottegai e ai commercianti, al fine di trarne mensilmente delle cifre che gli consentissero di vivere di un minimo di rendita.
A lavori ultimati, tutt’attorno al piano terra di Palazzo Guai-Carbone si contarono dodici grandi usci oltre al vecchio androne sormontato dallo stemma di famiglia, scudo con leoni rampanti sormontato da corona baronale. Presto i commercianti della città vollero accaparrarsi dei locali ben rifiniti e Carlo Maria stipulò dodici contratti che gli permisero di incassare mensilmente più di quanto l’intero feudo non avrebbe potuto dargli, proprio una fortuna! Veronica Grifo ebbe un’idea geniale, considerato che il palazzo era situato in cima al Cassaro , grande arteria, piena di negozi e di botteghe artigiane di pregio; considerato altresì che era situato in una piazza e che di fronte c’era l’abbazia con la cappella sempre aperta al pubblico, pensò di destinare il salone delle feste, la biblioteca e le sale attigue a mostra permanente per gli artisti isolani che volessero esporre le loro opere, sempre dietro il pagamento di una cifra stabilita per numero di opere e per numero di giorni. Fu l’architetto Galvani che sistemò i saloni e fece si che una lunga serie di specchi, sistemati secondo una logica fisica, riflettessero, centuplicandola, la luce delle lampade a gas e delle mille candele di cera, ed illuminassero costantemente le opere esposte. Un lungo lavoro, la scelta e la collocazione degli specchi, ma anche la scelta e la realizzazione delle cornici che dovevano essere in armonia con quanto in quei saloni vi si trovava. Galvani era un perfezionista, la marchesa Veronica era tanto esigente, ma alla fine, quella idea geniale trasformò il piano nobile del palazzo in una pinacoteca dove artisti ed opere cambiavano ogni trenta giorni. Per gli artisti dell’isola, esporre a Palazzo Guai-Carbone divenne quasi un punto d’arrivo delle loro carriere. I nobili della città ebbero sempre parole di elogio per Veronica Grifo, la marchesa che aveva saputo riportare quel palazzo agli antichi splendori.
Il giovane barone Guai perse i genitori molto presto a causa di una pandemia che decimò la città; quando compì ventotto anni sposò Veronica Grifo, cinque anni più giovane di lui, nobildonna trapanese dei marchesi di Zubbio. Veronica era una donna bellissima, abituata agli agi, corteggiata da tutta la nobiltà isolana, vanitosa e sempre elegante. Amava viaggiare la marchesa e non disdegnava il lusso. Carlo Maria nei primi dieci anni di matrimonio delapidò buona parte del patrimonio di famiglia e, quando si rese conto che, del feudo di Pietraforata erano rimasti solo una cinquantina di ettari dei trecento iniziali, si diede una calmata, eliminò parte del personale, vendette le tre carrozze e lasciò soltanto un calesse, un cavallo e lo stalliere che si occupava pure di andare a fare la spesa e i piccoli servigi. A rigovernare la casa, fare le pulizie e cucinare rimasero l’anziana Rosalia e sua figlia nubile Concettina. Poi invitò un maestro muratore che fosse in grado di ottenere da tutto il piano terra del palazzo, una serie di locali da affittare ai bottegai e ai commercianti, al fine di trarne mensilmente delle cifre che gli consentissero di vivere di un minimo di rendita.
