Mario
Scamardo
I
Racconti del Borgo
L’eredità dei Brancato
Il
marchese Eustachio Spanò, ultimo rampollo dei Brancato viveva a Villaseta, una
frazione di Agrigento, in quello che era rimasto di Palazzo Cacciatore, una
costruzione del periodo medievale di cui si erano salvate dall’incuria, la
torre merlata e un’ala, riattata tante volte nel tempo, le cucine e le stalle
al piano terra, sei o sette stanze nel piano nobile ed un enorme salone con
addirittura tre camini. Eustachio Spanò possedeva ancora un centinaio di ettari
di ortive nelle campagne di Palma di Montechiaro, città dove Tomasi di
Lampedusa ambientò “Il Gattopardo” , chiamando la stessa città Donnafugata,
mentre come Palazzo, lo ambientò a Santa Margherita Belice. I grandi introiti
del marchese provenivano dalla riscossione degli affitti di una trentina tra
magazzini e appartamenti, in pieno centro storico di Agrigento. Cinquant’anni
tondi tondi, festeggiati il sei di gennaio. Soleva ripetere Eustachio, con
buona ironia una domanda a cui mai diede una risposta: “Mi hanno portato i Magi
o la Befana?”… poi diventava serioso e cambiava discorso. Con lui abitava solo
un cameriere personale, una cuoca ed uno stalliere che nel mentre aveva
conseguito la patente di guida e si era trasformato in autista. Tanti parenti
lo andavano a trovare, i Randazzo, gli Alfano, i Camilleri, le sorelle del
padre avevano sposato tre benestanti, due agrigentini e uno di Naro, due figli
a testa, quindi sei tra cugini e cugine. Suo padre era il più grande dei
fratelli, i suoi cugini molto giovani erano tutti approdati alle professioni,
tre maschi medici che operavano in nosocomi dell’alta Italia, uno per famiglia,
due biologhe Ada Randazzo e Beatrice Alfano insegnavano in un liceo, l’ultima,
la più piccola dei Camilleri, Marialucia, era ancora universitaria a Scienze
Agrarie e, come sua madre, era una fanciulla bellissima. Le visite erano
fugaci, le zie per vent’anni, come recitassero un rituale, lo avevano esortato
a sposarsi, Eustachio prometteva di ripensarci ma non lo si vide mai in
compagnia di una donna, né a casa né fuori di casa. Eustachio si era innamorato
una sola volta, ma la donna che lo aveva piegato, stanca di aspettare che il
giovane marchese la sposasse, un giorno convolò a nozze con un benestante di
Canicattì. Eustachio si rese conto che il suo temporeggiare si era trasformato
nel suo continuo rimpiangere e nella sua continua tristezza. Aveva amici il
marchese? Si, nell’ordine: sua cugina Marialucia Camilleri, il conte Pilotta e
sua moglie Mafalda, l’architetto Luigi Busi e la sua compagna Margherita, frate
Andrea benedettino, il farmacista dr.
Saverio Liscìa, Il presidente del circolo dei nobili don Peppe Pitarresi e le
altre sue due cugine Ada e Beatrice. Oltre a queste frequentazioni il marchese vedeva solo l’amministratore del
suo fondo, gli inquilini dei suoi appartamenti e magazzini e il garzone del
macellaio che gli portava ogni giorno sia la carne che quanto servisse in
cucina, pane compreso. Ogni tanto Eustachio mancava per una o due settimane, si
faceva accompagnare alla stazione ferroviaria e si recava a Palermo o a
Catania. Tranne sua cugina Marialucia e frate Andrea, tutti gli altri avevano
il sospetto che si recasse fuori per degli incontri galanti e il farmacista,
nel primo pomeriggio, prima della riapertura, quando gli faceva visita don
Peppe Pitarresi, ripeteva la stessa frase: “Certo, all’età che ha, visto che
non si è voluto sposare, uno sfogo lo deve avere, avrà un’amante a Palermo e
un’altra a Catania, ma noi siamo contenti per lui!” Don Peppe non rispondeva ma
assentiva col capo, poi ambedue si recavano al bar per pigliare un caffè.
