martedì 15 luglio 2014

L'INCANTESIMO MALVAGIO - (Racconto breve) 15. luglio. 2014

I Racconti del Borgo



Mario Scamardo


L’incantesimo malvagio



            La cima di una collinetta di calcarinite compatta del miocene inferiore, ricca di fossili, tanti pectin, rudiste, globigerine e di tanto in tanto qualche piccola ammonite, aveva ospitato nel tempo il cimitero dei monaci della Misericordia e la contigua cappella della Santa Spina, ridotta nel tempo ad un accumulo si sassi, calcinacci e frammenti di tegole. L’unico rimasto quasi integro e funzionante, un pozzo che, ancora oggi fornisce acqua fresca e copiosa, così come l’ha fornita nel tempo ai contadini che erano soliti riempire le loro brocche. La collinetta era sita al centro del feudo Mulinazzo, di proprietà dei duchi Cavizzi di Villanova.

            Alla fine del XVIII secolo, Alessandro, figlio unigenito di Matteo Maria Cavizzi e della marchesa Maria Ottavia Zalò, alla morte del padre, ereditò l’intero feudo e pur avendo conseguito una laurea in giurisprudenza e conoscendo il francese e lo spagnolo, volle spostarsi in quelle campagne per dedicarsi a tempo pieno alla gestione delle sue proprietà. Innamoratosi di una corista, tal Camilla Rigoli, manifestò il desiderio alla madre di sposarsi. Non fu tutto semplice, Camilla non era nobile e la Marchesa non acconsentì facilmente alle sue nozze, proponendogli tutte le belle giovinette che frequentavano i salotti della nobiltà isolana. Alessandro era un buon partito, colto, aitante, ricco. Alla morte della madre avrebbe ereditato il feudo di Petratonda e palazzo Zalò. Alessandro, amava sua madre alla follia e da buon avvocato la persuase che nessuna giovinetta della nobiltà palermitana, poteva renderlo felice come Camilla. Vinse l’amore, la marchesa diede il suo benestare e il giovane duca predispose per la costruzione di un palazzo, proprio sulla collinetta di calcarinite, diede istruzioni agli ingegneri, alle maestranze, pretendendo un manufatto ancora più bello e più comodo del palazzo in cui abitava a Palermo. Finita la costruzione, dove era prevista un’ala per la residenza di sua madre, avrebbe celebrato le sue nozze con Camilla e si sarebbe ritirato nel feudo.


            Passarono giusti tre anni, in cima alla collinetta non c’era più un segno del cimitero dei monaci della Misericordia e nemmeno della cappella della Santa Spina, solo il pozzo era rimasto al suo posto, ricoperto all’esterno con mattoni refrattari, abbellito da una cupola in ferro battuto, da dove penzolava la carrucola per sollevarvi il secchio. Il palazzo svettava, preceduto da un lungo viale alberato, al piano terra erano state predisposte le stalle, i box per i cavalli e l’alloggio per le carrozze; un’ala ospitava le cucine e gli alloggi per la servitù, un’altra ospitava le cantine, tutte botti di rovere francese. Il piano nobile, su 400 mq, tutto con le volte reali affrescate e piene di stucchi, il salone centrale attorniato da un colonnato in marmo era ornato con i busti, anch’essi in marmo dei suoi antenati. Alessandro fece realizzare la sua camera da letto da un artigiano su disegno della madre, poi arredò il palazzo con i mobili di palazzo Zalò e di palazzo Villanova e ricoprì tutte le pareti con tele di pregio, da far sembrare quel luogo una pinacoteca.



            Tutto filava liscio come l’olio e prima che conducesse all’altare Camilla Rigoli, ebbe l’idea di chiedere udienza al viceré, sapendo quanto questi amasse la musica e il bel canto, che l’accolse assieme a Camilla e, dopo avere ammirato le grazie di lei che spesso aveva ascoltato in teatro, raccolse la sua corte nel salone delle feste e le chiese di cantare. La ragazza si avvicinò al grande pianoforte a coda, aspettò che il pianista di corte si raccordasse con lei e finito il brano, raccolse gli applausi e i complimenti. Il viceré si fece portare un astuccio, lo aprì, prelevò un medaglione in oro in cui era coniata una corona d’alloro sormontata da una penna d’aquila, lo appuntò sul petto di Camilla e le disse:

-       -  Da questo momento voi siete gran dama dell’Ordine dell’Aquila, vi fregerete del titolo di contessa.

