IL FALCO E LA PRINCIPESSA
C'era una volta una principessa berbera, che abitava in un'oasi del Sahara tunisino. Il padre, capo di una grande tribù, era ricchissimo, la sua tenda era enorme e sfarzosa. Soffici cuscini di seta ricamati in oro, immensi tappeti arabescati ricoprivano l'intero pavimento, artistici samovar tirati a lucido e incensieri sempre accesi diffondevano nell'aria profumi esotici, a decine erano le casse piene di pietre preziose gemme e sete damascate.
Al centro di un enorme palmeto stracarico di datteri zuccherini, una sorgente gorgogliante di chiarissima acqua si versava in una grande vasca, ammattonata in ceramica color verde smeraldo, che faceva sembrare l'acqua ancora più fresca e cristallina.
Fatima, la principessa, unica figlia, veniva coccolata dalle sette mogli del padre e veniva educata da quattro saggi fatti venire dalla Persia, dalla Siria e dall'Iraq, affinchè apprendesse l'arte del canto, della pittura, della tessitura e della danza, mentre, per farle apprendere gli insegnamenti delle Sure del Corano, era venuto a bella posta da Kairuan, quarta città santa dell'Islam, un filosofo saudita di gran fama, che s'era addottrinato alla Mecca.
Il padre possedeva, oltre all'immenso palmeto, una mandria di mille dromedari e un ovile di duemila pecore, che affidava per il pascolo alle cure di pastori berberi. A Fatima era stato regalato uno stallone arabo e le era stata donata la sella sulla quale la madre, che era morta dandola alla luce, si era recata nella grande moschea di Tozeur il giorno delle nozze.
La principessa veniva svegliata tutte le mattine all'alba e, dopo il bagno nella immensa vasca posta al centro del palmeto, saltava in groppa al suo stallone arabo e si addentrava tra le bianche dune di finissima sabbia. Il padre l'accompagnava con lo sguardo e gioiva per la sua maestria nel cavalcare, mentre il vento faceva ondeggiare la sua chioma corvina e con essa i suoi veli. Fino al ritorno di Fatima tutti nell'oasi sembravano in apprensione, ma lei, come una nuvola variopinta, bloccava il suo destriero davanti alla grande tenda e smontando da cavallo correva a gettarsi al collo del padre coprendolo di baci.
La sera, attorno al fuoco, fuori dalla tenda i contadini, i pastori e le loro mogli, sorbendo tè alla menta, raccontavano del loro passato tra le dune e delle loro avventure, quando in carovana andavano a rifornirsi di sale e di stoffe. Una volta qualcuno giurò sul Corano, sommerso dall'incredulità degli astanti, che in una notte di plenilunio, tornando con un carico di sale, all'orizzonte, dove tramonta il sole, aveva visto una grande porta tutta d'oro, con due leoni anch'essi d'oro che vi stavano a guardia e che, appena s'era avvicinato, si era spalancata come d'incanto e ne era uscito fuori un baldanzoso puledro dal mantello bianco, bardato con finimenti di seta, ornati di ori e di argenti. In groppa al destriero, un falco dalle ali immense lo chiamò e lo invitò a varcare la soglia.
Per lo stupore e la paura l'uomo si chinò in segno di riverenza, avendolo creduto un segno di Allah, ma si rifiutò di varcare la porta d'oro e carponi raggiunse il suo dromedario. Il falco volò portandosi sulla cima di una duna di fronte a lui e gli chiese tre granelli di sale e tre gocce d'acqua. L'uomo, con le mani tremanti, senza un filo di voce, staccò dal suo carico tre pietruzze di sale, pigliò uno dei suoi otri semivuoti e li poggiò sulla sabbia, poi fu colpito da un gran sonno.
All'alba, appena desto, si guardò tutt'intorno cercando la porta d'oro, il cavallo bianco, i leoni e il grande falco parlante; non vide nulla e, riavutosi dallo stupore, pensò che il sonno lo aveva colto all'imbrunire ed un sogno fantastico l'aveva accompagnato nella notte. Fece alzare i suoi dromedari per riprendere il viaggio, ma notò che al carico della prima bestia mancavano tre cocci di sale, e dei suoi tre otri ne aveva solo due gonfi d'acqua. I peli delle braccia gli si rizzarono e il cuore gli battè forte forte, si girò attorno ma vide solo distese interminabili di sabbia, null'altro si intravedeva all'orizzonte. Riavutosi, riprese il cammino fra le dune infuocate, tenendo le redini del dromedario capofila.
Giunto all'oasi e scaricato il sale, fu tentato di raccontare l'accaduto alle sue mogli, ma non lo fece per non rischiare di farsi dare del visionario.
