venerdì 16 novembre 2018

IL COLPO DI FULMINE -- 16/11/2018






























Il colpo di fulmine

 Tratto dal romanzo "Il fascino delle mutazioni" di Mario Scamardo 

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        E’ un mattino sereno, l’aria è cristallina, una brezza leggera ha spazzato ogni cosa, Rosetta spalanca la finestra della sua camera, che si affaccia sul golfo di Mondello, e viene investita dai raggi di un caldissimo sole che le attraversano la finissima camiciola di seta, dando risalto ai contorni del suo corpo perfetto. I capelli, alla luce immensa, sembrano più biondi, le sue palpebre socchiuse danno la sensazione del piacere che la pervade e della serenità in cui si trova immersa. 


        L’albergo è il migliore della città, sonnecchia immerso da un lato in un immenso verde protetto dai colli e dall’altro su un mare verde smeraldo. Grandi saloni illuminati da enormi lampadari liberty, sono ricoperti da tappeti di seta; una passatoia di velluto rosso si spiega lungo i corridoi smisurati che accompagnano tutti al grande scalone centrale che porta al primo piano. Camerieri in livrea e guanti bianchi si spostano celermente per i piani. In uno dei salotti Ducrot, una signora ingioiellata se ne sta adagiata con in braccio due yorkshire dai collari di pietre dure, quasi a perpetuare un rito che la nobiltà isolana, salottiera, celebra e ripete accedendo dai tempi della realizzazione di questo Grand Hotel.


        Rosetta, in tailleur rosso e i capelli sciolti, cadenti a grandi onde sulle spalle, esce dall’ascensore centrale, lascia la chiave alla ricezione, infila la porta girevole e, dopo avere dato il primo sguardo attorno, fa cenno al primo taxi e si fa accompagnare al centro della città, nei pressi della facoltà di giurisprudenza.


