lunedì 23 giugno 2014

L E C O R N A ! Racconto breve - (25 giugno 2014)





Mario Scamardo


Le corna!

            Carlo Federico era l’unico figlio maschio della famiglia, l’ultimo di Margherita Helis e Alessandro dei Perciata dopo quattro femmine. Assicurata la discendenza, l’eredità e il nome della nobile famiglia erano salve, i parti di donna Margherita, se non fosse nato Carlo Federico, si sarebbero ripetuti fino a quando la nobildonna sarebbe stata in grado di procreare. 


            Don Alessandro non si accontentava solo di ingravidare sua moglie, ma visitava tutte, o quasi, le abitazioni del feudo e lo faceva di mattina, proprio quando gli uomini erano nei campi a lavorare alacremente. Le sue erano visite di cortesia, e per la verità, siccome non andava mai a mani vuote, anche le donne del feudo gradivano le sue improvvisate. Donna Margherita era a conoscenza delle scappatelle del marito, ma stanca di portare in giro il suo ventre sempre pronunciato, faceva finta di non sapere nulla, nella speranza di avere un po’ di pace.
            Quando Carlo Federico venne alla luce, in quel sontuoso palazzo in mezzo al verde, fu festa per un mese intero, pure i cani festeggiarono in quanto gli avanzi furono tanti fino a sprecarsi. Un banchetto ogni giorno e una giovenca al giorno venne macellata, la cantina si svuotò e si consumarono migliaia di candele. Il trentesimo giorno, coniugi Perciata in testa, tutto il feudo partecipò alla cerimonia di ringraziamento nella cappella del palazzo, e si snodò una processione che attraversò le campagne fino alla cappella dei santi Cosma e Damiano che era stata eretta in epoca remota su una collinetta al confine. 


            Donna Margherita era una donna bellissima, aveva compiuto ventotto anni tre mesi dopo il suo ultimo parto, e pur avendo allattato tutti i figli il suo fisico era perfetto come quello di una ventenne nubile. Il marito, sembrava avere perso la sua focosità e pur passando sempre con meno frequenza dalle case dei contadini, cominciò a disertare anche i doveri coniugali. La nascita del maschio aveva lenito le voglie del marito che aveva trovato una serenità, come se non avesse più interessi per nulla. La donna non fece mai domande, ed anche lei si sentì tranquilla, non castigava più la sua gelosia con qualche singhiozzo strozzato e qualche lacrima e riprese a leggere come faceva da nubile a casa sua, a villa Helis.
            Quando Carlo Federico fu svezzato e di lui si curò una nutrice, Donna Margherita manifestò il desiderio di fare un viaggio, Parigi, un sogno che da nubile non aveva potuto coronare. Don Alessandro si mostrò turbato, ma amava quella donna e dopo tutte le raccomandazioni che le fece, ordinò che preparassero una carrozza che l’accompagnasse alla stazione di Palermo dove aveva prenotato in vagone letto per lei e la sua dama di compagnia Lucia, trentenne, educata, colta e bella quanto la sua padrona.
            Don Alessandro l’accompagnò alla partenza, si preoccupò di far caricare i bagagli, affidò i biglietti al capotreno ed attese che la locomotiva cominciasse a sbuffare per poi togliersi il cappello e salutare.