Qualche giorno dopo, alla fine di una faticosa giornata, recatosi alla sorgente per lavarsi, raccolse una succulenta melagrana e si sedette su un masso, ma, quando infilò la mano nella tasca del suo barracano per pigliare il coltello, ne tirò fuori novantanove monete d'oro. Lo stupore lo colse, lui non aveva mai posseduto tante monete, era un povero contadino dell'oasi, aveva sempre coltivato datteri e due volte l'anno si recava a caricare il sale e le stoffe che servivano al suo padrone. Ebbe ancora un attimo di esitazione, poi alzò gli occhi in cima all'albero di melograno e scorse un enorme falco che lasciava cadere il suo otre semivuoto che aveva tenuto tra gli artigli mentre spiccava il volo dirigendosi tra le dune.
Fatima non perse una parola del racconto, fu affascinata tanto da quella storia che istintivamente guardò il cielo per scorgervi la luna, ridotta ad una piccola falce, poi piegò la testa sulla spalla di una delle mogli del padre e alzando gli occhi al cielo seguì il cammino dell'astro, mentre un altro contadino iniziava un'altra storia fantastica.
Passavano i giorni e Fatima diventava sempre più bella, due occhi neri e profondi brillavano sul suo volto ambrato, due labbra rosse come il corallo lasciavano intravedere il biancore dei denti, le dita affusolate erano adornate da due smeraldi, i piedi nudi immersi nella sabbia bianca e alle caviglie affusolate portava due braccialetti d'oro con due medagliette; sua madre li aveva portati quando aveva danzato per suo padre. Fatima adornava tutte le mattine le sue caviglie con i braccialetti e la sera, prima di addormentarsi, li riponeva con cura in un cofanetto madraperlato, dove era intarsiato sul coperchio lo stesso scorpione che era coniato su ambedue le facce delle medagliette.
Venne il tempo della raccolta dei datteri e l'oasi si animò a festa, lunghe file di bandierine multicolori attraversavano il palmeto e attorno alle tende era stata fissata una serie di fiaccole, che servivano ad illuminare a festa la notte. Sistemato che fu l'ultimo dattero nei cesti di fibra di palma, la gente dell'oasi sembrò seguire un rituale, si preparò per la festa e, pian pianino, a gruppetti, vestiti con l'abito delle occasioni, si recarono tutti davanti alla grande tenda dove erano state preparate vivande ed erano state accese le fiaccole.
Fatima uscì dalla tenda del padre, era più sfolgorante che mai, e prese posto ai piedi del grande cuscino di seta verde dove s'era sistemato il genitore, attorniato dalle sue mogli. Ad un cenno i suonatori fecero rullare i tamburi, poi continuarono con misiche e canti. I servitori si diedero un gran da fare portando grandi piatti colmi di carni arrostite alla brace, enormi teiere, cesti colmi di frutta e vassoi su vassoi di dolci al miele guarniti con succulenti datteri.
Fatima spiluccava un grappolo d'uva quando Farazanda, la ballerina siriana, sua maestra di danza, le si fece accanto e le sussurrò di danzare in onore del padre e degli astanti tutti. La principessa berbera dagli occhi corvini si alzò in piedi e fù silenzio. Il fuoco, come d'incanto, non fece più sentire il crepitio dei ceppi accesi, il vento si fermò e non si sentì più il fruscio delle palme, i musici fecero tacere gli strumenti, solo l'acqua continuò a gorgogliare e a riversarsi nella grande vasca. Così la vita attorno, che non conosce soste.
La sabbia del deserto sembrava polvere d'argento, allo zenth, la più grande delle ammaliatrici, la luna piena, in tutto il suo splendore, illuminava la pelle ambrata di Fatima che si pose in piedi davanti al padre, si chinò e attese che i musici, al cenno di Farazanda, dessero fiato ai flauti e accarezzassero le corde dei liuti. Una danza leggiadra, mille e mille giravolte, come libellula la giovane berbera fece cogliere in pieno le sue grazie coperte da veli, alle sue caviglie esili tintinnavano i braccialetti. Il crescendo dei ritmi venne scandito dal battito delle mani e lei culminò la sua danza, così come l'aveva iniziata, prostrata davanti al padre.
Farazanda incrociò lo sguardo del genitore della principessa e colse la soddisfazione negli occhi di lui. Come d'incanto le palme ripresero a frusciare, i carboni a scoppiettare, le fiammelle delle fiaccole a tremolare e la luna in cielo, che sembrava essersi fermata, riprese il suo lento procedere verso l'orizzonte. La principessa Fatima sciolse lo stallone arabo, lo montò, e tra la meraviglia di tutti lo sferzò al galoppo tra le dune, verso il sole al tramonto. Il mantello merlino del cavallo si confondeva col bianco della sabbia e la criniera di seta al vento le accarezzava le ginocchia.
