Ogni uomo è uno specchio animato in
cui, senza tregua, si riflettono i molteplici aspetti del mondo esteriore e si
ridestano incessantemente nuovi mondi di sensazioni, di immagini, di pensieri,
di sentimenti.
Se percorriamo le vie cittadine una
miriade di cose colpiscono i nostri sensi, e giungono alla nostra coscienza: il
sereno del mattino, il via vai della gente, un semaforo che lampeggia, il suono
delle campane, il grido di uno strillone, e operai, e massaie al mercato, lo
stridere dei freni di un’automobile; qui il fermarsi di un capannello, là un
fuggi fuggi, un bimbo che piange, un campanile che svetta, il profumo di
un’aiuola, il discorso di un amico incontrato per strada; e intanto ci torna
alla mente il genitore sofferente, e il petto ci trema, pensiamo alle sue
parole con un affetto nuovo, subito ritorniamo col pensiero a quanto abbiamo
appreso dalla vita, acquisiamo sicurezza, misuriamo la nostra forza, attestiamo
in un attimo la gioconda voluttà di salire fino alla vetta della nostra ascesa,
e sorridiamo al lieto avvenire che la nostra fantasia ci dipinge dinanzi.
Fantasia e sogno sono due valori di cui l’uomo non può fare a meno. E’ con
l’animo fremente di sensazioni, di affetti, di speranze, di pensieri, di
propositi, che ci mettiamo nelle condizioni di ascoltare e di interiorizzare.
Quanti potrebbero esattamente
riportare ciò che hanno visto, udito, notato, pensato, immaginato, sperato,
fantasticato, dopo avere attraversato la città? Ma se tra i fatti infiniti che
si sono affacciati alla nostra coscienza, uno ci ha profondamente colpito, non
solo non lo dimenticheremo, ma lo sentiremo vivere in noi, con una esaltazione
di gioia, o con terrore ed angoscia, che esso dominerà ogni altra impressione e
per lungo tempo non riusciremo a cacciarlo nonostante i nostri sforzi.
Quando nell’anima sboccia una
speranza lieta, nobile, da rendere tutto attorno illuminato, si sente il
bisogno di comunicarla a chi ci vuol bene. Spesso raccogliamo i nostri pensieri
intorno ad un tema, la nostra mente s’illumina di un’idea, e veniamo presi da
un’irrequietezza gioiosa e fremiamo per la smania di correre a casa, per
scrivere quello che abbiamo nel cuore, che ci freme dentro, che vuole essere
detto, che ci angustierebbe se non lo dicessimo.
Le immagini luminose, i sentimenti di
impeto veemente, i fantasmi di compiuta bellezza, vanno partoriti dalla mente
come creatura nuova dall’alvo materno, vanno trasferiti al braccio, alla mano,
ad un foglio.
La forza che crea, come una nuova
vita, una realtà fantastica, un mondo di figure, di fatti, di immagini, di
sentimenti, di affetti, è l’Arte che consente a tutti di comprendere l’opera
più bella.
La poesia è il linguaggio esaltato
della fantasia e del sentimento; la prosa invece ha sempre, in generale,
alcunchè di più pacato, di più mediato; è l’espressione naturale di chi
esercita la facoltà della ragione. Essa è il linguaggio proprio della scienza e
della filosofia.
L’essere
umano muta nel tempo, come l’orientamento del galletto di latta in cima al
camino, ad ogni mutar della brezza. Gli incontri, le vicende alterne della
vita, le passioni, i dolori e le gioie, i falsi orgogli, i facili
arricchimenti, le ricerche di un’opulenza incontrollata, creano sovente
condizioni per metamorfosi continue e, spesso, generano i grandi vortici, dove
i percorsi diventano irreversibili e le vie sono senza ritorno. Davanti a ciò
bisogna interrogarsi sulla fine che hanno fatto sia la fantasia che il sogno. I
pensieri non si rincorrono più in un caotico susseguirsi di immagini sbiadite,
non si inseguono e non si confondono, sovrapponendosi gli uni agli altri.
L’uomo non si vede più bambino ai piedi di una erta nell’intento di risalirla,
rimane immobile, ed il tempo che passa non viene più scandito. La sommità non
verrà mai raggiunta e non si presenta la necessità di scappare da nessun
destino che comunque lo piglierà per mano e lo condurrà all’oblio della ragione
ed alla morte. L’uomo non lotterà disperatamente contro qualcosa che non
conosce e, l’unica immagine che sarà in grado di fissare, gli darà l’incertezza
di una lotta utile.
Lo
scrittore argentino Adolfo Bioy Casares, considerato uno dei maestri della
letteratura latinoamericana, trattando in un suo capolavoro il sogno e la
fantasia, così diceva: “Ho cercato di sfuggire al fantastico, ma mi ha subito
riacciuffato”.
[Tratto
dal romanzo “L’orrendo fascino delle mutazioni” di Mario Scamardo]
Amori a tempo
La
“Domus”, l’agenzia immobiliare di Guido Mura, diretta da Rosetta, si era
trasferita al centro della Palermo dei capitali, in un piano ammezzato di un
meraviglioso palazzo di fine ‘800, in via Libertà. Cinquecento metri quadri,
con una decina di vani adibiti ad uffici, un grande salone con pareti
affrescate usato per le riunioni, mobili in stile, ed in fondo ad un corridoio,
l’accesso ad una segreteria particolare e, quindi, ad un grande studio
ammobiliato con gusto, con le pareti ricoperte da oli ed acqueforti, un
paralume in stile rococò sulla grande scrivania, e un grande fascio di rose
gialle in un vaso di cristallo; quello era il posto di lavoro di Rosetta.