            Tutto regolare fino al suo ritorno a casa, ma la sera, nel grande salone, provò  la solitudine e quando passeggiò con le mani dietro la schiena per lungo e largo per oltre un’ora, chiamò il suo stalliere e lo inchiodò ad una gragnola di domande sui cavalli, sulle selle, sui calessi e sui finimenti, poi lo licenziò e si mise a dormire. Due giorni dopo ricominciò il suo peregrinare per le case dei contadini. Tra tutte solo  una, Gilda, la moglie del massaro, non gli diede mai l’occasione di sfiorarla con un dito. Per don Alessandro era diventata un chiodo fisso, era formosa e giovane, trentadue denti di pasta d’avorio e le sue gote erano due pesche. Forse i suoi regali erano insufficienti, forse l’approccio non era tra i più ortodossi, eppure lui era un bell’uomo, quarant’anni appena compiuti ed un fisico atletico. Don Alessandro non si diede pace e un mattino anziché passare da casa sua, mandò il cocchiere a prelevarla e la ospitò nel grande salone. Gilda era furba, vestita con gli abiti della festa si sedette sul divano di fronte a lui e quasi ad anticiparlo gli disse:
-        - Don Alessandro, voi siete un uomo interessante, io so perché sono qua, voi desiderate giacere con me come fate con quasi tutte le contadine giovani, io non vi ho dato modo di sfiorarmi, ma anch’io ho desiderato giacere con voi.
L’uomo stranamente diventò rosso in viso, non si aspettava che Gilda osasse tanto, non ebbe la forza di alzarsi:
-        - Gilda, tu mi hai fatto soffrire tanto tempo.
-       -  Signore, non dite nulla, io ho bisogno di maturare dentro di me questa vicenda, dovete darmi un po’ di tempo.
-        - Tutto quello che vuoi.
-        - Vi ringrazio, siete comprensivo, sarò io stessa a darvi il segnale, ma prima che vado via da qua, datemi qualcosa di vostro, non denaro o un gioiello, qualcosa che vi appartenga, affinché io mi abitui a sentirvi vicino.
Gilda aveva notato un fazzoletto posto sul bracciolo di una poltrona con le iniziali  M H ricamate in gotico, erano le iniziali di donna Margherita Helis.
-         Chiedimi quello che vuoi, i miei guanti, la mia sciarpa, la mia catenina del panciotto.
Gilda si avvicinò alla poltrona, prese il fazzoletto, lo strinse nel pugno e gli si avvicinò.
-       -  No signore, mi basterà questo, mi farà sentire vicino a voi. Chiamate il vostro cocchiere e mi fate accompagnare a casa.
Avviandosi verso l’uscita Gilda guardò maliziosamente gli occhi di don Alessandro e gli sorrise, poi affrettò il passo e guadagnò l’esterno non prima di infilarsi il fazzoletto nel seno. Da quel giorno don Alessandro sperò e per non suscitare alcuna gelosia nella donna, non frequentò più le contadine, diventò sereno e tranquillo e pensò solo a curarsi nella persona.
A Parigi Margherita e Lucia vissero giorni spensierati, si accompagnarono per musei, teatri e luoghi di divertimento, incontrarono tutte le amicizie della famiglia Helis ed anche alcune cugine che vivevano nei fasti della capitale francese. Una domenica mattina le due donne si recarono a Notre Dame, si inginocchiarono e pregarono. All’uscita, sul sagrato, Margherita si mise al braccio di Lucia:
-       -  Mia cara, abbiamo passato due settimane splendide, Parigi mi ha davvero riposato e divertito, spero che anche tu ti sia divertita.