Camilla, commossa, si inchinò al viceré, che la prese per mano:

-        - Ho ascoltato il vostro canto, vi ho applaudita in teatro parecchie volte, ora sarà il duca Alessandro a godere del dono che il buon Dio vi ha donato, suo padre, il duca Matteo, che la morte ci ha rubato quando il vostro promesso sposo era ancora un bambino, sarebbe stato felice di ascoltarvi, lui amava la musica.

-       -  Maestà, vi ringrazio, vi son devota, finché il Signore vorrà mantenermi questo dono, tutte le volte che me lo chiederete, sarò felice di cantare per voi, per la vostra famiglia e per tutta la vostra riverita corte.

Camilla si avvicinò alla poltrona dove stava seduta la moglie del viceré, si inchinò e, al gesto della donna si pose ritta:

-       -  Granduchessa, quando vostra maestà vorrà ordinarmi di cantare io sarò sempre pronta ad esaudire ogni vostro desiderio.

La granduchessa si alzò, le prese ambedue le mani stringendogliele:

-      -   Saremo al vostro matrimonio contessa, contateci e porgete i saluti alla vostra futura suocera la marchesa Maria Ottavia.

Alessandro aveva avuto un’idea eccellente, aveva anche fatta felice la madre, ancora legata alle vecchie convinzioni. Si commiatarono i due giovani e lei, gran dama dell’ordine dell’aquila e contessa, andò a provarsi l’abito per l’imminente cerimonia.

       Mattinata fresca ed assolata di tarda primavera, cento carrozze trovarono posto nel grande parco, circa cinquecento invitati al matrimonio di Camilla e Alessandro, primo tra tutti il viceré e la granduchessa sua moglie. L’altare venne allestito proprio accanto al pozzo, tutt’attorno tavole imbandite e camerieri in livrea pronti a servire. L’arcivescovo di Monreale arrivò in carrozza seguito da uno stuolo di prelati e chierici con paramenti ricchi di ricami in oro e argento. Fu una grande festa, fino  quasi all’imbrunire, poi andò via il vicerè e dopo di lui tutti gli invitati. Quando la marchesa Maria Ottavia, soddisfattissima per la bella riuscita della festa, si fece accompagnare nella sua stanza per mettersi a proprio agio, la dama che l’accompagnava inciampò in una passatoia, il suo capo picchiò una stele che sosteneva un busto e rimase stecchita a terra in una pozza di sangue. La giornata non finì bene, quella morte violenta non era un buon segno! Il cielo si annuvolò, lampi e tuoni e un latrare di cani per tutta la notte. 



       Maria Ottavia, nei giorni successivi, sembrò volesse dare i numeri, confidò ad Alessandro che, più volte la notte, sentiva uomini parlare concitatamente e davanti i vetri vedeva passare delle ombre strane. Alessandro pensò che la madre, scossa dall’evento precedente, fosse rimasta turbata, ma quando la donna insistette nel raccontare ancora di voci e di ombre, si recò in città e riportò con se due rinomati medici che diagnosticarono per la marchesa uno stato d’ansia e la malinconia per la sua vita in città fatta di relazioni sociali che ora le mancavano. Consigliarono decotti di menta con due gocce di laudano e una scorza di limone, qualche passeggiata e qualche periodo passato in città con le frequenze di prima.

