Mario Scamardo
I
Racconti del Borgo
Il Banco di Disisa
Il feudo di Desisa[1],
in territorio di Monreale, faceva parte della “Magna divisa Jati”, costituita
da feudi sotto l’egemonia di Jato. I terreni erano molto fertili e gli arabi,
grandi idraulici, avevano realizzato le canalizzazioni. Sfruttando
l’artesianesimo e mettendo in atto i principi di sollevamento delle acque,
erano riusciti ad irrigare quasi tutti i terreni coltivabili. Desisa era anche
un avamposto per il pagamento dei tributi, ed era altresì il luogo dove si era
costretti a passare per entrare da sud-ovest nei territori di Jato, in quanto
era necessario pagare una tassa. Una guarnigione di guerrieri mori, ben armati,
stanziava nel feudo e montava la guardia all’avamposto che si trovava in cima
ad un’altura, un fortilizio con una doppia cinta muraria, sovrastata da due
torri di avvistamento. All’interno, nel patio, una fontana versava copiosamente
e l’acqua che fuoriusciva dal grande abbeveratoio si riversava in un enorme
pozzo a forma di pera, scavato nel terreno. Chi transitava dal posto, veniva
accompagnato dalle guardie al fortilizio, ed era obbligato a pagare il
pedaggio. Gli abitanti del feudo, pagavano i tributi quattro volte all’anno,
col cadere dei solstizi e degli equinozi. Quando qualcuno ritardava o si
rifiutava di versare quanto stabilito, veniva prelevato dalle guardie, legato
alle caviglie e calato, a testa in giù, nel pozzo con la testa a pelo
d’acqua; dopo il terzo giorno, il
malcapitato, veniva messo alla gogna, fuori dalle mura e veniva esposto al
pubblico ludibrio. La gente del feudo viveva spesso nel terrore, in quanto non
erano concesse dilazioni ai pagamenti ed il trattamento della gogna era
disumano e fortemente umiliante. Tutti chiamavano quel posto “il banco di
Desisa”, e tutti erano convinti che all’interno dovessero esserci enormi
depositi di monete d’oro , le “duppiedde”.
(Monete d'oro "duppiedde")
(Passo del Polledro - Guado sul fiume Jato)
In uno dei casali a valle del feudo, in
prossimità del Passo del Polledro[2],
un guado sul fiume Jato, abitava un ricco berbero, Alì Mustafà Galugi,
coltivava molti fondi e la sua casa era la più grande e la più bella del
circondario che divideva con le sue tre consorti e i due figli avuti dalla
prima moglie, Manzur di circa vent’anni e Mufida di sedici. I due giovani erano
nelle simpatie di tutti e, gli occhi neri e profondi della ragazza imponevano
un gran rispetto e tanta ammirazione. Manzur amava la caccia, era un eccellente
arciere ed era stato addottrinato all’uso della scimitarra, un vecchio maestro
d’armi della piazza di Jato era stato il
suo precettore. Mufida era stata affidata, per imparare la danza e l’arte di
reggere la casa, alla terza moglie del padre, la trentenne Athifa. La donna,
che la stimava tanto per il suo carattere remissivo e soprattutto per la sua
intelligenza e bellezza, ebbe cura di lei e la istruì con grande amore e
passione, preparandola così a un’eventuale matrimonio.
Un mattino i due fratelli fecero sellare i loro
destrieri, due cavalli arabi dal manto morello e andarono a caccia verso il
bosco. Manzur, ceduto il suo arco a Mufida, le fece scoccare un dardo che
trapassò, abbattendola, una lepre che se ne stava accovacciata nel suo
giaciglio e, quando la ragazza corse a recuperare la sua preda, il fratello la
seguì con lo sguardo e mostrò tutta la sua soddisfazione. Nella mattinata tante
furono le prede abbattute, conigli, colombacci, tortore e persino un germano
reale, la loro caccia era stata alquanto fortunata. I ragazzi legarono all’arcione delle loro
selle gli animali abbattuti e iniziarono la via del ritorno. A metà strada si
imbatterono in un plotone di guardie che pattugliava il territorio, ed ebbero
la sgradita sorpresa di essere circondati, disarmati e costretti a raggiungere
il “banco”. Mufida e Manzur non capirono il comportamento delle guardie, ma giunti
sul posto vennero fatti smontare da cavallo e vennero accompagnati all’interno.