A lavori ultimati, tutt’attorno al piano terra di Palazzo Guai-Carbone si contarono dodici grandi usci oltre al vecchio androne sormontato dallo stemma di famiglia, scudo con leoni rampanti sormontato da corona baronale. Presto i commercianti della città vollero accaparrarsi dei locali ben rifiniti e Carlo Maria stipulò dodici contratti che gli permisero di incassare mensilmente più di quanto l’intero feudo non avrebbe potuto dargli, proprio una fortuna! Veronica Grifo ebbe un’idea geniale, considerato che il palazzo era situato in cima al Cassaro , grande arteria, piena di negozi e di botteghe artigiane di pregio; considerato altresì che era situato in una piazza e che di fronte c’era l’abbazia con la cappella sempre aperta al pubblico, pensò di destinare il salone delle feste, la biblioteca e le sale attigue a mostra permanente per gli artisti isolani che volessero esporre le loro opere, sempre dietro il pagamento di una cifra stabilita per numero di opere e per numero di giorni. Fu l’architetto Galvani che sistemò i saloni e fece si che una lunga serie di specchi, sistemati secondo una logica fisica, riflettessero, centuplicandola, la luce delle lampade a gas e delle mille candele di cera, ed illuminassero costantemente le opere esposte. Un lungo lavoro, la scelta e la collocazione degli specchi, ma anche la scelta e la realizzazione delle cornici che dovevano essere in armonia con quanto in quei saloni vi si trovava. Galvani era un perfezionista, la marchesa Veronica era tanto esigente, ma alla fine, quella idea geniale trasformò il piano nobile del palazzo in una pinacoteca dove artisti ed opere cambiavano ogni trenta giorni. Per gli artisti dell’isola, esporre a Palazzo Guai-Carbone divenne quasi un punto d’arrivo delle loro carriere. I nobili della città ebbero sempre parole di elogio per Veronica Grifo, la marchesa che aveva saputo riportare quel palazzo agli antichi splendori.
Carlo Maria, non potendo più disporre della biblioteca, che ospitava in un angolo il suo studio, allestì in soffitta un angolino illuminato da tre abbaini e da un enorme lampione a gas. Passava lì le sue giornate, a leggere vecchi documenti, vecchie carte e a scrivere quella che era la storia, per la verità abbastanza fantastica, della sua famiglia.
Erano passati tredici anni dal suo matrimonio, il buon Dio non gli aveva dato figli. Quando gli amici lo venivano a trovare con i loro fanciulli, Carlo Maria se li metteva in braccio e come se fossero figli suoi, li stringeva a se, giocava con loro, dialogava cercando di cogliere il meglio da ciò che accadeva e che sentiva. Il pomeriggio del quindici di aprile, in quel giorno si era sposato tredici anni prima, Veronica salì in soffitta, guardò il foglio su cui scriveva il marito, poi lo abbracciò da dietro le spalle, lo strinse fortemente e lo baciò sui capelli:
- Carlo, ho urgente bisogno di dirti una cosa importante.
L’uomo sollevò la testa dal foglio, si girò e fece per alzarsi, poi:
- Cara, cosa vuoi dirmi…
- Una cosa davvero importante, prova ad
indovinare…
- Un viaggio?
Veronica lo abbracciò, lo baciò e sedette sulle
sue ginocchia:
- Carlo, aspetto un bambino…
- Carlo, aspetto un bambino…
Carlo non proferì parola, ma i suoi occhi si
riempirono di lacrime, poggiò la testa sul seno della moglie e sommessamente
sussurrò:
- Un bambino
-Si, nostro figlio…
I due furono pervasi da una gioia che non si può descrivere, si presero per
mano e pian pianino scesero al piano inferiore.
Le soluzioni che avevano trovato, sfruttando il palazzo, andavano come previsto e Carlo Maria e Veronica si permisero nuovamente dei lussi. Essendo la loro casa frequentata da pittori, scultori, ceramisti, orafi, comunque da artisti, era frequentata anche da visitatori, e quel palazzo trasformato in parte in galleria, portò così tanta gente che anche i negozianti del piano terra ne ebbero grandi vantaggi e, la piazza in cima al Cassaro diventò un salotto, tanto da beneficiarne pure i benedettini che aprirono accanto alla cappella un negozio di oggetti sacri, di paramenti e di ex voto in argento di tutte le fogge.