        La marchesa ritornò per un periodo in città, non sentì più voci e non vide alcuna ombra, ma una sera Alessandro sentì delle voci provenire dalla cucina, scese per le scale e si accorse, alla luce fioca di una candela, che un corpo giaceva per terra, la cuoca cadendo, si era infilzata con un coltellaccio spaccandosi il cuore. Ancora una morte violenta, quella casa era nuova di zecca, ma ancor prima che Camilla partorisse la sua prima bambina, già due eventi luttuosi. Il lieto evento fece passare in second’ordine i brutti pensieri, ma la sera del battesimo celebrato nel grande salone del palazzo, si sentì lo scalpitare dei cavalli nel parco e si vide penzolare dal ramo della grande quercia accanto al pozzo il cadavere dello stalliere legato per il collo ad una corda. Camilla prese la sua bambina tra le braccia e disse ad Alessandro: 

-       -  Voglio che tu mi porti via da qua, aveva ragione tua madre, ti prego portami via!

-       -  Cosa c’è che non va?

-      -   Perché tutte queste morti? Perché i cavalli imbizzarriti nel parco? Perché il personale non ride più, non parla, si guarda tutt’intorno prima di muoversi?

-      -   Parlerò con tutti, chiederò, ma ti prego non farti cogliere dalle superstizioni.

Il mattino seguente Alessandro riunì tutti nel salone, chiese ad ognuno di loro cosa avevano notato di strano. Una cameriera raccontò:

-       -  Signor duca, ogni notte sogno uno stuolo di monaci che si riuniscono in una chiesetta dove non ci sono statue né immagini sacre di ogni sorta, solo un piccolo altare ed un piccolo crocefisso ligneo, pregano per un po’, poi si spostano nella sacrestia adiacente e sventrano dei cadaveri svuotandoli dalle viscere, poi raccolgono i loro cuori e li depongono in una cassettina di legno e li seppelliscono in un cimitero, i corpi li imbalsamano, poi si baciano tra loro e scompaiono uno alla volta gridando. Quando non sogno, sento le loro voci e vedo, come vostra madre, delle ombre alle finestre.

Giovanni, il vecchio fattore, tirò dalla tasca un fazzoletto, se lo passò sul viso, poi:

-      -   Duca Alessandro, dovete andar via da questo posto, dovete portare la contessa vostra moglie e la duchessina vostra figlia lontane da quì, riportatele con vostra madre. Questa casa è stata costruita proprio sopra il cimitero dei monaci della Misericordia, i conciatori di cadaveri, santi uomini, ma avvezzi a sventrare i morti, eviscerarli e metterli a colare perché mummificassero. Qualcuno lo faceva per pietà umana, qualche altro solo per obbedienza, e qualche altro ancora perché godeva delle mutilazioni che infliggeva a corpi inermi. Io sono vecchio, ho dormito per tanto tempo all’addiaccio accanto al pozzo, ho visto sollevarsi le zolle e venir fuori non cadaveri ma ombre dalle sembianze umane, ed ho sentito le loro voci strazianti di dolore. I monaci non morirono di morte naturale, molti di loro vennero uccisi, decapitati da bande di rapinatori, ma vennero seppelliti proprio nell’aria su cui grava questo palazzo, accanto alla cappella della Sacra Spina. Andate via signor duca,  andate via, alienate questo palazzo, regalatelo, vendetelo o lasciatelo a gufi e corvi.

Alessandro ascoltò il vecchio Giovanni, la sua fronte si corrugò, poteva la sua  razionalità farsi sopraffare dalla superstizione? Gli spiriti avevano invaso il suo palazzo nuovo? Qualche volta aveva letto racconti un po’ fantasiosi, non ne era stato mai affascinato, ma qualcosa lo spinse a tirar fuori dall’enorme libreria la Bibbia, la sfogliò e lesse: << In Ebrei 9:27 vi è scritto: “ E’ stabilito che l’uomo muoia una sola volta, dopo di che viene il giudizio”. E’ questo ciò che accade all’anima di un morto: il giudizio. Dopo il giudizio può esserci: il paradiso, per il credente, (2 Corinzi 5:6-8, Filippesi 1:23), o l’inferno per colui che non ha creduto, (Matteo 25:46; Luca 16:22-24). Non vi è una via di mezzo. Non si può rimanere sulla terra, dopo la morte, sotto forma di spirito.>>. Alessandro era credente e praticante, così come lo era sua madre e come lo era stato suo padre. Accettare l’idea che esistessero gli spiriti era veramente difficile. Riaperse nuovamente il libro sacro e lesse: <<  Marco 5:1-20. Un gruppo di demoni possedeva un uomo e si servivano di lui per andare nei cimiteri.>>. Non si parla di fantasmi, ma solo di demoni che si servivano del corpo di un uomo per terrorizzare gli altri. I demoni vogliono “uccidere, rubare e distruggere”,<< (Giovanni 10:10). Faranno tutto ciò che è in loro potere per ingannare e portare via le persone da Dio.>> E’ questo ciò che può essere inteso come “fantasma”? Più confuso che persuaso il giovane duca ripose la Bibbia nella libreria, si adagiò su una poltrona e reclinò il capo. Il mattino seguente diede ordini al cocchiere di preparare due carrozze, in una vi fece salire sua moglie con la bambina, la balia e la cameriera personale, nell’altra salì lui, la cuoca e tre servitori. Cariche di bagagli le carrozze si incamminarono alla volta di Palermo e la giovane famigliola si ricongiunse alla madre.