Davanti a lei comparve come d'incanto una grande porta d'oro con due leoni a guardia, anch'essi d'oro:
meravigliata, tirò le redini del destriero. Le tornò alla mente il fantastico racconto dell'arabo, ascoltato tempo prima. La principessa, dopo un attimo di esitazione, spronò lievemente il cavallo facendolo andare al passo e si avvicinò all'enorme porta luccicante, che si aprì lentamente. Venne fuori un puledro bianco con una sella d'argento, i finimenti di seta e gli zoccoli muniti di ferri d'oro; in groppa un maestoso falco, che spiccò il volo e si posò, dopo un dolce planare, sulla cresta della duna; Fatima, senza perdersi di coraggio, smontò da cavallo e gli andò incontro.
Il falco aspettò che la principessa fosse a tre passi di distanza, le disse di fermarsi e le chiese: - Bella principessa dalla pelle di luna, che hai il coraggio di venirmi vicino, pochissimo tempo mi rimane per chiederti di farmi un regalo, ma ogni tua esitazione potrebbe impedire di spezzare l'incantesimo al quale una strega mi ha legato. Sono costretto a vivere sotto le sembianze di un falco in una gabbia tutta d'oro, mi è consentito uscire in sella al mio destriero solo nelle notti di luna piena e fino a quando la stessa non scompare all'orizzonte. Sei ancora in tempo per montare il tuo cavallo e fuggire al galoppo.
La principessa tentò di avvicinarsi ancora una volta al falco ma questi la fermò di nuovo: - Fermati, bella berbera, non avvicinarti, prima donami l'oggetto che ti è più caro!
Fatima non ebbe esitazione, si chinò, sganciò dalla sua caviglia un braccialetto e lo lanciò ai piedi del falco, che lo raccolse col becco e volò in sella. Tutto intorno diventò cupo, una nuvola solitaria coperse la luna, la porta d'oro chiuse i battenti e pian piano scomparve assieme ai leoni. Il cielo fu squarciato da fulmini e si sentì un boato. Il vento sollevò una nube di sabbia che avvolse il falco e la sua cavalcatura. Urla, pianti, stridori strazianti riempirono i silenzi del deserto. La nuvola scura si dileguò a mano a mano e la luna riprese a rischiarare tutt'intorno. Tornò come d'incanto la calma. La principessa Fatima, smarrita, vide tra le pieghe della nube apparire in sella al puledro bianco non più il falco ma uno splendido giovane in abiti regali, che portava al polso sinistro il braccialetto che lei gli aveva donato.
Il giovane smontò e le andò incontro, le prese le mani e le baciò, poi si chinò davanti a lei e le chiese perdono per il batticuore che le aveva procurato, ma Fatima lo sollevò rassicurandolo e chiese chi fosse.
- Mi chiamo Mohamed - disse il giovane - sono figlio del pascià di Oman.
La principessa berbera sfiorò con le dita le labbra del giovane principe invitandolo momentaneamente a tacere e lo pregò di seguirla, indi montò il suo purosangue e insieme si recarono nell'oasi del padre.
Il principe raccontò le sue avventure, e il sortilegio della strega che lo aveva relegato ad un incantesimo che sarebbe stato spezzato solo se una fanciulla senza esitazione gli avesse donato l'oggetto più caro che possedeva.
Il padre di Fatima si avvicinò al giovane, gli scoprì una spalla e si accorse che c'era tatuato un piccolo scorpione, uguale a quello delle medagliette dei bracciali. Abbracciò il giovane principe stringendolo al petto e disse : - Mohamed, io ho avuto la fortuna di conoscere il pascià di Oman tuo padre, portava sulla spalla sinistra il tuo segno, lo stesso che portava la mia diletta moglie Sara, madre di Fatima. Tuo padre era cugino di Sara; ora non è più. Per rendere omaggio alla sua salma ho viaggiato sessanta giorni e sessanta notti nel deserto, la sua anima è alla destra di Allah e sicuramente ci guarda dal cielo.
Per quindici giorni e quindici notti fu festa nell'oasi, non si lavorò in onore di Mohamed; le donne si diedero un gran da fare nelle cucine, prepararono carni e leccornie, le teiere furono sempre fumanti e i musici e i danzatori non ebbero riposo.
I giorni passarono, Fatima diventò sempre più bella e Mohamed sempre più legato al padre di lei; gli sguardi dei due giovani si incrociavano sempre e i loro occhi parlavano d'amore: Un giorno, il vecchio padre poggiò le sue mani sulle loro teste, dando la sua benedizione. E vissero felici e contenti.
[Il presente racconto è tratto da IL FAVOLIERE (Cucù e le sue storie) di Mario Scamardo e Sara Riolo - Edizioni ILA PALMA]
Non ho voluto fare una premessa per consentire al lettore una analisi scevra da alcuna influenza.