martedì 3 giugno 2014

LA TESSITRICE DI STRACCI - Favola (03.giugno.2014)








Tratta da “Il Favoliere – Cucù e le sue storie”

di Mario Scamardo e Sara Riolo

La tessitrice di stracci


            Anna non aveva conosciuto sua madre. Sei mesi dopo averla messo al mondo era venuta a mancare, e quelle tre stanzette ordinate e linde con appena una culletta, un letto, un tavolo e qualche altro suppellettile, sembravano troppo grandi per una neonata dagli occhi vispi e il suo genitore. Il padre viveva girando per le sartorie e i negozi a raccattare ritagli di stoffe che poi riduceva in fettucce tutte della stessa misura, le legava insieme e le arrotolava in grossi rotoli variopinti.
            La mamma di Anna, sin da ragazzetta, aveva tessuto ad un telaio di tavole e canne gli stracci, ottenendone rustiche e pesanti tende che le massaie adoperavano in funzione delle misure, talvolta come coperte, talvolta come stuoie, talvolta le stendevano al sole, a terra, per essiccarvi sopra i legumi o il grano appena lavato, pronto per la macina; qualche altra volta, dopo un lungo logorio, venivano usate per raccogliere le olive o, quando per l’eccessivo uso non assolvevano più a quanto erano state destinate, venivano tagliate in quattro o sei strisce e venivano usate come zerbini.
            Il padre di Anna aveva imparato proprio dalla moglie a tessere gli stracci.
            Anna, morta la madre, ricevette le cure dalle donne del vicinato, in un quartiere popolare come quello in cui era nata, dove c’erano più bimbi che tegole sui tetti, e si attaccò a tutti i seni delle vicine fino allo svezzamento.
            Il telaio, posto in un cantuccio accanto al tavolo, si muoveva di sera, il padre passava a mano con un aspo l’ordito di fettuccia intrecciandolo con la trama di spaghi, Anna si addormentava con le braccine sul tavolo sulle quali poggiava la testolina bruna.
            Aveva cinque anni quando suo padre si risposò e la bimba si ritrovò una donna per casa; siccome tutti gli altri bambini avevano la mamma, pensò che il buon Dio gliene avesse data una. Chissà, forse assomigliava alla sua vera madre, che lei non aveva mai visto: in casa non c’era nemmeno un ritratto, ma il babbo le aveva sempre detto che la sua mamma era stata la più buona e la più bella del mondo.
            Anna guardava con ammirazione la nuova compagna di papà, ma più passava il tempo, più provava solo indifferenza e scopriva che non era bella così come il padre aveva descritto sua madre.
            Una sera, mentre il padre finiva di rassettare attorno al suo telaio, si accostò alla matrigna, e così come aveva visto fare a tutti i bimbi del vicinato, le chiese di essere presa in braccio. Desiderava tanto essere stretta tra le braccia materne, poggiare il suo visino sul suo seno e addormentarsi, ma la donna non colse il suo desiderio, la prese per la mano, l’aiutò a spogliarsi e la mise a letto. Anna non batté ciglio ma un velo di tristezza le coprì gli occhietti inumiditi, tirò le coperte fin sul naso e pianse a lungo in silenzio. Ogni sera passò dritta davanti a quel tavolo immenso dove era seduta la matrigna, si infilò nel letto carezzandosi essa stessa il volto, rimboccandosi le coperte e asciugando di tanto in tanto una lacrimuccia.
            Una sera, nell’angolo buio accanto al suo lettino, notò una piccola luce molto chiara,  Anna la puntò con gli occhietti, ma la luce di li a poco svanì. La sera successiva, subito dopo di essersi messa a letto, non ebbe voglia di piangere, guardò fissa l’angolo, come se la luce che aveva visto la sera prima aspettasse di vederle compiere il rito di rimboccarsi le coperte per mettersi a brillare, ma non accadde nulla di tutto ciò. Anna di solito era timorosa, ma l’abitudine di considerarsi da sempre indipendente le aveva fatto perdere ogni paura.