Le soluzioni che avevano trovato, sfruttando il palazzo, andavano come previsto e Carlo Maria e Veronica si permisero nuovamente dei lussi. Essendo la loro casa frequentata da pittori, scultori, ceramisti, orafi, comunque da artisti, era frequentata anche da visitatori, e quel palazzo trasformato in parte in galleria, portò così tanta gente che anche i negozianti del piano terra ne ebbero grandi vantaggi e, la piazza in cima al Cassaro diventò un salotto, tanto da beneficiarne pure i benedettini che aprirono accanto alla cappella un negozio di oggetti sacri, di paramenti e di ex voto in argento di tutte le fogge.
Carlo Maria non aveva mai amato né le banche né
i banchieri, il denaro liquido che aveva posseduto, per la verità sempre poco,
lo aveva tenuto nei cassetti della sua scrivania, mentre i gioielli di sua
madre erano deposti accuratamente in un forziere nella sua camera da letto.
Veronica teneva i suoi gioielli, che s’era portata da Trapani dopo il suo
matrimonio, in un cassetto del comò. Tutto troppo poco ben custodito, occorreva
ricorrere alla banca o munirsi di una cassaforte adeguata e, i due coniugi ne
parlarono.
Veronica,
nel pieno dei suoi trentasei anni, era arrivata al sesto mese di gravidanza,
non bastavano più Concettina e Rosalia, ancor prima che nascesse il bambino
occorreva assumere una donna che si occupasse di lei e fungesse da balia per il
nascituro. Concettina si adoperò di trovare Lucia, badante tuttofare, balia
compresa.
La soffitta di Palazzo Guai – Carbone era
immensa, cinque locali grandissimi, uno
di seguito all’altro, ripieni di vecchio mobilio, di suppellettili vari e di
una serie interminabile di casse piene di vecchi abiti, di cristallerie
accuratamente avvolte in drappi di panno e di soprammobili di tutte le fogge.
Avevano un valore i contenuti delle casse? Qualunque fosse stato, mai Carlo
Maria avrebbe alienato qualcosa, così come avevano fatto suo padre e suo nonno.
In fondo all’ultima grande stanza c’era disegnata sul muro la rosa dei venti e,
stranamente, il giovane barone non aveva mai fatto caso che, l’asse Nord-Sud
della rosa non rispettava le leggi del
filo a piombo, come se chi l’aveva rappresentata, volutamente avesse voluto
girare in senso antiorario il Nord e di conseguenza l’intera rosa. Strano,
pensò il barone, forse un pittore burlone o uno dei suoi antenati, improvvisato
pittore, non aveva tenuto conto di posizionare l’asse Nord-Sud secondo la
direzione del filo a piombo. Accennò un sorriso e si mise a cercare dentro
alcune casse qualcosa che meritasse di essere riportata all’antico splendore.
La luce che proveniva dagli abbaini non riusciva ad illuminare ampiamente tutti
i vani, allora Carlo Maria, proprio nell’ultima stanza cercò di aprire l’unica
finestrella che c’era, ma aimè era una finestra murata all’esterno. Un raggio
di luce entrò impetuoso da un minuscolo buco che era stato praticato al centro
della falsa finestra, e illuminò proprio il Nord della rosa. Il giovane barone
diventò pensieroso, si chiese quale logica avesse praticare un foro alla parete
di una finta finestra, per illuminare una rosa dei venti ruotata di circa
trenta gradi in senso antiorario. Non trovò spiegazione, richiuse la finestra e
tornò giù a fare compagnia a Veronica. Il tempo del lieto evento si faceva
sempre più vicino e l’ostetrica che doveva assistere Veronica passava due volte
al giorno, aspettando che fosse giunto il tempo del travaglio. La madre di
Veronica, la marchesa Adalgisa, arrivò
in carrozza da Trapani con al seguito due sue sorelle nubili, Eloisa e
Gesualda, anch’esse marchese di Zubbio; il cocchiere e la carrozza vennero
ospitati in un vecchio fabbricato alle spalle del palazzo, nel fondaco
Caruselli.