Usciti dal bar era don Peppe che poneva un interrogativo: “Ma a chi lascerà
tutte le sue proprietà, palazzo, campagna, appartamenti e magazzini, senza contare
i soldi depositati in banca?” Non rispondeva il farmacista, allargava le
braccia e inarcava le ciglia e, mentre riapriva la farmacia don Peppe
aggiungeva: “ Alle sue cugine, specialmente a Marialucia che sembra essere più
legata… boh! … staremo a vedere!”
Eustachio due volte al mese, di
sabato sera, invitava i suoi amici a cena. Lillo il suo cameriere personale il
giovedì si recava a casa dei suoi amici e consegnava l’invito, un foglietto
rosso orlato di giallo oro con nome e cognome dell’ospite, si recava ad
ordinare un catering ed il servizio di hostess e cameriere, poi ritornava a
riferire al marchese che ordinava per il sabato mattino di apparecchiare nel
grande salone e se era inverno faceva accendere tutti e tre i camini affinché
l’ambiente fosse abbastanza confortevole. Il sabato di ricevimento la cuoca, Mimì,
doveva soltanto preparare il caffè, e l’autista Bernardo doveva fungere da
maggiordomo. Finita la cena alle ventidue, cominciata alle ore venti in punto,
Bernardo accompagnava fuori cameriere, hostess e garzoni del catering e ognuno
degli ospiti, a turno, raccontava un aneddoto o un fatto di cronaca mentre si
intrecciavano commenti ed impressioni. Tutti gli amici, nessuno escluso,
avevano l'hobby delle escursioni naturalistiche per campagne e per i boschi,
quindi le domeniche spesso venivano impiegate per delle escursioni. Tutti
amavano raccogliere i frutti di bosco, tutti raccoglievano, a seconda della
stagione, le more, i pistacchi o fastuca come li chiamano gli agrigentini
(dall’arabo fustuq), gli azzeruoli, le castagne, i funghi o, alle prime piogge,
le lumache. Seguiva talvolta ad una escursione ricca di prodotti del bosco, una
cena a base di pistacchi, di castagne, di funghi o di lumache. Un pomeriggio,
quando meno tutti se lo aspettavano, il marchese Eustachio Spanò invitò i suoi
amici a cena per il giorno del suo cinquantunesimo compleanno. Lo aveva sempre
festeggiato da solo, pranzando in cucina con Mimì, Lillo, Bernardo e nessun
altro il suo compleanno, e questo destò la curiosità dei suoi amici. Ognuno
acquistò un regalo, chi i polsini, chi dei copri bottoni, chi una serie di
papillons in seta e alle diciannove del sei di gennaio tutti varcarono il
portone di Palazzo Cacciatore. L’accoglienza fu festosa e soltanto il
benedettino frate Andrea si accorse che i posti a tavola che erano stati sempre
undici erano diventati dodici. Non disse nulla il frate, ma attese
pazientemente in silenzio gli eventi. Eustachio Spanò chiese il permesso di
allontanarsi un pochino dopo aver messo ognuno a proprio agio. Il grande salone
era illuminato a festa, i camini erano accesi, i fiori nei vasi ad ogni angolo
e tutta la casa profumava di gelsomino. Ada e Beatrice parlavano animatamente
con Margherita, la compagna dell’architetto Busi, Pitarresi dialogava col
farmacista, il Conte Pilotta e sua moglie ammiravano una cristalleria in una
vetrina. Marialucia si avvicinò al frate e chiese:
-
Frate Andrea, avete idea di come ci sorprenderà mio
cugino Eustachio?
-
No figliola, non ne ho idea, ma son sicuro che ci
sorprenderà.
-
Eustachio è una persona solare, schietta e sincera.
-
Voglio sbagliarmi, ma stasera qualcuno rimarrà
sorpreso e meravigliato.
Guardò la pendola in fondo alla
grande sala il frate:
-
Venti minuti alle venti…
-
…ed Eustachio ancora non si vede…
-
Verrà mia cara, verrà e sarà puntuale!