            Alcuni giorni dopo, Alessandro si recò dall’abate del convento dei benedettini, un uomo sapiente e colto, plurilaureato, uno studioso. L’abate lo ricevette nel suo ampio studio e lo ascoltò.

-    -     Vedi figliolo, la gente comune confonde i demoni, che esistono davvero, con i fantasmi che sono invece il frutto della fantasia e dell’ignoranza. La morte segna il passaggio dalla vita terrena a quella spirituale, nessuno può tornare indietro, si muore una volta soltanto e lo spirito varca una soglia, ad esso è stata negata la terra, la dimensione spirituale è una via senza ritorno. I monaci della Misericordia erano venuti come tutti noi dalla polvere, ed al loro cessare i loro corpi sono ritornati polvere e nulla più, i loro spiriti viaggiano in una dimensione diversa e non possono ritornare sulla terra. Le degne sepolture che tutti gli uomini debbono avere, servono al conforto di quanti, rimasti in vita, li hanno amati. Non c’entra nulla la costruzione del tuo palazzo su un vecchio cimitero. Altra cosa sono i demoni, ci tentano, ci illudono, si fanno vedere sotto le forme più strane, producono voci e rumori, essi hanno solo lo scopo di allontanare gli uomini dalla giusta via, allontanarli da Dio. Io non sono un esorcista, verrò con te nel tuo palazzo, cercherò di constatare una loro presenza, non è detto che ci riesca e non è detto che loro, qualora ci fossero vogliano farsi vedere. Il suicidio è sempre opera dei demoni, le morti non naturali sono sempre opera loro, tu me ne hai raccontati tre, mi hai raccontato delle voci che sentiva tua madre e altre figure del palazzo, delle ombre alle finestre, del racconto del vecchio contadino Giovanni, sono tutti sintomi di presenze demoniache, ma dobbiamo prima constatare con oculatezza per non commettere errori, poi provvederemo a far intervenire un esorcista. Decidi tu quando andare.

Una decade dopo, di venerdì, il giorno della passione e morte di Gesù, l’abate fu prelevato dal convento da Alessandro e si recarono al feudo Mulinazzo, la carrozza si fermò, l’abate baciò la sua stola e se la pose sulle spalle, indi varcò l’uscio del palazzo, si segnarono ambedue e cominciarono a percorrere il piano terra, stalle, abitazioni del personale, cantina, poi salirono al piano nobile e, stranamente, sentirono il pianoforte, come se un virtuoso spingesse sui tasti. L’abate si fermò, tirò dalla tasca una boccetta di acqua benedetta e asperse il pianoforte, la musica cessò e si sentì un lieve odore di zolfo.

-     -    Possiamo andare Alessandro, ritorniamo in città, demoni non spiriti o fantasmi, demoni molto cattivi!

Non disse una parola il duca, era quasi terrorizzato, accompagnò l’abate e ritornò a casa a godersi i sorrisi della sua bambina. Due giorni dopo il suo cocchiere lo raggiunse nello studio:

-      -   Signor duca, devo comunicarvi una notizia spiacevole, stamattina l’abate è stato trovato impiccato nella sua cella, al collo la sua stola, la città è incredula.