-       -  Ma certo, mi avete regalato due settimane favolose. Scusatemi signora, perdonatemi per ciò che vi dirò, ma a fronte della spensieratezza che questa città vi ha offerto, in voi rimane un velo di tristezza. Ho ascoltato la vostra preghiera che avete recitato sottovoce, voi amate vostro marito, ma non siete una donna felice, anche se non fate trapelare mai la vostra gelosia.
-       -  Lucia, io sono stata soltanto una fattrice, ho sfornato figli fino alla nascita di Carlo Federico, una volta avuto ciò che agognava, mio marito non mi ha degnato dell’attenzione che meritavo e ha continuato a giacere con tutte le mogli dei contadini e lo fa tuttora. Sono io una donna brutta? Ho modi poco urbani, puzzo di stalla o di fienile?
-       -  No signora, voi siete stata splendida, compita, profumata, ottima madre ed ottima moglie. Non tutte le contadine giovani hanno giaciuto con vostro marito, una, forse la più bella, la più formosa gli ha resistito, non accettando mai i suoi regali, è Gilda la moglie del fattore. Sa, tra la servitù le notizie circolano, tutti fanno finta di non vedere e sentire, ma tutti sanno tutto. Gilda ha di voi una grande stima e non giacerebbe mai con vostro marito.
-      -   Lucia, amavo mio marito, vorrei potermi rinnamorare di lui, ma dentro di me c’è qualcosa che me lo impedisce. Egli mi è quasi diventato indifferente, mentre prima spasimavo per vederlo soltanto. Quattro femmine ed un maschietto in un lasso di tempo breve, andrei via dai miei, ma amo troppo i miei figli e rimango a soffrire. Non ho mai odiato nessuno, ma se vederlo mi fa soffrire, allora io odio Alessandro, lo odio al punto che lo vorrei veder soffrire.
Lucia abbassò lo sguardo, non disse una parola, prese per mano Margherita e si incamminò con lei fino alla prima carrozza da nolo.
Il giorno in cui Margherita ritornò a Perciata, era un giorno assolato e le sue bambine l’attesero nel patio, il maschietto era in braccio alla nutrice. Li abbracciò tutti, li baciò tutti ripetutamente, poi volse lo sguardo verso l’ingresso di casa e notò il marito vestito da damerino, incipriato come un cicisbeo, si avvicinò a lui e lo salutò dandogli un bacio sulla guancia. Non una parola, non una domanda, solo un piccolo apprezzamento per un cappello a falde larghe che lei portava con eleganza sulle ventitrè.
Il mattino seguente, dopo colazione, Lucia l’avvertì che Gilda, la moglie del fattore, desiderava essere ricevuta. Margherita finì il suo caffellatte, si recò alla toilette e appena uscita si recò nel grande salone. Gilda si inchinò e la salutò, poi:
-        - Signora, perdonatemi per quello che sto per dirvi, voi siete una santa donna, so di darvi un dolore, ma non riesco a tenermi dentro nulla.
-        - Parlate liberamente, non abbiate timore, io sono una donna forte e non c’è nulla che non riuscirei a sopportare.
-      -   Signora, io sono stata oggetto delle attenzioni di vostro marito, tantissime volte, e tutte le volte ho aggirato l’ostacolo con mille scuse. Ancora egli tenta insistentemente di avermi, fino al punto di invitarmi a casa vostra. Io sono stata al gioco ed ho preso tempo, gli ho chiesto un suo oggetto in pegno affinché imparassi a sentirlo più vicino. Voleva darmi la sua catenina, i suoi guanti, ma io ho notato un fazzoletto con le vostre iniziali sul bracciolo di una poltrona, l’ho preso e ho detto che mi sarebbe bastato.

