giovedì 1 novembre 2018

LUCREZIA, LA BARONESSA DI CALCARA - (Racconto breve) 01. Novembre. 2018





















I RACCONTI DEL BORGO


Mario Scamardo




LA BARONESSA DI CALCARA

Vittima di un matrimonio mal combinato, da dove non nacquero figli, Lucrezia Mazzi Raitano baronessa di Calcara, attese in gramaglie appena il tempo dei funerali del marito, il barone Lucio Calcara che mai aveva amato ma che aveva sposato perché impostogli da suo padre il barone Ottavio. Al ritorno dal cimitero, dove il barone Lucio era stato tumulato nella cappella gentilizia di famiglia, Lucrezia risalì sulla carrozza di don Tiberio Terrazzino, un ricco quarantenne, possidente della zona, che la riaccompagnò a casa a palazzo Calcara. Non aveva parenti Lucrezia, era figlia unica ed i suoi genitori, il barone e la baronessa Mazzi Raitano erano morti, nell’arco di venti giorni uno dall’altra, vittime di una pandemia che aveva mietuto migliaia di vite, meno di un anno dopo il suo matrimonio. Il barone Lucio, più anziano di lei di venti anni, a cinquantadue anni era trapassato roso dalla tubercolosi. L’unico fratello del barone, Leopoldo Calcara, aveva scelto l’abito talare ed era nel convento dei Frati passionisti sul Monte Argentario. Trentaduenne, nel pieno della sua bellezza, Lucrezia era innamorata  di don Tiberio Terrazzino e lui le aveva sempre fatto una corte spietata, le mandava enormi fasci di rose che coltivava in una sua tenuta, le mandava le primizie del suo giardino e, con la scusa delle visite di cortesia al barone Lucio da tempo infermo, passava tante ore nel salotto di Lucrezia, con la complicità della sua attempata dama di compagnia, Luigina, una nobile decaduta, vedova, ospite fissa di palazzo Calcara. Mai vestita a lutto Lucrezia, neppure al funerale, celebrato un mese esatto dopo la morte di Lucio, nella cappella interna al palazzo.  Un abito grigio perla lungo di seta, attillatissimo, guarnito solo con dei bottoni in madreperla e una cintura della stessa stoffa annodata  alla vita; sul capo un cappellino con veletta anch’essa grigia. Nella cappella solo una ventina di persone, il grande assente Tiberio Terrazzino, della cui non presenza non ne parlò alcuno e nessuno parlò dell’assenza di Leopoldo, il frate passionista. Strana l’assenza del Terrazzino al funerale e strana quella del passionista frate Leopoldo. Da più di venti giorni nessuno aveva visto fermare la carrozza di Tiberio davanti al portone di Palazzo Calcara, ed in un ambiente ciarliero come quello della nobiltà palermitana, si diffuse subito la voce che Lucrezia aveva interrotto il suo idillio amoroso col Terrazzino che non era titolato anche se ricco, e che, sicuramente, la baronessa avesse intrapreso una nuova relazione con un nobile siciliano, magari trapanese o siracusano, stante che i suoi genitori provenivano da quelle provincie. Nulla di quanto in giro si diceva; un pomeriggio si aprì il portone e la carrozza, tirata a lucido, con sopra Lucrezia Mazzi, più raggiante che mai, e Luigina la sua dama, uscì e attraversò l’intera città, poi entrò al porto e si fermò al molo Santa Lucia dove era ormeggiata la nave a vapore Partenope che copriva la tratta Palermo –Napoli. Il cocchiere aprì la portiera della carrozza, abbassò il predellino ed attese, tuba in mano, che le due dame scendessero, poi fece segno ad un facchino di prelevare i bagagli della baronessa e di portarli sulla nave. Dopo un riverente inchino, incassò la consegna del silenzio da parte della sua padrona: nessuno doveva sapere della sua partenza, del tempo che sarebbe mancata, del suo ritorno e della sua destinazione. Il fidatissimo cocchiere attese che l’imbarco fosse completato e attese lo sventolio di un fazzoletto bianco da parte di donna Luigina che non si fece attendere molto al fine di poter ritornare a Palazzo Calcara. 