-
Voi sapete qualcosa che noi non sappiamo…
-
No, io intuisco un po’ di più, non sono parente,
non sono sposato, obbedisco alle regole del mio ordine…. Ogni tanto
trasgredisco e vengo a cena… ma cenare non è peccato… su, venga con me,
inganneremo l’attesa sgranocchiando due pistacchi abbrustoliti, Mimì è brava a
prepararli.
Quando la pendola batté le venti,
entrò Eustachio in compagnia di una elegantissima donna. Tutti si interrogarono
e Frate Andrea disse sottovoce a Marialucia:
-
Ecco chi occuperà il dodicesimo coperto, nessuno di
voi si era accorto entrando che c’era un coperto in più!
Eustachio si rischiarò la voce,
poi:
-
Amici miei, i più cari e gli unici che ho avuto. Vi
ringrazio per essere tutti presenti, oggi è il mio compleanno, non so se mi
hanno portato i Magi o la Befana, ma so che cinquantuno anni addietro, come
oggi, sono venuto al mondo e stasera comincio a vivere una vita nuova. Mi avete
spronato spesso a trovare una compagna per la vita, non se ne è mai presentata
l’occasione, oggi vi comunico che la compagna l’ho trovata e ve la presento
chiedendovi di diventare amici suoi.
Lei è
Augusta Allampè dei conti Valguarnera, per tutti voi sarà soltanto Augusta.
Dateci il tempo di preparare il necessario e sarete tutti testimoni alle nostre
nozze.
Scoppiò un applauso e tutti si
congratularono con Augusta, furono scartati i regali e poi tutti a tavola per
due ore e mezza e, fino a mezzanotte fu un dialogare continuo e un pasteggiare
vini liquorosi e spumanti. Allo scoccare della mezzanotte, come nelle migliori
favole, Augusta si fece accompagnare all’uscio dove l’aspettava un autista e si
allontanò.
L’avvento della contessa di
Valguarnera non portò scompiglio nel gruppo di amici, anzi si rafforzò la voglia
delle escursioni, delle scampagnate, delle cene. Un pomeriggio Ada, Beatrice e
Marialucia si recarono a far visita alla novella cugina Augusta Allampé che si
trovava proprio in casa di Eustachio; nell’enorme salone gustarono i pasticcini
ed il caffè che Mimì aveva preparato ed attesero che rincasasse Eustachio da
Palma di Montechiaro. Ada interrogò Augusta:
-
Cara cugina, Eustachio giorni addietro, passando da
casa di mia madre per salutarla, le ha annunciato il vostro matrimonio da
celebrarsi entro sei mesi.
-
Si Ada, credo lo abbia partecipato solo alle zie,
d’altronde sono gli unici parenti che si ritrova, e poi, oltre i soliti amici,
da parte Spanò Brancato non ci sono altri a cui parteciparlo. Da parte degli
Allampè Valguarnera la cosa è un po’ diversa, la parentela è grande e bisognerà
elencarli in un paio di fogli per non dimenticarne qualcuno. Bisognerà
preparare il tutto, in quanto questo palazzo non ha cappella, mentre Palazzo
Valguarnera, pur avendo cappella al suo interno, usufruirà del fatto che si
affaccia sull’immenso sagrato della Chiesa dei Santi Arcangeli Michele,
Gabriele e Raffaele. L’abate del convento di frate Andrea è un buonuomo, colto
e sempre disponibile, chiederemo a lui se vorrà celebrare il matrimonio.
Marialucia
ascoltò con Beatrice, poi:
-
- Dopo
sposati vi trasferirete a Palermo o abiterete a Villaseta?
-
Non so Marialucia, credo proprio che Eustachio non
voglia saperne di spostarsi da casa sua, ma dovrà assumere un po’ di personale,
un aiuto cuoca, due cameriere, un altro autista e una governante supervisore,
il minimo indispensabile per mandare avanti la casa.