Tirò dal seno il fazzoletto e lo porse a Margherita.
-        - Tenete, è vostro!
-       -  No, tenetelo ancora voi, forse ci servirà. So che siete una donna onesta, so che non mi avete tradito e che mai lo avreste fatto. Lucia mi ha informato di tutto. Mio marito vi desidera, siete davvero una bella donna, voi state al gioco, dite che stasera al buio lo aspetterete a casa vostra, a mezzanotte in punto, vi farete trovare sul letto e sarà impedito a lui di vedervi, prima dell’alba dovrà andar via. Io piglierò il vostro posto, voi e vostro marito partirete in calesse, andrete a divertivi per due giorni in città.
Si avvicinò Margherita ad uno scrittoio, tirò dal cassetto alcune banconote e le porse a Gilda:
-        - Tenete, andate a divertirvi, io mi divertirò alla mia maniera.
Gilda uscì, percorse a piedi tutto il patio, sortì sulla strada e si incamminò verso casa nella certezza di incrociare don Alessandro. Quando lo vide tirò fuori il fazzoletto fece finta di annusarlo e aspetto che l’uomo si avvicinasse:
-        - Don Alessandro, questo fazzoletto che tengo sempre nel petto è come se mi avesse parlato. Stasera mio marito va in città per affari, tornerà domani a sole alto, vi lascio la porta aperta, a mezzanotte entrate, ma non ci sarà né un lume né una candela, io vi aspetterò sul mio letto. Un’ora prima dell’alba andrete via, vi prego, un’ora prima dell’alba!
-       - Capisco il vostro pudore, siete riservata, difficile, selvaggia, che importa se sarà buio, a mezzanotte ci sarò!
Spronò il suo cavallo e si avviò verso casa.
Dopo cena, dopo aver messo a letto tutti e cinque i bambini, dopo che don Alessandro fece finta di prepararsi per una battuta di caccia notturna, Margherita e Lucia, travestiti con abiti maschili, si avviarono verso la casa di Gilda, Lucia si nascose nel fienile e Margherita si spogliò e si adagiò sul letto. Era quasi mezzanotte e fuori si sentirono dei passi felpati, poi il cigolio della porta, lei tossì e lui la raggiuse. Non una parola da parte di lei, solo qualche gemito ed una lunga notte di passione. Quando Lucia dal fienile fece rumore, Margherita con voce contraffatta esclamò:
-     -    E’ quasi l’alba!
Don Alessandro si vestì alla svelta, si chinò sul letto, baciò la fronte della donna che giaceva, staccò la sua catenina d’oro dal panciotto, gliela mise in mano e disse:
-        - A quando?
-      -   E’ quasi l’alba!
L’uomo uscì di corsa e raggiunse il viottolo che lo portò sulla strada. Margherita e Lucia rientrarono quatte quatte e andarono a dormire.
Il pomeriggio del giorno dopo Lucia e Margherita ridevano nel patio, la burla-vendetta era riuscita, ma Margherita sentiva il peso del tradimento del marito come un macigno sulle spalle, tutte quelle corna non riusciva a digerirle proprio. Cosa fare? Lucia suggerì di rendere pan per focaccia, lo stalliere, un aitante giovane trentenne le aveva fatto delle avances, lei lo aveva sempre respinto, ma se Margherita avesse voluto, con lo stesso stratagemma del buio di mezzanotte lei si sarebbe prestata al gioco. Titubò Margherita, ma la sua mappa ormonale e il desiderio di vendetta ebbero il sopravvento sulla razionalità. Tutte le notti lo stalliere, convinto di giacere con Lucia, consumò la sua passione con Margherita. Il gioco era fatto! Corna ricambiate! Bisognava ora mortificare il marito in pubblico!
Un pomeriggio i contadini con le loro mogli furono tutti invitati nel grande patio per festeggiare il compleanno di don Alessandro. Dopo il brindisi, Margherita chiese silenzio e parlò:
-        - Oggi è giorno di grande festa, il padrone compie gli anni, tutti avete portato un dono, anch’io ho portato un dono, anzi due, uno gli sarà consegnato da Gilda, il fazzoletto con le mie iniziali.