Alle tre del pomeriggio del giorno seguente al Molo Angioino attraccò la Partenope. Tiberio Terrazzino era giù con una carrozza con un tiro a quattro ad attendere le due donne. Caricati i bagagli, il cocchiere fece schioccare la frusta e la carrozza, percorrendo tutto il lungomare si indirizzò verso il Vomero ed entrò, attraversando un enorme portone, con uno stemma  sul portale e sotto una scritta: Palazzo San Ferdinando. La carrozza si fermò nel patio e  tanta servitù accorse a riverire gli ospiti. Tanto sfarzo aveva confuso Lucrezia, lei sapeva che Tiberio aveva ereditato per parte di sua madre alcune proprietà, ma non immaginava che fosse un patrimonio inestimabile. Tiberio era rimasto figlio unico dopo la dipartita dell’unica sorella che aveva e che la tisi, ad appena sedici anni, aveva ridotto ad una larva; aveva ereditato dal padre in Sicilia un enorme patrimonio e, dalla madre a Napoli un patrimonio ancora più grande che oltre al palazzo al Vomero consisteva in una parte della vecchia baronia, quella della Tenuta di Boscoreale. Era maggio inoltrato quando Lucrezia prese possesso della sua camera e, per un mese di fila fu un visitare le bellezze di Napoli e dei suoi dintorni, grandi cene ma pochissimi rapporti con la nobiltà napoletana, nessun invito, nessun ricevimento. Grande era l’amore di Lucrezia  per Tiberio, ma la mancanza di blasone, senza alcun titolo, la loro vita sociale sarebbe stata monotona, senza interessi, tranne che per i loro patrimoni, uno sfacelo!
Un pomeriggio Terrazzino uscì da solo in carrozza, si fece condurre  a Torre del Greco e andò a ritirare un grosso cammeo in corallo rosso incorniciato in oro. Al ritorno trovò la baronessa nel grande salone a dialogare con la sua dama di compagnia, attese che donna Luigina uscisse dal salone e inginocchiandosi davanti alla sua amata tirò dalla tasca il cofanetto col cammeo e lo pose sulle sue ginocchia, attese pazientemente che la sua Lucrezia lo aprisse e con voce pacata disse:
- Lucrezia, sono ormai ventiquattro mesi che tuo marito, il barone Lucio, pace all’anima sua, ci ha lasciato, credo sarebbe giunto il momento che noi ci sposassimo.

Lucrezia, lo guardò negli occhi, lo amava ma tutte le volte che pensava ad un legame stabile, le passava per la mente il diniego della nobiltà napoletana e siciliana di accettare un non titolato.
- Tiberio, sai quanto ti voglio bene, ho sfidato tutto e tutti pur di starti vicino, ma tu  purtroppo sei senza un titolo e la nobiltà del Regno non consente questo matrimonio, non che sia illegale, ma non è accetto!

Stava per parlare Tiberio, ma lei lo bloccò:

-         Non parlare, ho imparato a conoscere questa città, conosco la nobiltà dell’intero regno, so come muovermi.

Tiberio sembrò mortificato dal fatto che non avesse origini nobili, abbassò lo sguardo e guadagnò la poltrona accanto a quella della baronessa, standosene in silenzio.

-         Non crucciarti, so che Sua Maestà Ferdinando Carlo Maria di Borbone è un uomo generoso, so che non disdegna le belle amicizie, dammi tempo, dimentica quanto ti ho detto stasera, vedrai, un titolo nobiliare per te lo otterrò e questo consentirà di superare tutti gli ostacoli. Ora lasciami dire che sei stato splendido col tuo regalo che ho apprezzato molto, ti prego, attacca questo splendido cammeo alla catenina che ho al collo, poi prendimi sottobraccio e conducimi davanti allo specchio della nostra camera ed abbi cura di chiudere la porta.