            Era notte di un inverno pesante e freddo, l’acqua scrosciava sui tetti e il rimbombo dei tuoni veniva annunciato dai lampi, che, mentre fuori squarciavano il cielo, illuminavano gli angoli più bui delle case. Il papà era andato a riposare da poco, la matrigna, con un pesante scialle sulle spalle, si accingeva a chiudere la porta della cucina, stava dirigendosi verso la camera da letto, ma all’ennesimo tuono, che sembrò lo scoppio di una bomba, tornò sui suoi passi, si avvicinò al lettino della bambina, lesse nei suoi occhietti un pizzico di terrore, le accarezzò la testolina, poi sommessamente le disse: <<Ora vado a letto, tu non aver paura: lascio la porta della camera aperta; se vuoi, mi chiami.>> E spense la luce.
            La bimba si rincuorò, volse lo sguardo verso l’angolo e notò la luce che si muoveva e si posava come una farfalla ai piedi del letto. Anna si sentì confortata, e non pensò ai lampi e ai tuoni. Pian pianino si addormentò. Da quella sera, tutte le sere la sua lucina le fece compagnia, e da quel giorno poté cogliere momenti affettivi da parte della matrigna.
            I giorni si accavallarono ai giorni, i mesi ai mesi e il tempo passò. Anna compì dieci anni proprio quando finì il ciclo delle elementari. Tra i suoi libri, ben curati e messi in bell’ordine, un quaderno raccoglieva profili di donna dai lunghi capelli con gli occhi ridenti, e ad ogni pagina la stessa frase: << Mamma, ti voglio bene!>>
            Il padre, il giorno del suo compleanno, lavorò solo la mattina.
            Dopo pranzo, indossò la giacca, ravviò i quattro fili di capelli e uscì di gran premura. Anna non chiese neppure alla matrigna perché suo padre fosse uscito così di fretta, ad un’ora insolita, prese le forbici e dalle pezze e dagli scampoli cominciò a tirare fuori più fettucce che poté. D’un tratto si fermò e notò, là nello stesso punto dove ogni sera le compariva la sua lucina, una luce intensa che l’abbagliò, fissando nei suoi occhi l’immagine di una donna bellissima con lunghi capelli neri sciolti sulle spalle e due occhi d’ebano luminosi.
            Anna restò di ghiaccio, le caddero dalle mani le forbici e l’ultima pezzuola e le sue labbra tremanti istintivamente si apersero per pronunciare la parola mamma, tutto svanì in un baleno. Riavutasi da lì a poco, raccattò le forbici e ripose il lavoro. La Matrigna per tutto il tempo non si era scomposta davanti all’asse da stiro, non aveva sentito la bambina pronunciare la parola mamma. Strano tutto ciò e inspiegabile per la bambina, ma una simile emozione non la scosse più di tanto.
            Si fece quasi buio e rincasò il padre con due involti ben confezionati: in uno c’era avvolta una bambola di pezza, nell’altro una piccola torta. Anna andò incontro al padre e l’abbracciò con slancio; gli occhietti le brillarono ed ebbe un momento di gioia: nessuno mai le aveva fatto un regalo, non aveva mai posseduto una bambola, ma ne aveva viste cullare tante tra le braccine delle sue compagne di scuola. Tornò allora alla sua mente il ricordo della visione che l’aveva colta, voleva parlarne con suo padre ma titubò tanto fino a ritenerlo un segreto da non rivelare a nessuno.
            Venne preparata la cena e alla fine vennero accese le dieci candeline sulla torta. Anna allungò lo sguardo verso l’angolo dove aveva avuto la visione, sperando di riavere la medesima fortuna, ma invano, soffiò sulle candeline e si attaccò al collo del padre coprendolo di baci, poi aiutò a sparecchiare, alla fine riprese tra le braccia la bambolina di pezza che aveva riposto accanto al telaio e si diresse nell’angolo della sua camera da letto.