-
Ti facciamo compagnia fino al suo rientro, così
stabiliamo se domenica prossima andiamo alla Riserva di Torre Salsa, andiamo
per carrube, castagne e, se siamo fortunati, anche per funghi. Siamo andati lo
scorso anno e frate Andrea scoprì lungo gli argini di un torrente una serie di
arbusti di corbezzolo, maturi al punto giusto, si liberò delle carrube e riempì
il suo enorme cesto di corbezzoli rossi.
-
Non dobbiamo perdere le abitudini, suggerirò io ad
Eustachio di andare, tre automobili basteranno!
Si commiatarono le cugine del
marchese e domenica di buon mattino, come convenuto, assieme a Peppe Pitarresi,
al farmacista, a frate Andrea, ai conti Pilotta e all’architetto Busi e
compagna si presentarono davanti il portone di Palazzo Cacciatore. Montarono
sulle macchine del farmacista, dell’architetto e del marchese e si avviarono
verso Torre Salsa. Tutti erano dotati di cestino, di colazione a sacco che
ognuno preparò per se e gli altri, di coperte da stendere a terra e di
coltellini sul modello svizzero. Frate Andrea sembrava il più esperto, lungo l’argine
del torrente aveva trovato dei nespoli invernali, due alberelli di sorbe e a
terra tanti funghi, tanto da sistemare quanto raccolto nel cofano e ritornare a
raccogliere funghi. Assieme ad Ada il frate era un esperto micologo, sui funghi
ambedue sapevano tutto, avevano assieme frequentato, in maniera seria e
ponderata, un corso presso il Centro Micologico dalla Provincia di Agrigento. Tutti
raccolsero funghi sotto la guida dei due esperti, ma tanti da riempire i
bagagliai delle tre automobili. Il messaggio che passò di bocca in bocca fu che
il lunedì sera, a Palazzo Cacciatore si sarebbe consumata una cena solo a base
di funghi. Frate Andrea oltre ad essere un esperto nel cercarli, era un maestro
nel cucinarli, si presentava appena nel primo pomeriggio e poi, con la
collaborazione di Mimì, tirava fuori dei manicaretti da leccarsi i baffi. Sosteneva
il frate, da quel buongustaio che era, che prima di sedersi a tavola in un
ristorante, occorre fare una capatina in cucina per accertarsi che il cuoco sia
una persona in carne, cuochi magri o sono ammalati o non assaggiano mai! Il
lunedì oltre al frate, si prestarono a collaborare le tre cugine di Eustachio,
che assieme ad Augusta aiutarono in cucina sotto la direzione ferrea di Frate
Andrea che le obbligò ad un pater, ave e gloria prima di indossare i grembiuli.
Il profumo invase tutte le stanze e quando attorno alle venti tutto fu pronto
per essere servito, i commensali sedettero al tavolo e brindarono con dello
spumante, poi si servirono da soli e non disturbarono né Lillo né la cuoca
Mimì. Consumate tutte le portate, comparve sulla tavola un enorme vassoio di
dolcetti a forma di fungo ripieni di creme diverse, pistacchio, cacao, crema
pasticciera, crema di lamponi. Nessuno capì chi li avesse portati quei
dolcetti, erano ottimi e facevano bella vista. Frate Andrea si prestò a
servirli in dei piattini, uno per varietà di crema, quattro su ogni piatto e
presi delicatamente con la pinza, servi per prima Augusta, poi Margherita,
quindi Mafalda, poi le tre cugine, il farmacista, Pitarresi, il conte Pilotta,
Busi ed Eustachio, poi si servì e si accomodò per gustarseli con calma
alternando un boccone ad un sorso di rosolio preparato da Mimì. Finita la cena,
tanti furono i commenti sull’escursione a Torre Salsa, si parlò delle portate e
della bontà dei funghi; tutti si salutarono e
tutti rincasarono con l’impegno di rivedersi giovedì per un the e i
biscotti all’anice fatti arrivare settimanalmente dal convento di Mezzuiuso.