Donna Luigina dal corridoio aveva seguito tutto, in fretta si rinchiuse nella cucina per dare ordini alla cuoca per la cena.

 

 

Quando nell’aprile del 1833 il re aveva visitato, dopo le province calabre, quelle di Messina, Palermo e Trapani, in quest’ultima, ad attenderlo, oltre a buona parte della nobiltà isolana, c’era Lucrezia in compagnia del marito e del cognato il frate passionista Leopoldo Calcara.  Sua Maestà , pur essendo padre di 13 figli avuti da due mogli, non disdegnava di ammirare le belle donne, e Lucrezia lo era! Al suo inchinarsi davanti al re, la baronessa notò come costui la guardava, cosa che difficilmente sfugge ad una donna e, prima di accomiatarsi dai suoi sudditi Trapanesi, si avvicinò a Lucrezia e si complimentò per la sua bellezza, mettendole in mano un minuscolo scarabeo di capodimonte. Questo ricordo era chiaro nella mente della giovane vedova, e giusto che le donne ne sanno una più del diavolo, pensò di recarsi dal suo re Ferdinando Carlo Maria, quasi a volergli rendere la visita.
Come farsi ricevere a corte? A chi chiedere sulle formalità? Quali fossero i protocolli da rispettare? Bisognava chiedere a chi abitualmente frequentava il palazzo reale.
Il padre di Lucrezia era stato imparentato col Conte Francesco del Balzo, dei Duchi di Presenzano, Maggiordomo di settimana e Gentiluomo di Camera di entrata del Re delle Due Sicilie. Scrisse un biglietto e lo inviò col suo cocchiere al Conte del Balzo, chiedendogli di riceverla. La risposta non si fece attendere e, una settimana dopo, il cocchiere del Conte Balzo consegnò nelle mani Donna Luigina una lettera che invitava Lucrezia a Palazzo del Balzo-Presenzano, nel cuore di Napoli ma non distante da Piazza Pebliscito dove è ubicato il Palazzo Reale.
Finito che ebbero di pranzare, Lucrezia comunicò a Tiberio Terrazzino della sua visita al Conte del Balzo parente del suo defunto padre, lo pregò di non recarsi nella sua tenuta di Boscoreale e di accompagnarla ma di rimanere, una volta varcato il portone del palazzo, giù nel patio, mentre lei avrebbe raggiunto il piano nobile accompagnata dalla sua dama di compagnia. Terrazzino se ne stiede muto ad ascoltare ma, i suoi occhi parlavano per lui e stavano a testimoniare un pizzico di disappunto.

 

 

Dal Vomero al centro storico la carrozza, per vicoli e vicoletti, impiegò più di mezzora.
La baronessa e la dama salirono il grande scalone, dove a metà percorso incontrarono l’anziano conte del Balzo accompagnato da un figliolo e da un paggio. Lucrezia accennò ad un inchino e fu invitata ad accomodarsi nell’immensa biblioteca del palazzo. Fiumi di ricordi del Conte e ricostruzione delle parentele comuni. Fu Lucrezia a spiegare che a Napoli era ospite di Tiberio Terrazzino con palazzo al Vomero e la Tenuta di Boscoreale, oltre alle due tenute nel trapanese, quella di Bellocchio e quella di San Giacomo, benestante non titolato, ma amico fedelissimo del suo defunto marito. Quando il Conte le chiese se fosse venuta solo in compagnia della dama, Lucrezia disse che Tiberio, era rimasto nel patio in compagnia del cocchiere. Il Conte impugnò un campanello e, prima di agitarlo interrogò Lucrezia:

-         Mia cara, se vi ospita, se vi accompagna, se era amico di vostro marito, e poi, con quello che possiede, perché lasciarlo in compagnia del cocchiere? Se vi va lo facciamo accomodare, mentre mi dite cosa posso fare per voi…

-         E’ una persona educata, ossequiosa, rispettosa e generosa, mai avrei accettato, altrimenti, la sua ospitalità. Conte del Balzo, se volete fatelo accomodare, non è nobile, ma è una persona degna.