Gilda fece due passi avanti, tirò da sotto il corpetto il fazzoletto lavato ed inamidato e lo consegnò a don Alessandro, cereo, tremante. Margherita fece un passo avanti e tirò dal suo seno la catenina d’oro del panciotto, la porse al marito:
-        - Questa me la sono guadagnata in una sera buia, da mezzanotte ad un’ora prima dell’alba! Buon compleanno Alessandro, da domani sarò io ad occuparmi dei cavalli.

Nessuno degli astanti capì nulla, tranne Lucia, Gilda ed Alessandro stesso, che ebbe un gesto istintivo, si portò la mano alla fronte, forse cercava di trovarvi le corna ramificate!





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martedì 3 giugno 2014

LA TESSITRICE DI STRACCI - Favola (03.giugno.2014)








Tratta da “Il Favoliere – Cucù e le sue storie”

di Mario Scamardo e Sara Riolo

La tessitrice di stracci


            Anna non aveva conosciuto sua madre. Sei mesi dopo averla messo al mondo era venuta a mancare, e quelle tre stanzette ordinate e linde con appena una culletta, un letto, un tavolo e qualche altro suppellettile, sembravano troppo grandi per una neonata dagli occhi vispi e il suo genitore. Il padre viveva girando per le sartorie e i negozi a raccattare ritagli di stoffe che poi riduceva in fettucce tutte della stessa misura, le legava insieme e le arrotolava in grossi rotoli variopinti.
            La mamma di Anna, sin da ragazzetta, aveva tessuto ad un telaio di tavole e canne gli stracci, ottenendone rustiche e pesanti tende che le massaie adoperavano in funzione delle misure, talvolta come coperte, talvolta come stuoie, talvolta le stendevano al sole, a terra, per essiccarvi sopra i legumi o il grano appena lavato, pronto per la macina; qualche altra volta, dopo un lungo logorio, venivano usate per raccogliere le olive o, quando per l’eccessivo uso non assolvevano più a quanto erano state destinate, venivano tagliate in quattro o sei strisce e venivano usate come zerbini.
            Il padre di Anna aveva imparato proprio dalla moglie a tessere gli stracci.
            Anna, morta la madre, ricevette le cure dalle donne del vicinato, in un quartiere popolare come quello in cui era nata, dove c’erano più bimbi che tegole sui tetti, e si attaccò a tutti i seni delle vicine fino allo svezzamento.
            Il telaio, posto in un cantuccio accanto al tavolo, si muoveva di sera, il padre passava a mano con un aspo l’ordito di fettuccia intrecciandolo con la trama di spaghi, Anna si addormentava con le braccine sul tavolo sulle quali poggiava la testolina bruna.
            Aveva cinque anni quando suo padre si risposò e la bimba si ritrovò una donna per casa; siccome tutti gli altri bambini avevano la mamma, pensò che il buon Dio gliene avesse data una. Chissà, forse assomigliava alla sua vera madre, che lei non aveva mai visto: in casa non c’era nemmeno un ritratto, ma il babbo le aveva sempre detto che la sua mamma era stata la più buona e la più bella del mondo.
            Anna guardava con ammirazione la nuova compagna di papà, ma più passava il tempo, più provava solo indifferenza e scopriva che non era bella così come il padre aveva descritto sua madre.
            Una sera, mentre il padre finiva di rassettare attorno al suo telaio, si accostò alla matrigna, e così come aveva visto fare a tutti i bimbi del vicinato, le chiese di essere presa in braccio. Desiderava tanto essere stretta tra le braccia materne, poggiare il suo visino sul suo seno e addormentarsi, ma la donna non colse il suo desiderio, la prese per la mano, l’aiutò a spogliarsi e la mise a letto. Anna non batté ciglio ma un velo di tristezza le coprì gli occhietti inumiditi, tirò le coperte fin sul naso e pianse a lungo in silenzio. Ogni sera passò dritta davanti a quel tavolo immenso dove era seduta la matrigna, si infilò nel letto carezzandosi essa stessa il volto, rimboccandosi le coperte e asciugando di tanto in tanto una lacrimuccia.