Carlo Maria, la sera che la moglie andò in
travaglio, si collocò con una poltrona nella saletta antistante la camera da
letto ed attese, tra l’andirivieni delle donne di casa, il primo vagito.
Ignazio Gioacchino Guai, barone di Pietraforata, venne alla luce alle otto del
mattino del 13 novembre, per otto giorni consecutivi si festeggiò e anche i
monaci benedettini dell’Abbazia di
fronte al palazzo, a turno, andarono a congratularsi per il lieto evento.
Il Natale era alle porte, i primi segnali li
davano le vetrine dei negozi addobbate con tante stelline di cartone dipinte in
oro, anche in chiesa si allestiva il presepe e si intonavano i canti
dell’Avvento e le signore si preparavano all’acquisto dei doni. Carlo Maria si
ricordò che sua nonna paterna, passata la festa di Ognissanti e la
commemorazione dei defunti, dava il via alla realizzazione di un grande presepe
con tantissime figurine, pastori, popolane, artigiani, ruscelli e fontanili, e
poi la stalla con bue e asinello, Maria, Giuseppe e il bambinello, infine i tre
Magi con i loro dromedari. Venuto alla luce Ignazio Gioacchino, allora,
bisognava ritornare alla vecchia tradizione del presepe, le cui figurine erano
state riposte, tanto tempo addietro, in una delle decine di casse della
soffitta. Andando per esclusione, la
cassa che conteneva il presepe era proprio sotto quell’enorme rosa dei venti
dipinta sulla parete di fondo dell’ultimo ambiente. Carlo Maria si fermò
davanti alla rosa, poi andò ad aprire la falsa finestra e dal buco entrò ancora
una volta il raggio luminoso che colpì quel Nord ruotato di 30° in senso
antiorario. Ricordando che la giornata era buia, si meravigliò della luminosità
del raggio di luce, allora guardò attentamente e scoprì che nel buco era
installata una lente capace di intensificare il raggio luminoso. Si avvicinò
alla rosa e notò che il Nord indicava una trave, quella più grossa della
centina che reggeva l’intero soffitto. Che nesso aveva il Nord della rosa con
la trave centrale della centina? Il barone fissò alla sua mente quanto aveva
visto, poi individuata la cassa che conteneva le figurine del presepe, chiamò
l’ex stalliere e se la fece trascinare accanto al suo studio e con calma
cominciò a realizzare il presepe. Quando dopo due giorni lo ebbe finito, lo
mostrò a sua moglie, alla suocera, alle di lei sorelle e al personale tutto,
contento di essere tornato indietro di almeno vent’anni.
Sedutosi alla scrivania Carlo Maria disegnò su un foglio la rosa, il Nord non
puntava su Tramontana, ma su Maestrale, perché indicava la trave centrale della
centina, quella maestra? Socchiuse gli occhi per un poco, poi, come se fosse
stato illuminato da qualcosa, esclamo: - ma si, la chiave di Volta! In quel soffitto ce ne
stavano tre, piccole, quelle in cima alle finestrelle degli abbaini! Il giovane
barone si munì di una scala e, nell’ordine, provò a togliere la chiave di Volta
dalle finestrelle degli abbaini, la prima era fissata con la malta e sosteneva
il piccolo arco, la seconda era identica, la terza era fittizia , appena tirata
fuori fece intravedere un piccolo rotolo in pelle di agnello. Una pelle di
agnello arrotolata , in cima ad un abbaino, celata da una finta chiave di
volta! Carlo Maria ebbe un attimo di smarrimento, scese lentamente dalla scala,
si pose sotto il primo abbaino, dove entrava tanta luce, ma esitò a srotolare
la pelle. Cosa poteva essere se non una mappa o una indicazione da “caccia al
tesoro”? Quale dei suoi avi era stato tanto burlone da tramandare qualcosa per
enigmi? Tirò un lungo sospiro e srotolò la pelle. La mappa del feudo di Pietraforata! In un angolo c’erano rappresentati tre grossi
sassi tondeggianti e una piccola polla d’acqua che alimentava un ruscello. Il
ponticello sotto cui il ruscello passava serviva un sentiero che conduceva in
un piccolo casolare contrassegnato dalla lettera (N) e da una piccola àncora, a
destra del casolare un pozzo, contrassegnato con la lettera (M). Perché un
disegno così misterioso su una vecchia pelle di agnello, cosa voleva indicare?...