Il Conte agitò il campanello ed un servitore ebbe l’ordine di accompagnare Tiberio Terrazzino in biblioteca. Dopo i convenevoli Lucrezia:

-         Signor Conte, voi ogni giorno varcate la soglia del Palazzo Reale, i vostri contatti con Sua Maestà sono quotidiani. Io lo incontrai con mio marito quando visitò le province siciliane. A Trapani ebbi modo di dialogare con lui e prima del commiato volle farmi un regalo.

Infilò la mano nella sua borsetta di pizzo nero e tirò fuori il piccolo scarabeo di capodimonte, lo porse al Conte:

-         Tenetelo, mostratelo a Sua Maestà, ricordategli che me lo ha donato a Trapani e, chiedetegli, se e quando lo ritenete opportuno, se mi concede una udienza. Io saprò aspettare, il tempo per me non è un parametro.

Il Conte intascò gelosamente il piccolo monile dopo averlo più volte ammirato.

-         Farò del mio meglio, Ferdinando Carlo Maria è un uomo buono, difficilmente dimentica due occhi come i vostri, riferirò e gli chiederò udienza per voi.

Terrazzino rimase stupito, Lucrezia al cospetto del re, a Palazzo Reale, non gli sembrò vero. Commiatatisi dal Conte i tre salirono in carrozza e nessuno pronunziò parola.

Tiberio, sceso dalla carrozza, porse il braccio a Lucrezia e la accompagnò al piano nobile. Messasi in libertà la baronessa  ritornò nel grande salone e sedette davanti al suo amato:

-         Tiberio, mi sono messa in mente che tu devi avere un titolo nobiliare e lo avrai!...vedrai, se Sua Maestà mi concede udienza, non uscirò dal Palazzo Reale senza avere ottenuto quello che voglio. Nessuno sa che io sono a Napoli ospite in casa tua, tranne Luigina ed il Conte del Balzo. Se ciò venisse alla luce scoppierebbe uno scandalo e tu ed io saremo sulle bocche della nobiltà del Regno delle due Sicilie, tante bocche, troppe bocche e, le nostra vita sarebbe un inferno! Io non voglio perderti ma, senza un titolo, la decisione di lasciarci renderebbe la vita ad ambedue meno tormentata.

-         Lucrezia, io sono un po’ confuso, forse ho difficoltà a capire, io non ti amo perché sei baronessa, io ti voglio soltanto sposare ma, se tu ritieni che io debba diventare un titolato, fai come tu ritieni sia giusto.

Lucrezia si alzò, si pose dietro la poltrona di Fabrizio, si chinò, gli cinse il collo e lo baciò sulla fronte:

-         Lascia che il Conte del Balzo mi dia notizia , mi recherò al cospetto di Sua Maestà e… che Iddio ce la mandi buona, chiederò un titolo per te, fosse anche di Cavaliere.

-         Mi daranno uno stemma e dovrò farlo riprodurre sui portoni di casa, sia a Napoli che a Palermo, sulle carrozze e all’ingresso della tenuta di Boscoreale.

-         Te lo farò ricamare sulle camicie, sulle vestaglie, sui fazzoletti e dove ci sarà di bisogno. Vedi caro, anche se i nobili dell’intero regno si tengono in piedi per sbaglio, perché non hanno più il becco di un quattrino, fanno sempre lucidare i loro stemmi, è l’unica cosa che conta!

Tiberio non disse più una parola ed avvertito da un cameriere che un suo fattore chiedeva udienza, si commiatò dalla contessa e scese giù per il grande scalone.
Dopo due settimane di attesa, Lucrezia cominciò a dare qualche segnale di irrequietezza, il Conte del Balzo aveva dimenticato del suo impegno, oppure Sua Maestà non aveva voglia di riceverla. Luigina cercava di farle capire che non bisognava spazientirsi e che i tempi di Corte a volte erano lunghi. 