Un anziano burbero comandante si presentò davanti a loro e chiese al capo
plotone per quale motivo i due giovani fossero stati condotti alla sua
presenza. L’uomo, che teneva nelle due mani i pezzi di caccia abbattuti, li
gettò sul grande tavolo e disse: - per questi li ho portati qua, hanno
abbattuto più selvaggina di quanto viene stabilito dalla legge, due capi a
testa, quindi, devono pagare per gli otto capi eccedenti. – L’anziano
comandante, li guardò, li vide ben vestiti, immaginando che non fossero né
bracconieri, né malviventi, chiese loro a quale famiglia appartenessero e da
dove venissero. Mufida sorrise e rispose: - siamo i figli di Alì Mustafà
Galugi, la casa di nostro padre è al Passo Polledro, nessuno ci ha mai vietato
di cacciare, mio padre ha sempre pagato i tributi. – Mi dispiace – rispose il
comandante, è prevista una tassa di una moneta d’oro ogni quattro capi in più
abbattuti, quindi, voi dovete darmi due monete. – La ragazza sorrise ancora e
disse: - con noi non abbiamo monete, se questa è la legge, mio fratello farà
ritorno e ve le porterà – ma il burbero uomo fece una smorfia: - voi andrete a
pigliare le monete, vostro fratello rimarrà qua, fino a quando non sarete
tornata. – La ragazza prese la selvaggina dal tavolo, uscì, la attaccò
all’arcione e si dette al galoppo verso casa. Il vecchio Alì Mustafà, vedendo
ritornare la figlia da sola si preoccupò, ma quando seppe dell’accaduto, montò
a cavallo e si recò su al fortilizio, sborsò le due monete e rientrò col
figlio.
(Manzur)
Manzur non digerì affatto il tributo impostogli
e tanto meno il comportamento delle guardie, la selvaggina era abbondante, e
pensò che da quando l’uomo era sulla terra aveva sempre cacciato senza
l’imposizione di balzelli. Spesso si rodeva pensando all’accaduto ed una sera
decise di farla pagare ai gestori del “banco di Desisa”. Come tutti, pensò che
all’interno dovevano esserci dei depositi in denaro, tante “duppiedde”, allora
bisognava prenderne un po’, bisognava escogitare un sistema che non implicasse
grossi rischi, il furto veniva punito con l’amputazione delle mani, ma le sue
gli servivano. Andò per i campi e raccolse tanti papaveri, li pestò in un
mortaio e conservò il succo in un piccolo otre, quando le guardie, ultimate le
scorte di vino, vennero giù a comprarne da suo padre, Manzur colmò gli otri con
tanto succo di papaveri, capace di addormentare una mandria di cavalli. La sera
si appostò nelle vicinanze del fortilizio e, quando vide crollare dal sonno le
due sentinelle che stavano all’ingresso, sgattaiolò dentro. Tutti dormivano
profondamente ed il russare faceva tremare i tetti. Staccata una fiaccola dal
muro, girò ogni dove, non c’era un buco, una cassa, un nascondiglio che facesse
pensare ad un deposito di monete, l’ultimo posto dove sbirciare era un pozzo a
pera asciutto, scavato all’interno del grande salone, sormontato da una piccola
cuba, una costruzione a forma di cubo, realizzata in mattoni refrattari, con a
sua volta realizzata sopra una cupoletta, anch’essa in mattoni pieni. Si sporse
ed al lume della fiaccola vide sul fondo luccicare le “duppiedde”, erano tante,
tante da far girare la testa. Scendere in fondo al pozzo era un’impresa,
risalire, lo era doppiamente. Manzur non era un ladro, anzi un generoso, un
altruista, e quando pensò di calarsi con una corda, la sua coscienza lo fermò,
rimise la fiaccola al suo posto e ritornò a casa. Si sentiva di già appagato
dal fatto che era riuscito a buggerare le guardie, e tanto gli fece sedare la
rabbia che gli covava dentro.
Una sera, nell’aia davanti casa, il padre tenne
una festa, furono accese tante fiaccole da illuminare ogni dove e furono
preparate un bel po’ di vivande. Tutte le famiglie di Passo Polledro arrivarono
portando un dono a Mufida. Ognuno giunse con le proprie mogli e i figli e tutti
presero posto intorno al grande fuoco. Alì Mustafà Galugi, col suo abito più
bello, accompagnato dalle tre mogli e dai figli, sedette per ultimo, fece cenno
ai servitori e vennero portati decine di vassoi ricolmi di carni, di verdure,
di frutta e di dolci. Grosse caraffe in argilla erano colme di vino al miele e
senape e per il fine pasto era pronta una grande brocca con un liquore di
fichi. Al ritmo del battito delle mani, a turno, tutte le ragazze danzarono,
per ultima, ballò Mufida. Il vecchio Alì Mustafà invitò gli astanti a
raccontare qualcosa per allietare la serata. Si alzò in piedi Manzur e chiese
al padre di poter narrare una storia. Il vecchio berbero concesse la parola e
Manzur raccontò, come se l’avesse vissuta un’altro, la sua visita al
fortilizio, messa in atto con l’ausilio del sonnifero. Raccontò del pozzo a
pera sormontato dalla piccola cuba e del suo prezioso contenuto, ma ricorse a
tanta fantasia per inventarsi un incantesimo che non permetteva, a chi si
impossessava delle “duppiedde”, di uscire dal pozzo fino a quando non le avesse
riposte. Raccontò che qualcuno, per evitare di rimanere imprigionato, tentò
l’operazione con un cane, nascondendo in ogni boccone una moneta, ma l’incantesimo
aveva bloccato il cane, fino a quando, a digestione avvenuta, lo stesso non
depositò le monete. Raccontò inoltre che, all’uscita dal fortilizio, un vecchio
saggio barbuto aveva chiesto all’uomo che si era calato nel pozzo: - giovane
amico, dimmi, è stato svuotato il “banco di Desisa”? – no – rispose l’uomo – il
saggio si portò disperatamente le mani alla fronte ed esclamò: - ah, povera
Sicilia!.. – l’uomo allora volle sapere di più – dimmi vecchio saggio, cosa
occorre per svuotarlo? – Il “banco” è soggetto ad un incantesimo, una vecchia
strega cattiva lo ha praticato, il denaro che in esso è conservato si può
portar fuori a condizione che l’incantesimo venga spezzato, e per far ciò
bisogna che vengano sacrificati tredici innocenti ed il loro sangue venga
sparso attorno al pozzo asciutto. – Il saggio sparì nel nulla e l’uomo,
terrorizzato, si allontanò di corsa. Finito il racconto Manzur ricevette gli
applausi degli astanti e qualcuno iniziò un’altra storia.