Il martedì
passò sereno, ma nel tardo pomeriggio Augusta cominciò a manifestare disturbi
gastrointestinali, cominciò in maniera incontrollabile a vomitare, si manifestò
una diarrea con spasmi addominali e la donna, in maniera eccessiva grondava di
sudore. Frate Andrea, intervenuto alla notizia, fece arrivare un’ambulanza che
portò la donna al pronto soccorso; i medici constatarono una forte
disidratazione e una insufficienza renale grave. Da un primo esame risultò un
aumento esagerato della transaminasi e della bilirubina, con sospetto di emorragia
interna. Il monaco non ebbe dubbi, avvelenamento da funghi, da amanita phalloides,
quelli erano i sintomi! Comunicò che la contessa Allampè aveva mangiato funghi.
Come mai solo Augusta era avvelenata, tutti avevano mangiato le stesse portate nelle medesime quantità, che nel
raccoglierli non si fosse accorta di quel fungo velenoso? No! Augusta non aveva
raccolto nessun fungo, era accanto a lui e seguiva le sue indicazione nel
riconoscere i commestibili e i velenosi. L’architetto o il farmacista? No, non
avrebbero fatto male ad una mosca e, perché poi ad Augusta? I valori bassissimi
dell' attività protrombinica con conseguente necrosi epatica, il coma epatico, l’insufficienza
respiratoria, le convulsioni e di li a poco la morte. Frate Andrea abbassò le
palpebre di Augusta, si segnò, recitò alcune preghiere e benedisse la salma,
accompagnandola mano nella mano sulla soglia dell’Aldilà. I medici del
nosocomio stilarono il certificato di morte: - Decesso per collasso
cardiocircolatorio a seguito da avvelenamento da “amantine” e “falloidine” presenti
nel fungo denominato AMANITE PHALLOIDES. – Finiti i funerali Frate Andrea non
convinto della morte accidentale della contessa Augusta, si mise ad indagare e
considerando che tutti avevano mangiato le stesse cose e la dose di veleno del
fungo aveva colpito solo la giovane donna, allora l’assassino doveva essere
qualcuno che aveva un movente e ha operato un delitto con maestria. Ripassarono
per la sua mente, come in un film, le immagini di quel lunedì pomeriggio,
almeno per quello che era successo dentro la cucina ricordava tutto, anche i
sospiri dei presenti, ma fuori dalla cucina che era successo?... ed il movente?
Il frate interrogò Mimì in disparte:
-
Amica
mia, quel maledetto lunedì chi portò il vassoio di dolci?
-
Non
lo ricordo, vidi il vassoio sulla consolle accanto al camino centrale, un
momento prima non c’era perché avevo consegnato piatti, bicchieri e posate alla
signorina Marialucia perché voleva rendersi utile apparecchiando la tavola.
-
Quando
sono entrati l’architetto e la compagna c’erano i dolcetti?
-
Perché
me lo richiedete, vi ho già detto che non ricordo chi ha portato il vassoio, e
poi, perché l’architetto e Margherita avrebbero dovuto eliminare la contessa?
-
Si,
me lo sono chiesto, perché?... Non c’è l’ombra di un movente!
-
Qualcuno
mi ha chiesto i guanti di gomma da cucina, pulire i funghi, scamiciare l’aglio,
preparare il pesto per i funghi arrostiti, occorrevano!
-
Mimì,
in cucina eravamo io, tu, Ada e Beatrice, nessuno di noi ha calzato guanti, a
chi li hai consegnati?
-
Alla
signorina Marialucia forse, ma, son sicura di averli dati a qualcuno ma non ricordo
a chi, e poi che bisogno aveva lei dei guanti se doveva soltanto apparecchiare?
-
Mimì,
li hai dati ad una donna, ad una delle tre cugine, se due non hanno mai calzato
guanti perché erano una alla mia destra e l’altra alla mia sinistra e non si
sono mai allontanate, i guanti li hai dati a Marialucia che un movente potrebbe
averlo. Dobbiamo sapere chi ha portato i dolcetti e chi ha indossato i guanti.
Uscì dalla cucina il frate e andò nel salone a trovare
Eustachio:
-
Caro
amico, sei distrutto, ti capisco, ora stringi i denti, io ho il fondato
sospetto che Augusta non sia morta accidentalmente, ma sia stata avvelenata a
ragion veduta da qualcuno.