 

Lucrezia, nervosa e scoraggiata, si immerse nella lettura di un piccolo testo sulla Cappella Sansevero che ospita capolavori come il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, conosciuto in tutto il mondo per il suo velo marmoreo che quasi si adagia sul Cristo morto, la Pudicizia di Antonio Corradini e il Disinganno di Francesco Queirolo. La cappella oltre ad essere stata concepita come luogo di culto, è soprattutto un tempio massonico carico di simbologie, che riflette il genio e il carisma di Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero, committente e allo stesso tempo ideatore dell'apparato artistico settecentesco della cappella stessa. Per una settimana di fila la visitò, la studiò e, tornando a casa volle spiegarla pazientemente a Tiberio Terrazzino che, colto com’era, una sera ne parlò con dovizia di particolari, tratteggiando le conoscenze e la cultura del Principe di Sangro, soprattutto del suo esoterismo e delle leggende che si raccontavano sul suo operato. Fu quella attenzione riverente che Tiberio mostrava per il Principe di Sangro che le fece venire un sospetto; suo marito era massone, ma ricco per quanto potesse essere Tiberio, difficilmente avrebbe potuto avere accesso continuo a Palazzo Calcara e il Barone Lucio non avrebbe concesso ad un non titolato di dargli del tu, di abbracciarlo e baciarlo sulle guance, mai avrebbe affidato del denaro a terzi per darlo in beneficienza, quindi Terrazzino non poteva essere che massone, e come il suo defunto marito e come il suo stesso genitore, tutti i venerdì, al calare delle ombre, si facevano accompagnare in un palazzo del centro, di proprietà della Curia Arcivescovile della città a celebrare le tornate. Bisognava chiedere a Tiberio se fosse massone?...e perché?... forse non glielo aveva detto perché non erano sposati o, forse perché era davvero di pochissime parole. Una sera nell’intimità Lucrezia:

-         Tiberio, scusa la domanda, il mio defunto marito era massone, voi vi davate del tu, vi baciavate tutte le volte che vi incontravate e vi separavate…

-         Pensavo lo sapessi già, da un po’ di anni. Tuo padre e tuo marito lo sono stati, io il martedì frequento una Loggia a Napoli, in Sicilia, andavamo con tuo marito di venerdì.

-         Ecco perché sei erudito sulla Cappella Sansevero.

-         Napoli e Palermo sono piene di simboli massonici, frontespizi dei palazzi, blasoni, fregi, gioielli portati da molti nobili, portoni e battenti in metallo. Tendiamo, attraverso la conoscenza, di migliorare noi stessi al fine di migliorare la società. Mettiamo in atto la tolleranza, il rispetto per le idee altrui anche se sono in antitesi con le nostre. Libertà, Fratellanza ed Uguaglianza sono i nostri obiettivi e poniamo sempre l’uomo al centro dell’Universo. Amiamo parlare, ma ci piace molto di più ascoltare e ci consideriamo eterni scolari che hanno bisogno tutti i giorni di apprendere.

Lucrezia gli turò la bocca con le sue labbra e, avvinghiati trascorsero la notte.
Le prime foglie degli platani cominciavano a cadere, l’autunno incedeva a passo lesto e anche il Vesuvio pian piano ingialliva. Donna Luigina, ad onta dell’ora mattutina, bussò in maniera concitata all’uscio della camera della Baronessa e, consegnandole una lettera:

-         L’ha portata un servitore del Conte del Balzo, raccomandando di consegnarvela immediatamente.

-         Grazie Donna Luigina, avete fatto bene, mi ero appena svegliata, Tiberio è andato via che era ancora buio, a Boscoreale è già vendemmia. Farò in fretta, faremo colazione giù nel grande salone.