e quell’àncora? Carlo Maria mise al sicuro la sua mappa in un cassetto e si
ripropose di studiarla con calma, dopo avere smaltito le emozioni, e di
verificarla con attenzione recandosi da solo sui luoghi indicati.
Indeciso se parlarne con la moglie, si abbandonò alle moine e ai primi sorrisi di suo figlio, come se nulla fosse successo. La sera dopo cena, diede ordini al suo stalliere di preparargli il calesse per il mattino seguente poi, assieme a sua moglie, si recò per i saloni ad ammirare la personale del noto pittore-scultore alcamese Alessandro Paparropolo.
La notte il barone si svegliò, in punta di piedi si recò in soffitta, accese il grande lampione e srotolò sul tavolo la pelle d’agnello, la orientò e trasferì su un foglio di carta pergamena quanto contenuto in quella mappa, con una precisione certosina. Chiuso il cassetto dove depose accuratamente il rotolo di pelle, cercò di fare il punto su quella mappa e annotò su un foglio di carta tutto quello che in termini di ricordi gli passava per la mente. Quando il sole fu alto nel cielo, montò sul calesse e si avviò in direzione del feudo di Pietraforata. Quel luogo che era stato della sua famiglia per due o tre secoli, lo conosceva in ogni sua parte, e quanto rappresentato in mappa era proprio in quei cinquanta ettari che non aveva alienato. Smontò dal calesse Carlo Maria, aprì il foglio di pergamena e inquadrò i luoghi, pensò alla rosa dei venti della soffitta e capì che il pozzo contrassegnato dalla M era in realtà il Nord, la direzione del Maestrale e il casolare contrassegnato dalla lettera N segnava i 30° in senso antiorario, tra M ed N la piccola ancora. Il barone lasciò il calesse dove finiva la strada, dove c’erano i tre grossi sassi tondeggianti e dove c’era la piccola sorgente, seguì il ruscello e arrivò al ponte, lo attraversò e seguì il sentiero fino al casolare, poi, in direzione del pozzo, ma quando fece trenta passi in quella direzione notò che nel muretto a secco di pietre tutte bianche, si notavano le uniche pietre di colore scuro, incastrate tra le altre proprio a forma di ancora. C’era cresciuto a Pietraforata, conosceva quel muretto a secco che evitava di far passare le pecore in un’area dove c’era il pozzo per l’acqua potabile, ma mai aveva fatto caso al colore delle pietre! Cosa fare adesso? Scavalcò il muro, ma dall’altra parte le pietre risultavano tutte bianche. Preso un lungo bastone, provò a batterlo verticalmente lungo il muro, quando batté davanti all’ancora il suono diventò cupo. Guardingo si girò attorno e, come se nulla fosse accaduto, si recò al pozzo e, come faceva da ragazzo, guardò il fondo come se dovesse rivelargli l’arcano. Bisognava scavare davanti all’ancora e con un bastone raccattato sotto una vecchia quercia, tanto non era possibile. Ritornò a Palazzo Guai-Carbone il barone, salutò sua moglie e suo figlio e ordinò allo stalliere di procurargli un badile, poi tornò in soffitta, rimise la scala sotto il terzo abbaino, vi montò sopra e tirò la falsa chiave di volta, infilò la mano nel piccolo anfratto ma non c’era nulla, oltre alla pelle non conteneva altro.