Il vecchio Alì Mustafà, conosceva bene suo
figlio, e conosceva, altresì, bene com’era fatto il fortilizio, con i suoi
pozzi e con i suoi camminamenti, troppe descrizioni meticolose per uno che
c’era stato appena due ore in stato di fermo, allora pensò che una parte della
storia era vera. L’indomani chiamò il figlio e si fece confessare tutto. Manzur
raccontò tutta la verità ed il padre lo rimproverò per l’impresa rischiosa, ma
lo lodò per la sua onestà, ma anche per la sua fantasia nel narrare.
Passò il tempo e Mufida sposò un giovane
berbero che la portò lontana, nel suo casale ubicato nella Divisa Elcumeyt[3],
al di la del Monte Jato. Anche Manzur sposò una giovane donna che proveniva
dalla Divisa Lacbat[4],
visse assieme al vecchio padre e alle sue tre mogli.
(Papaveri)
Un giorno, attraversando dei campi, Manzur vide
tre uomini che raccoglievano capolini di papaveri e stavano per riempirne due
grandi sacchi, si fermò e chiese loro: - ditemi, siete voi speziali o medici? –
no – risposero in coro i tre, ma non dissero altro. Il giovane si allontanò e,
ricordando l’uso che egli ne aveva fatto dei papaveri, capì che i tre
programmavano di svuotare il “banco di Desisa”. Per quattro sere
consecutivamente si appostò tra gli alberi, ma nessuno si fece vedere, forse si
era sbagliato sulle intenzioni dei tre uomini, ma la quinta sera, dopo il
pasto, vide le sentinelle piegarsi sulle ginocchia e cadere in un sonno
profondo, qualche minuto dopo vide entrare nell’avamposto i tre uomini che
avevano raccolto i papaveri. Li seguì a distanza, armati di pugnali e delle
loro scimitarre, li vide ispezionare ogni angolo, erano dei ladri. Quando con
le torce illuminarono il pozzo asciutto, legarono una corda ad un anello che
era fissato al muro e si calarono dentro con delle bisacce. Presero quante più
“duppiedde” possibili, le infilarono nelle tasche e persino negli stivali,
erano tre brutti musi e uno dei tre disse agli altri due: - fratelli, ora
risaliamo e per non correre nessun rischio, prima di andar via sgozziamo tutte
le guardie – gli altri due, sulle prime
dissentirono: - ma non ci hanno visti, dormiranno per tre giorni – ma
quando il primo, che sembrava essere il capo, scosse negativamente la testa,
scoppiarono in una sguaiatissima risata e tutti e tre gridarono: - sgozziamoli!
- Manzur non aveva a simpatia i ladri, ancor meno gli assassini, sciolse la
corda dall’anello a cui era fissata, si affacciò all’imboccatura del pozzo e
disse ai tre malviventi: - senza i vostri propositi di assassinio, forse, mi
sarei convinto ad andar via lasciandovi portare il denaro, ma la vostra
cattiveria supera ogni limite, è giusto che sia punita, il vostro sogno era di
vivere e morire ricchi, accontentatevi della metà del vostro sogno, quello
soltanto di morire ricchi! – Uscì dal fortilizio portando con se la corda.
Appena fuori, guardò la valle, era una notte di luna, la bianca luce illuminava
le messi, s’incamminò verso casa e, giunto a metà strada, si girò per guardare
indietro. Il “banco di Desisa” continuava a possedere ancora il fascino dei
suoi misteri.
[1] Toponimo ancora esistente in territorio
di Monreale, nei pressi della frazione di Grisì.
[2] Toponimo ancora esistente, confine
meridionale del feudo di Desisa. (Guado
sul fiume Jato).
[3] Il toponimo odierno è il
Monte Kumeta, che si affaccia al Monte Pizzuta, in territorio di Piana degli
Albanesi.
[4] Il toponimo odierno è
Malvello, in territorio di Monreale.
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