Uscita Donna Luigina, Lucrezia aperse la lettera che ne conteneva una seconda che portava sul frontespizio lo stemma dei Borbone e la scritta: “UDIENZA DEL DIECI OTTOBRE”. Nella lettera a firma del Conte del Balzo erano spiegate le modalità, gli orari (le undici del mattino), alcuni particolari, ma soprattutto la presenza senza alcuna dama di compagnia e i colori degli abiti non graditi a corte, il verde acceso ed il marrone in ogni tonalità. La lettera conteneva anche una raccomandazione, quella di non aprire la seconda busta che portava all’interno un cartoncino col nome del richiedente udienza e quello del suo segnalatore. Lucrezia rilesse una seconda volta tutto e, considerato che mancavano otto giorni all’udienza, dopo colazione iniziò a pensare a vestito, monili, calzature, acconciatura e quant’altro. Nel pomeriggio informò Tiberio e, come se la sua supplica fosse stata accolta, cominciò ogni pomeriggio ad istruire il suo amato per una eventuale investitura a corte.
La mattina del dieci ottobre, Napoli era baciata da un sole caldo, il cielo era corrusco ed una brezza leggera portava con se un tenue odore di mare. Lucrezia, in un completo nero, guarnito soltanto di piccolissime perle, salì sulla carrozza tirata a lucido in compagnia di Donna Luigina e si ritrovò alle dieci e quaranta minuti davanti alla porta carraia del Palazzo Reale. Il cocchiere la fece scendere e attese pazientemente a Piazza del Plebiscito. La baronessa tirò dalla sua borsetta la busta con lo stemma dei Borbone e la mostrò al capitano delle guardie, che la precedette per le scale e la fece accomodare nella sala antistante il salone delle udienze, prese la busta e la consegnò ad un paggio, si inchinò alla baronessa e le disse sommessamente:

-         Di grazia, oggi l’udienza sembra essere soltanto per la signoria vostra, non ci sono altri, di solito questa sala d’attesa è piena. Un segretario di corte vi accompagnerà al cospetto di Sua Maestà, scusate, io torno al posto di guardia.

 

Un orologio scandì le undici e da una porta laterale un cortigiano in livrea invitò la baronessa a seguirlo. Sua Maestà era seduto sul trono, quando Lucrezia varcò la soglia di quella sala, di fermò, chinò il capo e si inginocchiò. Il Re fece cenno ai servitori di uscire, si alzò e invitò Lucrezia ad avvicinarsi. La fissò negli occhi, poi aprì la mano che conteneva il piccolo monile in capodimonte, lo porse alla donna:

-         Indossatelo, come avete fatto a Trapani il giorno che ci siamo incontrati, la luce dei vostri occhi è viva come allora, nulla è cambiato e voi siete rimasta quello splendore che eravate allora, identica a quella gran donna di vostra madre.

-         Maestà, voi mi fate arrossire.

-         La natura con voi è stata molto generosa, lasciate che faccia un apprezzamento su di voi da popolano, “vuje site nu zucchero, na bambulilla e Capemonte!”

Lucrezia abbassò il capo e Ferdinando le prese ambedue le mani, la strinse a se e, quando lei poggiò il capo sul petto del Re, costui con dolcezza le baciò i capelli.
Lucrezia aveva capito che sarebbe bastato poco a squinternare la mappa ormonale di Ferdinando e, siccome aveva un obiettivo a cui non avrebbe mai rinunciato, si lasciò corteggiare e carezzare dal Re.

-         Baronessa Mazzi Raitano di Calcara, oggi ho concesso udienza soltanto per voi; quando il Conte del Balzo mi parlò di voi e mi mostrò il piccolo scarabeo che vi avevo donato, ebbi il desiderio di rivedere voi ed i vostri occhi. Vi prego, esponetemi il motivo della vostra supplica.