            Una sera, nell’angolo buio accanto al suo lettino, notò una piccola luce molto chiara,  Anna la puntò con gli occhietti, ma la luce di li a poco svanì. La sera successiva, subito dopo di essersi messa a letto, non ebbe voglia di piangere, guardò fissa l’angolo, come se la luce che aveva visto la sera prima aspettasse di vederle compiere il rito di rimboccarsi le coperte per mettersi a brillare, ma non accadde nulla di tutto ciò. Anna di solito era timorosa, ma l’abitudine di considerarsi da sempre indipendente le aveva fatto perdere ogni paura.
            Era notte di un inverno pesante e freddo, l’acqua scrosciava sui tetti e il rimbombo dei tuoni veniva annunciato dai lampi, che, mentre fuori squarciavano il cielo, illuminavano gli angoli più bui delle case. Il papà era andato a riposare da poco, la matrigna, con un pesante scialle sulle spalle, si accingeva a chiudere la porta della cucina, stava dirigendosi verso la camera da letto, ma all’ennesimo tuono, che sembrò lo scoppio di una bomba, tornò sui suoi passi, si avvicinò al lettino della bambina, lesse nei suoi occhietti un pizzico di terrore, le accarezzò la testolina, poi sommessamente le disse: <<Ora vado a letto, tu non aver paura: lascio la porta della camera aperta; se vuoi, mi chiami.>> E spense la luce.
            La bimba si rincuorò, volse lo sguardo verso l’angolo e notò la luce che si muoveva e si posava come una farfalla ai piedi del letto. Anna si sentì confortata, e non pensò ai lampi e ai tuoni. Pian pianino si addormentò. Da quella sera, tutte le sere la sua lucina le fece compagnia, e da quel giorno poté cogliere momenti affettivi da parte della matrigna.
            I giorni si accavallarono ai giorni, i mesi ai mesi e il tempo passò. Anna compì dieci anni proprio quando finì il ciclo delle elementari. Tra i suoi libri, ben curati e messi in bell’ordine, un quaderno raccoglieva profili di donna dai lunghi capelli con gli occhi ridenti, e ad ogni pagina la stessa frase: << Mamma, ti voglio bene!>>
            Il padre, il giorno del suo compleanno, lavorò solo la mattina.
            Dopo pranzo, indossò la giacca, ravviò i quattro fili di capelli e uscì di gran premura. Anna non chiese neppure alla matrigna perché suo padre fosse uscito così di fretta, ad un’ora insolita, prese le forbici e dalle pezze e dagli scampoli cominciò a tirare fuori più fettucce che poté. D’un tratto si fermò e notò, là nello stesso punto dove ogni sera le compariva la sua lucina, una luce intensa che l’abbagliò, fissando nei suoi occhi l’immagine di una donna bellissima con lunghi capelli neri sciolti sulle spalle e due occhi d’ebano luminosi.
            Anna restò di ghiaccio, le caddero dalle mani le forbici e l’ultima pezzuola e le sue labbra tremanti istintivamente si apersero per pronunciare la parola mamma, tutto svanì in un baleno. Riavutasi da lì a poco, raccattò le forbici e ripose il lavoro. La Matrigna per tutto il tempo non si era scomposta davanti all’asse da stiro, non aveva sentito la bambina pronunciare la parola mamma. Strano tutto ciò e inspiegabile per la bambina, ma una simile emozione non la scosse più di tanto.
            Si fece quasi buio e rincasò il padre con due involti ben confezionati: in uno c’era avvolta una bambola di pezza, nell’altro una piccola torta. Anna andò incontro al padre e l’abbracciò con slancio; gli occhietti le brillarono ed ebbe un momento di gioia: nessuno mai le aveva fatto un regalo, non aveva mai posseduto una bambola, ma ne aveva viste cullare tante tra le braccine delle sue compagne di scuola. Tornò allora alla sua mente il ricordo della visione che l’aveva colta, voleva parlarne con suo padre ma titubò tanto fino a ritenerlo un segreto da non rivelare a nessuno.
            Venne preparata la cena e alla fine vennero accese le dieci candeline sulla torta. Anna allungò lo sguardo verso l’angolo dove aveva avuto la visione, sperando di riavere la medesima fortuna, ma invano, soffiò sulle candeline e si attaccò al collo del padre coprendolo di baci, poi aiutò a sparecchiare, alla fine riprese tra le braccia la bambolina di pezza che aveva riposto accanto al telaio e si diresse nell’angolo della sua camera da letto.