Sobbalzò Eustachio Spanò:
-
Cosa
dici Andrea?
-
Nulla
che non pensi!
-
E
perché qualcuno lo ha fatto?
-
Lascia
che io ti porti alla verità, vedrai salterà fuori, oppure morirò col rimorso di
avere pensato male di qualcuno.
Usci da quel palazzo Frate Andrea, ma si recò prima a casa
dell’architetto Busi, poi a casa di don Peppe Pitarresi che confessò
candidamente di avere comprato il vassoio di funghetti alle creme varie in una
pasticceria del centro di Agrigento, di aver posato il vassoio sulla consolle
accanto al camino centrale, e poi, quale movente avrebbe spinto un galantuomo
come don Peppe!
Il mattino
seguente il frate si recò a Palazzo Cacciatore, entrò in cucina e chiese a
Mimì:
-
Mimì,
ricordate se Marialucia vi ha restituito i guanti?
-
No,
non me li ha restituiti per nulla, ieri ne ho preso un nuovo paio identici a
quelli che le ho dato, ma… non ricordo perfettamente se li ho dati a lei, voi
insistete con i guanti!.
-
Avete
provato a cercarli?
-
No,
non c’erano nella pattumiera, non ci sono nel vano lavanderia, un posto dove
posso guardare è se li ha lasciati sotto il lavabo della pila esterna accanto
al corridoio esterno che porta alla torre.
-
Vogliamo
andare a guardare?
Si recarono assieme dov’era la pila esterna, i guanti erano
buttati nel secchiello della spazzatura sotto il lavabo. Mimì stava per
raccoglierli ma il frate la fermò:
-
Non
toccateli per carità, lasciate che li pigli con un pezzo di carta e li deponga
in un sacchetto di carta.
Il frate li raccolse sotto lo sguardo meravigliato di Mimì,
notò due macchie scure sui due pollici e sui due indici e disse di aver capito
subito cosa era accaduto, ma colse anche il movente. Fece conservare il
sacchetto coi guanti, poi chiese ad Eustachio di convocare a casa sua tutti gli
amici per il pomeriggio.
Alle sedici arrivarono alla spicciolata, l’ultimo ad entrare
fu il farmacista. Quando tutti si accomodarono frate Andrea si pose in piedi
davanti a loro e comunicò che Augusta non era morta accidentalmente ma era
stata uccisa da uno dei presenti.
Ognuno guardò gli altri, ma attese in religioso silenzio gli
eventi.
-
Augusta
è morta per avere ingerito qualche milligrammo di amanita phalloides, una
quantità impercettibile, un fungo intero servirebbe ad uccidere un centinaio di
persone, a volte basta aver tagliato con un coltello uno di questi funghi
venefici, poi tagliare un altro fungo o il pane per rischiare la morte. Come ha
raggiunto il veleno la povera Augusta? Avevo pensato ai funghi che abbiamo
cucinato e mangiato tutti, nulla di più falso, saremmo morti tutti! I dolcetti?
L’ho pensato, li ha portati don Peppe, li ho serviti io, li abbiamo mangiato
tutti! Non è possibile!... e poi don Peppe che movente avrebbe avuto? Chi ha
ucciso aveva un movente forte! Escludiamo il farmacista, l’architetto e la
compagna, il conte e la signora, rimangono le tre cugine di Eustachio che
invece il movente lo hanno ed è anche forte!
Ada Randazzo si alzò di scatto:
-
Io
sono come frate Andrea una esperta in funghi, non avrei mai raccolto una
amanite, so a cosa si va incontro!
-
Signorina
Ada, garantisco che non siete stata voi, anche se avreste un ottimo movente!
-
Scusate,
avete escluso me, ma Beatrice e Marialucia ?
-
Anche
Beatrice è da escludere, eravate con me in cucina mentre, operando con dei
guanti di gomma per non rischiare, la signorina Marialucia ha propinato il
veleno.
Si alzarono di scatto Marialucia e Beatrice, si guardarono
negli occhi, poi Marialucia:
-
Perché
avrei dovuto uccidere Augusta?