Almeno
trenta persone, tra dattilografi, segretarie e tecnici lavoravano nell’agenzia,
ed un telefono dopo l’altro squillavano, dando l’idea della mole di lavoro che
vi si sviluppava.
Fu una
sera ad un ricevimento in una delle ville liberty di Mondello che Rosetta
conobbe una nobildonna veneta, quarantenne, con due occhioni color del cielo,
capelli tirati sempre su da luccicanti pettinini tempestati di strass ed un
corpo da fare invidia ad una diciottenne. Tutti la chiamavano Benedicta, ma
dopo solo due incontri Rosetta la chiamò affettuosamente Beba. Le due donne si
vedevano quasi tutte le sere, ed era Rosetta che andava a trovarla nella sua
villa, e tutte le volte le portava un fascio di rose scarlatte che Beba gradiva
sistemare nei tanti vasi del suo immenso salotto. Spesso Rosetta non rientrava
a casa, rimaneva ospite della nobildonna per la notte e, talvolta, per più
notti consecutive. Beba era titolare di una agenzia immobiliare nella capitale,
e spesso le due donne si recavano a Roma e vi permanevano per interi fine
settimana. Nulla di più normale in tutto ciò, fino a quando, dopo un piccolo
diverbio tra le due, Beba le trasferì alcune quote societarie della sua
agenzia. A Palermo a qualcuno vennero dei sospetti, la nobildonna veneta non
aveva bisogno di denaro e Rosetta avrebbe dovuto accumularne tanto per poter
comprare delle quote societarie, cosa c’era sotto? Nulla di più elementare,
Beba era lesbica e si era innamorata perdutamente di Rosetta che ricambiava
quel sentimento. Dopo il trasferimento della seconda trance di quote, avvenuto
dopo una furibonda lite, le due donne, per festeggiare il loro riappacificarsi
decisero di fare insieme un viaggio in India che durò oltre trenta giorni. Beba
era diventata gelosa, ogni tanto scopriva che Rosetta la tradiva con parecchi
uomini e tanto esulava dai loro patti, fino al punto che una sera, la pedinò e
la vide entrare a casa di un noto professionista palermitano e ne uscì solo a
notte fonda. La nobildonna andò su tutte le furie, incaricò un investigatore
privato ed ebbe dopo poco tempo foto e filmati delle sue performances con
uomini diversi. Una sera Rosetta si recò nella villa di Beba, le porse il
fascio di rose, l’aiutò a sistemarle nei vasi e, dopo una cenetta a lume di
candela, venne invitata a visionare delle cassette in televisione. Rosetta
assistette silenziosa ed immobile alla visione, e quando si accese la luce nel
salotto, con una flemma che non era stata mai la sua, disse a Beba: - Amica
mia, perché ti formalizzi di tanto, io ti ho dato quello che potevo, ricordati
che non sono io la lesbica, tu sei una bella donna ed io, con immensa passione,
ti ho dato me stessa, non dimenticare che sono femmina e non ti tradirei mai
con un'altra donna, tanto deve bastarti! – La fissò attendendo una reazione ma
l’altra non fiatò, le buttò le braccia al collo e la baciò appassionatamente
sulle labbra. Ora era Rosetta che faceva la spola tra Palermo e Roma, tre
quarti dell’agenzia della capitale erano diventati suoi, conquistati sul campo,
impegnando soltanto il suo corpo; non era mai stata uno stinco di santo e, se
nella sua mente era maturata l’idea che doveva strappare a Beba anche l’ultimo
quarto di quella agenzia, per averla, sarebbe passata anche sul cadavere di sua
madre. E fu così, circa un anno dopo Beba le trasferì l’intera agenzia, in
seguito ad una lite furibonda al limite delle percosse, e quell’atto segnò
pochi giorni dopo la fine del loro idillio. Rosetta chiese un periodo di riflessione
e di meditazione che durò all’infinito, poi, con una calma socratica, le
comunicò che i suoi sentimenti erano crollati. Beba le telefonò mille volte, la
inseguì per ogni dove, la supplicò, la minacciò, si disperò, la colpì la
depressione e fu per lei un esaurimento nervoso. Imbottita di sedativi Beba si
trascurò nella persona, vestì in maniera trasandata, invecchiò repentinamente,
ed i suoi occhi color del cielo si velarono di grigio per sempre. Rosetta non
chiese mai di Beba, non andò mai a trovarla, non ebbe per lei un solo pensiero
e, quando gli amici comuni gliene parlavano, lei li ignorava e cambiava
discorso.
Due anni dopo Guido Mura, proprietario della
“Domus”, innamoratissimo di Rosetta, dopo avere consumato interminabili periodi
di passione con lei, per vivere, finì a fare il commesso in un negozio di
tessuti della città; Rosetta, tra le lenzuola, gli aveva strappato l’agenzia
immobiliare che l’uomo aveva tirato su con enormi sacrifici.
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