            Dormiva profondamente quando qualcosa le fece aprire gli occhi, sentì una mano accarezzarle i capelli e sfiorarle il viso. Anna sorrise: la donna bellissima dai lunghi capelli neri spioventi sulle spalle era accanto a lei e mentre si guardavano negli occhi intensamente le parlò con la mente e le suggerì di non temere la sua presenza. Lei non era mai andata via da quella casa, le era stato concesso di rimanerle accanto, proteggerla e accompagnarla fino a quando non si fosse compiuto il tempo, in quella casa aveva guidato suo padre e anche la sua compagna: Anna recepì il messaggio, ma i suoi occhi continuavano a fissare quelli di sua madre, fino a quando non svanì e lei riprese a dormire. Mantenne il segreto e non lo rivelò ad alcuno, tutte le notti si materializzava davanti ai suoi occhi quella donna e lei godeva di quella visione.
            Passarono gli anni e Anna divenne una bella ragazza dagli occhi profondi; i capelli corvini e lunghi le coprivano le spalle e assomigliava in maniera impressionante alla signora delle sue visioni. Aveva finito il liceo e tra i tanti amici, uno che le era stato più vicino aveva fatto vibrare il suo cuore; era rimasta ammaliata dalle sue premure, dalla sua tenerezza e dalle tante attenzioni che nessuno mai aveva avuto per lei. Anna si era innamorata.
 Un pomeriggio, mentre il sole si preparava a tramontare e faceva capolino tra gli alberi, seduta accanto al suo ragazzo, Anna, che nulla gli nascondeva, confidò le sue visioni e parlò di sua madre. Il ragazzo non battè ciglio, le fece ultimare la narrazione e, con dolcezza, le stampò sulla guancia un bacio e le strinse forte le mani. La ragazza non se l’aspettava e con meraviglia si sentì dire: <<Io avverto spesso la presenza di qualcuno accanto a me, non mi fa sentire mai solo e mi fa vincere le paure.>>
            Quando rincasò, cominciava a calare la sera. Suo padre era ancora al telaio a tessere trame e orditi e la sua compagna trafficava tra i fornelli. Anna ripose la borsetta ai piedi del lettino, indossò un grembiule e diede il cambio al padre. Le sue mani erano leste e le dita si muovevano con celerità: il ritmo del telaio accelerò facendole ricordare gli anni dell’infanzia. La matrigna alzava ogni tanto gli occhi dai fornelli e la guardava compiaciuta. Dopo cena, si alzò da tavola e le si avvicinò. Non l’aveva mai fatto: le infilò le dita tra i capelli e per la prima volta le fece un po’ di coccole, quelle stesse coccole che le aveva lesinato da bambina, poi si chinò e le baciò la fronte.
            Il padre guardò la scena commosso. Anna provò una sensazione di calore, come aveva sognato da bambina; chiuse gli occhi e poggiò la testa sul seno della matrigna. Quando andò a letto, prese un libro tra le mani e aspettò il sonno, che no tardo ad arrivare. Si addormentò.
            La signora dai lunghi capelli neri non si fece attendere: dopo averla fissata a lungo, le carezzò i capelli, così come aveva fatto la matrigna. Anna provò la stessa sensazione, poi, la signora parve sussurrarle: << Ora devo riprendere il mio cammino, ora che l’amore rifiorisce attorno a te, quello che tua madre non ha potuto darti. Ho atteso venti anni, sembrano molti su questa terra, ma sono solo un soffio nell’aldilà. Il tempo non è una misura assoluta; serve solo agli uomini per rapportarsi con gli altri valori del creato. Un gesto d’amore compensa tutto ed è quanto avevo chiesto a Chi sta sopra ogni cosa, questo mi è stato concesso e devo ritornare all’Origine; il mio tempo ora è compiuto.>>
            La signora allungò la mano, prese dal comodino la bambola di pezza, le carezzò il capino e la poggiò sul cuscino, poi sorrise e d’incanto svanì.
            Anna capì che non l’avrebbe più rivista, il messaggio le era abbastanza chiaro, si alzò dal letto, cercò il suo vecchio quaderno con i profili di donna, lo sfogliò e notò una cosa strana: i profili erano diventati come d’incanto identici, tutti avevano i capelli lunghi e neri fluenti sulle spalle e un sorriso si disegnava sulle loro labbra. Un sorriso di sogno.







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