-
Perché
dopo avere sposato il marchese Eustachio, sarebbe diventata la sua unica e
legittima erede.
-
E
come l’avrei uccisa?
-
Tu
hai apparecchiato, hai indossato i guanti per maneggiare il fungo velenoso che
il giorno prima avevi raccolto e nascosto, hai infilato i rebbi della forchetta
nel fungo e l’hai riposta nel posto assegnato alla contessa. Il veleno ha fatto
il resto!
Marialucia guardò in faccia il frate, poi tutti gli astanti,
poi si rivolse al farmacista:
-
Dottor
Saverio Liscìa, per favore volete raccontare a tutti quello che proprio
stamattina avete raccontato a me?
Il dottor Liscìa si alzò,
sospirò profondamente , poi:
-
Quando
a Torre Salsa frate Andrea, disse di avere visto tanti funghi sul ciglio del
torrente, aveva già raccolto nespole d’inverno e sorbe, e disse di andare in
macchina a posare quanto raccolto per liberare il cestino e riempirlo di
funghi, nel tragitto si fermò, si abbassò e raccolse un fungo, ma ebbe l’accortezza
di sistemarlo in un sacchetto di carta assieme alla borsetta dove aveva deposto
le nespole e le sorbe. Non capii perché lavò più volte il coltello nel torrente
e lo asciugò più volte con foglie di nespolo e poi con un lembo della sua
tunica. Volle lui preparare tutte le portate che tutti mangiammo, e fu lui a
voler servire i funghetti di pastafrolla farciti di creme varie. Servì per
prima, pigliando i dolcetti con una pinza, la contessa Allampè, poi la pinza
gli cadde dalle mani e andò a terra, ma frate Andrea servì tutti gli altri con
un cucchiaio, quando finì di servire, prima di consumare il dessert, portò in
cucina le pinze, ma nessuno le trovò perché le avvolse in un tovagliolo e le
intascò. Ieri il nostro amico frate benedettino si recò da don Peppe Pitarresi
chiedendo se avesse portato lui il vassoio con i dolcetti, ma nel sedersi
scivolò dalla sua tasca l’arma del delitto, la pinza avvolta nel tovagliolo. Don
Peppe Pitarresi, voi siete un galantuomo, eravate andato in convento per
chiedere a frate Andrea che cosa farne di quell’involto, ma entrando nel suo
studio, nell’attesa avete letto sul suo tavolo il falso testamento che il
nostro frate aveva appena finito di compilare in duplice copia, un testamento a
firma del marchese Eustachio Spanò che avrebbe destinato al frate, affinché
facesse opere di bene, il patrimonio dei Brancato.
Tutti gli astanti gemettero, guardarono il frate che cercava animosamente nelle sue tasche, ma Luciamaria
lo apostrofò:
-
Smettete
di cercare frate, voi avevate un grande movente, l’eredità dei Brancato, ma per
ottenerla avreste dovuto uccidere una seconda volta, ancora una amanite
phalloides per eliminare mio cugino Eustachio, nessuno avrebbe potuto
sospettare di voi! I guanti che mi ha dato Mimì son serviti a passare sulla
grande tavola una pezzuola bagnata per liberarla dalla polvere, io sono una
igienista non un’assassina! Don Peppe tirate fuori la copia di quel testamento
affinchè tutti abbiano contezza della cattiveria di questo frate. Avreste
potuto tacere e chiudere la partita, invece avete fatto l’inquirente per
cercare un colpevole con un ragionamento calcolato, nessuno avrebbe pensato a
voi, poi avreste ucciso con lo stesso metodo e avreste cercato un’altra
vittima, raggiungendo lo squallido scopo!
Don Peppe tirò fuori la copia del
falso testamento, mentre il farmacista telefonava alla polizia per assicurare l’assassino
alla Giustizia!
Mimì, che dalla cucina aveva
ascoltato ogni cosa, si segnò e mise sul fuoco un bollitore per un the che
forse nessuno aveva voglia di prendere.
Se volete lasciate un commento, grazie!
Ottimo narrato, storia sapientemente raccontata. Bravo!
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