-         Maestà, io sono ospite qui a Napoli…

-         Fermatevi, so della vostra amicizia con Tiberio Terrazzino, conosco ogni particolare, il Conte del Balzo, grande amico e fedelissimo della corona, mi ha informato di tutto, anche del rapporto sentimentale che c’è tra di voi. Cosa volete, sia Palermo che Napoli sono due città ciarliere, dove tutti sanno tutto di ognuno. Non vergognatevi di amare un non nobile, da buon padre di famiglia ne sarei felice, da nobile dovrei dirvi che ciò sarebbe disdicevole e contrario alle regole. Sono stato informato di tantissime cose sul vostro innamorato, sulla gente che frequenta e sui principi su cui ha basato la sua vita. Ora chiedetemi cosa volete che io faccia.

-         Maestà, Tiberio Terrazzino non ha un blasone, se lo sposassi, la mia vita di società sarebbe un inferno, soprattutto per le relazioni sociali. Vostra Maestà, testé ha distinto tra padre di famiglia e nobile, io voglio sposare Tiberio, ma mi occorre un titolo nobiliare per lui.

-         Nulla di più semplice, vi chiedo soltanto un sacrificio.

-         Maestà, disponete della mia persona.

-         Conservate le grazie per il vostro amato, io voglio rivedere soltanto la luminosità del vostro sguardo, nominerò Tiberio Terrazzino Barone di Boscoreale. Attendete ora nella sala antistante per qualche minuto, un mio segretario vi consegnerà una busta che presenterete al capitano delle guardie esattamente fra quindici giorni, alle ore undici del venticinque di ottobre, terrò udienza soltanto per voi, vi consegnerò personalmente la pergamena che attesta il titolo e lo stemma che potrà apporre dove crede.

Lucrezia stava per inginocchiarsi ma il re le riprese entrambi le mani e gliele baciò, poi suonò un campanello e disse a due servitori:

-         Accompagnate la Baronessa in sala d’attesa, mandatemi un segretario in biblioteca.

Ferdinando Carlo Maria di Borbone scomparve per uno dei corridoi, Lucrezia si accomodò nella sala antistante e dopo pochi minuti il segretario del Re le consegnò la nuova busta con il nuovo invito “UDIENZA DEL VENTICINQUE OTTOBRE  - presso la Regia di Caserta”. Perché a Caserta? Lucrezia si diede solo una spiegazione, il Re le avrebbe concesso quanto richiesto, ma il prezzo sarebbe stato quello di concedersi a Sua Maestà, lontani da occhi indiscreti, lontani da moglie, figli e cortigiane, infilò la sua busta nella borsetta e, preceduta  da un paggio, guadagnò l’uscita dove pazientemente l’aspettava la sua dama di compagnia sulla carrozza.

 

Terrazzino venne informato dalla baronessa nei piccoli particolari, compresa l’udienza promessa a Caserta. Napoli -  Caserta, una quarantina di chilometri di una buona strada, percorribile in carrozza in 4 – 5 ore, bisognava partire alle cinque del mattino per essere puntuali.

Il mattino seguente, il  solito servitore del Conte del Balzo portò una lettera per Lucrezia che consegnò a Donna Luigina. Quando la baronessa apri la lettera, prese fiato prima di leggerla, Sua Maestà le chiedeva scusa per il disagio e, considerata la distanza, Lucrezia era invitata a Caserta per il giorno ventiquattro  nel pomeriggio, sarebbe rimasta ospite nella reggia, l’indomani avrebbe avuto l’udienza ricevendo la pergamena promessa e se avesse voluto, sarebbe potuta ripartire in mattinata del giorno ventisei.  Ripose la lettera e si convinse di avere la certezza che quel titolo di nobiltà sarebbe costato il prezzo del suo corpo per due notti. Aspettò due giorni prima di parlarne con Tiberio, dovette smaltire prima una buona dose di nervosismo.