Veronica Grifo aveva notato un pizzico di irrequietezza da parte del marito, aveva notato che il suo sonno era un po’ disturbato e, con la dolcezza che la contraddistingueva, chiese a Carlo:
Indeciso se parlarne con la moglie, si abbandonò alle moine e ai primi sorrisi di suo figlio, come se nulla fosse successo. La sera dopo cena, diede ordini al suo stalliere di preparargli il calesse per il mattino seguente poi, assieme a sua moglie, si recò per i saloni ad ammirare la personale del noto pittore-scultore alcamese Alessandro Paparropolo.
La notte il barone si svegliò, in punta di piedi si recò in soffitta, accese il grande lampione e srotolò sul tavolo la pelle d’agnello, la orientò e trasferì su un foglio di carta pergamena quanto contenuto in quella mappa, con una precisione certosina. Chiuso il cassetto dove depose accuratamente il rotolo di pelle, cercò di fare il punto su quella mappa e annotò su un foglio di carta tutto quello che in termini di ricordi gli passava per la mente. Quando il sole fu alto nel cielo, montò sul calesse e si avviò in direzione del feudo di Pietraforata. Quel luogo che era stato della sua famiglia per due o tre secoli, lo conosceva in ogni sua parte, e quanto rappresentato in mappa era proprio in quei cinquanta ettari che non aveva alienato. Smontò dal calesse Carlo Maria, aprì il foglio di pergamena e inquadrò i luoghi, pensò alla rosa dei venti della soffitta e capì che il pozzo contrassegnato dalla M era in realtà il Nord, la direzione del Maestrale e il casolare contrassegnato dalla lettera N segnava i 30° in senso antiorario, tra M ed N la piccola ancora. Il barone lasciò il calesse dove finiva la strada, dove c’erano i tre grossi sassi tondeggianti e dove c’era la piccola sorgente, seguì il ruscello e arrivò al ponte, lo attraversò e seguì il sentiero fino al casolare, poi, in direzione del pozzo, ma quando fece trenta passi in quella direzione notò che nel muretto a secco di pietre tutte bianche, si notavano le uniche pietre di colore scuro, incastrate tra le altre proprio a forma di ancora. C’era cresciuto a Pietraforata, conosceva quel muretto a secco che evitava di far passare le pecore in un’area dove c’era il pozzo per l’acqua potabile, ma mai aveva fatto caso al colore delle pietre! Cosa fare adesso? Scavalcò il muro, ma dall’altra parte le pietre risultavano tutte bianche. Preso un lungo bastone, provò a batterlo verticalmente lungo il muro, quando batté davanti all’ancora il suono diventò cupo. Guardingo si girò attorno e, come se nulla fosse accaduto, si recò al pozzo e, come faceva da ragazzo, guardò il fondo come se dovesse rivelargli l’arcano. Bisognava scavare davanti all’ancora e con un bastone raccattato sotto una vecchia quercia, tanto non era possibile. Ritornò a Palazzo Guai-Carbone il barone, salutò sua moglie e suo figlio e ordinò allo stalliere di procurargli un badile, poi tornò in soffitta, rimise la scala sotto il terzo abbaino, vi montò sopra e tirò la falsa chiave di volta, infilò la mano nel piccolo anfratto ma non c’era nulla, oltre alla pelle non conteneva altro.
Veronica Grifo aveva notato un pizzico di irrequietezza da parte del marito, aveva notato che il suo sonno era un po’ disturbato e, con la dolcezza che la contraddistingueva, chiese a Carlo:
- Ho notato in te un pizzico di nervosismo, c’è
qualcosa in cui io ti posso aiutare?
Carlo Maria sorrise, si avvicinò, la baciò
sulla fronte:
- Veronica devo condividere con te un piccolo
segreto…
Quando ebbe finito di raccontarle tutto
Veronica, senza dar segno di alcuna frenesia, lo cinse e poggiò la sua testa
sul suo petto:
- Non so cosa ci sia nel luogo indicato e,
soprattutto, se esiste ancora, ma domattina voglio venire con te, mi hai messo
addosso una grande curiosità.