Non disse una parola Alessandro, si alzò, calzò guanti e cappello e a piedi si recò in convento dove era stata allestita la camera ardente in un immenso salone. Si tolse il cappello, si segnò e sussurrò una sola parola:

-      -   I demoni…

Una volta la settimana Alessandro riceveva il vecchio Giovanni che era rimasto a far da guardiano al palazzo di feudo Mulinazzo, poche parole, qualche sorriso e la consegna delle damigiane di vino.

-    -     Signor duca, io dormo nelle stalle, non ho mai sentito rumori e voci, ogni tanto salgo al piano nobile e non avverto nulla, anche mia figlia che un giorno si ed uno no mi porta il cibo e la biancheria pulita ha dormito nel palazzo, proprio accanto alla camera che era di vostra madre, anche lei non ha sentito nulla e non ha visto niente. Mio nonno mi raccontava, quando ero ragazzo, che gli spiriti a volte si stancano e non compaiono più, forse vanno in un’altra casa a terrorizzare altri e, forse, dei resti dei monaci, nel cimitero non è rimasto più nulla. Io sono ignorante come lo erano mio padre e mio nonno, perdonate, ma il vostro palazzo se non sarà più abitato andrà in malora. Se non ci volete più tornare, allora vendetelo, anche senza disfarvi del feudo, soltanto la casa ed il parco attorno.

Il duca mise una mano sulla spalla di Giovanni, sorrise, e gli fece una carezza.

-     -    Forse hai ragione, tu mi hai sempre dato buoni consigli, lo venderò assieme a mezzo feudo, oppure, lo regalerò a mio cugino il marchese Gesualdo Zalò. Giovanni, i morti non tornano, ma i demoni…

Il marchese Gesualdo acquistò l’intero feudo di Mulinazzo, palazzo compreso, fece quello che la manutenzione ordinava e si traferì con la sua famiglia, moglie, tre figli maschi e le due anziane sorelle del padre, ambedue scrittrici di romanzi che i giornali del tempo pubblicavano in appendice. I primi due anni furono sereni, i suoi figli crescevano in salute e scorazzavano a cavallo per il feudo e le zie pubblicavano incessantemente romanzi dettati dalle loro fantasie. Quando il marchese Gesualdo partì con moglie e figli per andare a trovare il fratello nella piana di Catania, le due zie zitelle rimasero attaccate ai loro scrittoi, ambedue scrivevano sui pettegolezzi della nobiltà palermitana del XVI secolo, quando una notte si sentirono due urla, il personale si svegliò tutto e accorse verso le stanze delle nobildonne, la scena fu tremenda, le finestre delle loro camere erano spalancate, ambedue, come all’unisono, si erano lanciate dalle finestre, trovando tutte e due la morte sul basolato sottostante. Quella casa, l’incantesimo malvagio, la morte vi aleggiava in ogni angolo.

      Il palazzo si spopolò e per tutti diventò il palazzo degli spiriti, anche i passanti si tenevano a distanza, si parlò di magia, di spiritismo, di incantesimi, di streghe e di esseri malvagi, nessuno lo abitò più, solo il pozzo continuava a dare vita con la sua acqua sempre fresca. L’imponenza e la bellezza incuriosivano i passanti e quanti di quel palazzo e dei suoi misteri sentivano parlare. Venne la guerra, poi  il fascismo, quindi la seconda guerra mondiale, arrivò il miracolo economico, si spezzettò il feudo e attorno a quell’enorme e sontuoso fabbricato nacquero ville, locali di divertimento, piscine e campi da tennis. Un facoltoso americano acquistò il palazzo, lo trasformò in albergo e le stalle e la cantina diventarono eleganti suite come il piano nobile. Il proprietario vi si trasferì con la famiglia, ma l’incantesimo malvagio risorse e un pomeriggio la moglie lo trovò pugnalato nel suo studio. Fantasmi, spiriti, demoni? Oggi, pur conservando la sua austerità, è vuoto, alloggio per allocchi e corvi che vi regnano indisturbati! 






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