Alle tredici del ventiquattro ottobre Lucrezia partì da Napoli in compagnia della sua dama di compagnia, alle diciotto in punto la carrozza fu fatta entrare nella Regia di Caserta e, mentre qualcuno prelevò le due dame e le portò al piano nobile, il cocchiere fu accompagnato nelle scuderie, staccò i cavalli e infilò nei box, poi si unì alla servitù. Lucrezia e Luigina ebbero due camere in corridoi diversi, ciò fece ancor di più supporre alla baronessa sulle intenzioni del Re. La cena fu servita in camera e immediatamente dopo, un servitore, dopo aver bussato, avverti Lucrezia che  il Re l’attendeva giù, ai piedi del grande scalone per recarsi nel giardino
     -   Maestà, vi ho fatto attendere ai piedi di questo Scalone?

-         Per nulla baronessa, io di solito non ceno, piglio soltanto una tazza di latte e, mentre gli altri lottano con le portate di una tavola ricca, io mi godo la bellezza di questi giardini, di queste fontane, del rumore dell’acqua che scendendo a valle gorgoglia. Di solito lo faccio da solo, stasera lo farò con voi che siete tanto bella e, mentre parliamo, coglierò i raggi della luna nei vostri occhi.

Non disse più una parola Lucrezia, passeggiò attaccata al braccio del Re ammirando quell’esterno al lume di una luna piena e delle mille fiaccole che tremolavano alla brezza. Il Re si fermò:

-         Siete stanca?

-         No Maestà, ma se volete, ritorniamo indietro.

 

I due cominciarono a percorrere la via del ritorno, e quando furono entrati a palazzo, una dama si impadronì di Lucrezia e l’accompagnò nella sua camera. Lucrezia, stanca com’era, si preparò per la notte, nel dubbio che il Re volesse giacere con lei, non fermò l’uscio e cadde in un sonno profondo.

L’indomani il sole era già alto, Donna Luigina bussò alla camera di Lucrezia e notò che non era stata fermata dall’interno e, da donna vissuta pensò che Ferdinando avesse giaciuto con la sua baronessa, fece una piccola smorfia ma poi sorrise, pensando ai benefici che ne avrebbero potuto trarre. Svegliata si chiese che ora fosse, e quando seppe che mancava un’ora grassa all’udienza, si diede da fare ed indossò un abito verde scuro con passamaneria oro molto scollata e un quarto alle undici di presentò davanti la stanza del trono. Puntualmente il re la ricevette solo soletto, ammirò i suoi occhi, il suo vestito ma soprattutto il suo audace decollettè.

-         Siete ogni giorno più bella baronessa, avete dormito lasciando aperta la porta della vostra camera, di questo vi ringrazio, mi avete messo su un piatto d’argento il vostro corpo, io non avevo nessuna intenzione di approfittare di un vostro bisogno. Se io avessi giaciuto con voi, avrei disprezzato il regalo che sto per farvi, un titolo nobiliare per il vostro futuro marito. In ogni momento, con grande rimorso per la vostra coscienza, avreste pensato che il blasone di vostro marito è stato la contropartita ad una notte di sesso. Che figura sarebbe stata per un Re, e voi nel tempo mi avreste disprezzato, pur sorridendomi ed inchinandovi al mio passare.

Non disse una parola la baronessa, abbassò il capo ed attese che il Re le consegnasse la pergamena. Si inginocchiò e disse:

-         Grazie Maestà. Grazie per questa pergamena, grazie per la vostra generosità, grazie per la lezione che mi avete dato, Voi siete un galantuomo, un uomo di immenso prestigio, un uomo di parola e, soprattutto, un buon padre di famiglia.

-         Alzatevi baronessa, alzate lo sguardo affinché io possa ancora cogliere la luce dei vostri occhi. Ora andate e godetevi tutta la felicità che vi è dovuta.

Lucrezia si commiatò dal Re, ritornò a Napoli e appena dopo Natale sposò il Barone Tiberio Terrazzino.

 

 
 

 

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