Si amavano Veronica e Carlo Maria, si presero
per mano e si recarono al piano nobile per il pranzo. Nel pomeriggio, mentre il
barone rivedeva alcune antiche carte, Veronica salì in soffitta e sedette
davanti la scrivania:
- Carlo, da bambina, mia nonna Laura, soleva
raccontarmi, dopo pranzo delle favole, dei piccoli racconti, dei narrati; uno
di questi era “La fossa dell’ancora”,
narrava di una sirena che stava a guardia, in una fossa del Pacifico, di una
grande ancora d’oro con incastonato un grosso rubino. Durante una tempesta si
era staccata dalla imbarcazione di una principessa filippina. Da bambina mi
affacciavo da un terrazzo e guardavo il mare, all’orizzonte le Egadi, Levanzo,
Favignana, Marettimo e, sulle ali della fantasia immaginavo l’imbarcazione che
perdeva l’ancora, mentre la sirena stava seduta sull’unico piccolo scoglio a
vigilare.
- Mai sentita questa favola, a volte le nostre
nonne, con la loro fantasia, per tenerci buoni, se le inventavano e le ripetevano
alla bisogna. Domani chiariremo l’arcano, dopo colazione andremo in calesse.
I due si alzarono e Carlo Maria mostrò a Veronica l’anomalia della rosa dei venti, la falsa finestra col raggio di luce, la trave centrale della centina, la chiave di volta falsa sul terzo abbaino.
I due si alzarono e Carlo Maria mostrò a Veronica l’anomalia della rosa dei venti, la falsa finestra col raggio di luce, la trave centrale della centina, la chiave di volta falsa sul terzo abbaino.
Il giorno seguente, appena dopo che la grande
pendola batté le nove, venne servita la colazione e, indossate due palandrane
Veronica e Carlo Maria montarono sul calesse e si avviarono. Carlo fece
percorrere a Veronica gli stessi passi del giorno prima quindi, mappa tra le
mani arrivarono al muretto a secco dove
le pietre scure disegnavano un’ancora. Carlo
prese la vanga e scavò un fosso all’incirca di 50cm x 50cm e, dopo poche
badilate, venne alla luce un bauletto ricoperto con una lamina di piombo. Quando
Carlo lo tirò dal suo antico alloggio, si rese conto che di tempo ne era
passato tanto dal momento che il bauletto era stato da qualcuno lì collocato. Su
suggerimento di Veronica il barone riempì il fosso che s’era creato con alcune
pietre e della terra, la donna prese il badile e attese che Carlo, dopo averlo
ripulito in modo grossolano, trasportasse il bauletto al calesse. A palazzo,
affidato il calesse allo stalliere, i due si rinchiusero in soffitta e si
adoperarono per aprire lo scrigno. La serratura cedette molto facilmente e, al
centro di un drappo rosso brillò, dopo tanti anni, un grosso rubino incastonato
in una piccola ancora d’oro attaccata ad
un collier. Veronica dovette sedersi, la favola di nonna Laura si era
trasformata in realtà! Carlo Maria prese tra le mani il monile e, senza indugio
lo attaccò al collo di Veronica, tornò al bauletto, sollevò il drappo rosso e
scoprì una lastra in madreperla che raffigurava una sirena, il cui volto era
identico a quello di Veronica Grifo. Non conteneva altro il piccolo baule, ma
ripulito offrì una immagine impressa sulla lamina di piombo, una rosa dei venti
col Nord sfalsato di 30° in senso antiorario. Il barone Guai non riuscì mai a
capire quale antenato lo fece soffrire e
gioire tanto.
Il giorno seguente Carlo Maria montò su una
scala con più gradini, proprio sotto il terzo abbaino, sollevò la falsa chiave
di Volta e depose in quel buco tutti i gioielli di famiglia. Quella falsa
chiave diventò la cassaforte di Palazzo Guai-Carbone!
Se vi è piaciuta o meno, lasciate un commento, se volete. Grazie!