            Dormiva profondamente quando qualcosa le fece aprire gli occhi, sentì una mano accarezzarle i capelli e sfiorarle il viso. Anna sorrise: la donna bellissima dai lunghi capelli neri spioventi sulle spalle era accanto a lei e mentre si guardavano negli occhi intensamente le parlò con la mente e le suggerì di non temere la sua presenza. Lei non era mai andata via da quella casa, le era stato concesso di rimanerle accanto, proteggerla e accompagnarla fino a quando non si fosse compiuto il tempo, in quella casa aveva guidato suo padre e anche la sua compagna: Anna recepì il messaggio, ma i suoi occhi continuavano a fissare quelli di sua madre, fino a quando non svanì e lei riprese a dormire. Mantenne il segreto e non lo rivelò ad alcuno, tutte le notti si materializzava davanti ai suoi occhi quella donna e lei godeva di quella visione.
            Passarono gli anni e Anna divenne una bella ragazza dagli occhi profondi; i capelli corvini e lunghi le coprivano le spalle e assomigliava in maniera impressionante alla signora delle sue visioni. Aveva finito il liceo e tra i tanti amici, uno che le era stato più vicino aveva fatto vibrare il suo cuore; era rimasta ammaliata dalle sue premure, dalla sua tenerezza e dalle tante attenzioni che nessuno mai aveva avuto per lei. Anna si era innamorata.
 Un pomeriggio, mentre il sole si preparava a tramontare e faceva capolino tra gli alberi, seduta accanto al suo ragazzo, Anna, che nulla gli nascondeva, confidò le sue visioni e parlò di sua madre. Il ragazzo non battè ciglio, le fece ultimare la narrazione e, con dolcezza, le stampò sulla guancia un bacio e le strinse forte le mani. La ragazza non se l’aspettava e con meraviglia si sentì dire: <<Io avverto spesso la presenza di qualcuno accanto a me, non mi fa sentire mai solo e mi fa vincere le paure.>>
            Quando rincasò, cominciava a calare la sera. Suo padre era ancora al telaio a tessere trame e orditi e la sua compagna trafficava tra i fornelli. Anna ripose la borsetta ai piedi del lettino, indossò un grembiule e diede il cambio al padre. Le sue mani erano leste e le dita si muovevano con celerità: il ritmo del telaio accelerò facendole ricordare gli anni dell’infanzia. La matrigna alzava ogni tanto gli occhi dai fornelli e la guardava compiaciuta. Dopo cena, si alzò da tavola e le si avvicinò. Non l’aveva mai fatto: le infilò le dita tra i capelli e per la prima volta le fece un po’ di coccole, quelle stesse coccole che le aveva lesinato da bambina, poi si chinò e le baciò la fronte.
            Il padre guardò la scena commosso. Anna provò una sensazione di calore, come aveva sognato da bambina; chiuse gli occhi e poggiò la testa sul seno della matrigna. Quando andò a letto, prese un libro tra le mani e aspettò il sonno, che no tardo ad arrivare. Si addormentò.
            La signora dai lunghi capelli neri non si fece attendere: dopo averla fissata a lungo, le carezzò i capelli, così come aveva fatto la matrigna. Anna provò la stessa sensazione, poi, la signora parve sussurrarle: << Ora devo riprendere il mio cammino, ora che l’amore rifiorisce attorno a te, quello che tua madre non ha potuto darti. Ho atteso venti anni, sembrano molti su questa terra, ma sono solo un soffio nell’aldilà. Il tempo non è una misura assoluta; serve solo agli uomini per rapportarsi con gli altri valori del creato. Un gesto d’amore compensa tutto ed è quanto avevo chiesto a Chi sta sopra ogni cosa, questo mi è stato concesso e devo ritornare all’Origine; il mio tempo ora è compiuto.>>
            La signora allungò la mano, prese dal comodino la bambola di pezza, le carezzò il capino e la poggiò sul cuscino, poi sorrise e d’incanto svanì.
            Anna capì che non l’avrebbe più rivista, il messaggio le era abbastanza chiaro, si alzò dal letto, cercò il suo vecchio quaderno con i profili di donna, lo sfogliò e notò una cosa strana: i profili erano diventati come d’incanto identici, tutti avevano i capelli lunghi e neri fluenti sulle spalle e un sorriso si disegnava sulle loro labbra. Un sorriso di sogno.







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