        La visione d’insieme della scenografica Fontana Pretoria lascia Rosetta a bocca aperta. Lei, architetto, ha occhi soltanto per il complesso statuario della fontana, col suo fantastico paradiso mitologico di figure umane e di animali esotici, che esprime il ciclo della natura e della vita secondo uno schema quaternario che si ricollega alla “Croce cosmica” e al teatro “cosmologico” di Piazza Villena, o, come i palermitani la chiamano, “I quattro canti di città”.
Al tema quaternario dell’ottangolo espresso dalle quattro stagioni, dai quattro sovrani spagnoli e dalle quattro vergini protettrici di Palermo, fanno riscontro le quattro scalinate della Fontana Pretoria con le allegorie di quattro fiumi e con quattro coppie di Termini, disposti tutti agli antipodi di vaghe ellissi concentriche. Il rumore dell’acqua che fuoriesce dai cento zampilli, come sirena ammaliatrice, la chiama tra le sue mille statue la cui nudità pudica invita a liberarsi sia dalle pastoie delle convenzioni che dagli abiti. Rosetta, tra le statue diventa un Termine, un Tritone, una nereide, il fiume Maredolce, Diana, Pomona, il Genio dell’acqua; ogni statua è la sintesi di una bellezza, Rosetta, come Venere, le sintetizza tutte.
        Ancora uno sguardo a Palazzo delle Aquile ed alla loggia barocca che sovrasta la chiesa di San Giuseppe dei Teatini, poi, varca la soglia dell’ateneo. Si sofferma un attimo al centro del grande porticato, apre la borsetta e tira fuori un foglietto piegato in quattro, lo spiega per leggervi dentro qualcosa. Ad un bidello impettito nella sua divisa fiammante e gallonata chiede: - perdonate, sapreste dirmi dove trovare il professor Renato Brunelli? – Il bidello, folgorato dalla sua grazia: - scusate, volete ripetere?… - Dove posso trovare il professor Brunelli… - il titolare di Diritto Canonico? – Si. – E’ nell’aula A, alle vostre spalle, se volete v’accompagno… - no, grazie, aspetterò che finisca la lezione e quando uscirà lo fermerò -.
        Rosetta lesse tutti gli avvisi alle bacheche, tutti i calendari d’esame, ma gli occhi erano sempre puntati verso l’uscio dell’aula A. Sortirono decine di studenti, quasi tutti ventenni, il professore forse si attardava. Rilesse la targa alla porta: Aula A, entrò ma all’interno non c’era anima viva, che vi fosse un’altra uscita? Ritornò al centro del porticato invaso da centinaia di giovani, si guardò attorno quasi smarrita, chi sa chi fosse il professor Brunelli, poteva averlo visto non uscire dall’aula? Ma lei non lo conosceva , le avevano dato il suo nome a Roma, doveva incontrarlo perché amico di amici comuni. Il bidello impettito ripassò, si soffermò e interrogò la donna scoprendo che non conosceva quel ragazzino ventisettenne che si confondeva con gli altri ragazzi, ma che era titolare della cattedra di Diritto Canonico. – Scusate signora, ma voi conoscete il professor Brunelli?… E’ uscito un attimo fa, con quattro o cinque allievi… se volete trovarlo è qui di fronte, al bar sotto il Teatro Bellini. - Rosetta ringraziò con un cenno del capo e, muovendosi verso l’uscita, ebbe il tempo di reindossare quegli abiti che il bidello le aveva con gli occhi strappato di dosso.
        Renato Brunelli, figlio di un alto funzionario del Vaticano, approdato a soli ventisei anni all’Ateneo palermitano chissà per quali meriti, era sotto l’aspetto fisico una figura insignificante. Due lenti spesse da miope su una montatura metallica e due orecchie a sventola lo rendevano solamente buffo, seduto su una falsa sedia viennese, sorbiva spaparanzato una coppa di granita di limone, accompagnandola con una brioche a forma di minuscolo panino tondo, che solo a Palermo i fornai riescono a creare. Uno degli alunni, quando Rosetta stava per avvicinarsi al tavolo, stava per emettere uno di quei fischi sibilanti, che servono solo ad esprimere meraviglia, ma lei lo battè sul tempo e chiese all’uomo buffo, che aveva capito essere il Brunelli: - Scusate se disturbo, professor Renato Brunelli?… - L’omino con gli occhiali dalle lenti spesse leccò in maniera sgraziata la palettina colma di granita e ricomponendosi sulla sedia: - in cosa posso esservi utile… - mentre uno dei tre goliardi al tavolo del docente, notò la grande villania del Brunelli  che non fu capace di alzarsi e rendere omaggio a tanta grazia, notò pure come l’avvenente donna non volle dar peso alla enorme scortesia del cattedratico.
Fu quando Rosetta si presentò che venne invitata a sedere al tavolo e Mario, il perspicace goliardo, le porse subito la sua sedia sistemandogliela all’atto di accomodarsi e approfittando per pigliare posto accanto a lei. Gli amici che l’avevano indirizzata da Brunelli non avevano tenuto in considerazione la differenza di stile che correva tra i due, mentre, l’aveva colta Mario che non sapeva toglierle gli occhi di dosso e, per quanto breve fosse stato il dialogo tra loro, aveva colto in lei un velo di sdegno malcelato dalla voglia eccessiva di interrompere il dialogo e andare via.
Mario chiese a Rosetta se le servisse un’auto e, togliendole la sedia di sotto, con un ulteriore gesto di cavalleria, le cedette il passo verso il posteggio dei taxi. Nessun turbamento sembrò sortire dall’espressione della donna ma Mario, con garbo: - vuole che l’accompagni al prossimo posteggio, quello vicino la cattedrale? … forse due passi le consentiranno di scaricare un pochino di tensione e, se poi sono tanto fortunato, potrò farle da Cicerone. – Rosetta stava quasi per chiedere al tassista se fosse libero, ma guardò Mario e si accorse che i suoi occhi neri chiedevano una risposta positiva ai suoi desideri, poi, quasi per giustificare la decisione, guardò l’orologio, forse non vide manco l’ora: - si, lei è una persona simpatica, forse è bene che scarichi, purtroppo le titolarità all’università non conferiscono le doti per diventare galantuomini. Signori si nasce, farò volentieri due passi con lei, ma non ho voglia di visitare la cattedrale, magari domani, voglio pigliare un aperitivo a condizione che sia io a pagare, voi siciliani, tutti uguali, ve la pigliate se una donna ha il piacere di pagare il conto al ristorante o al bar. A mio padre sono occorsi trent’anni per imparare, anche lui è siciliano, è nato qui a Palermo, permette? … - e pigliandolo sottobraccio: - mi accompagni lei. –
        Mario è un giovanotto bruno di media statura, due occhi grandi, i capelli con la riga di lato, due mani grandi ma curatissime. Dai tratti del volto spagnoleggiante si intravede la sua origine contadina, trabocca da tutte le parti il suo essere distinto, educato ma soprattutto cavaliere, senza mai eccedere nel cerimonioso o trascendere nel banale. La sua educazione è quasi perfetta, non v’è un gesto, una postura, un atteggiamento, una parola che trasgredisce alle regole dettate da Monsignor della Casa.


        Sembrano una coppia perfetta, non si nota la differenza d’età, pur avendo lui vent’anni, quindici meno di lei. Imboccano Via Maqueda e passeggiando si ritrovano davanti al Teatro Massimo. Rosetta si sofferma davanti lo scalone di accesso al teatro dove sulla sinistra si trova una scultura bronzea che rappresenta una donna che simboleggia la “Lirica”, mentre suona uno strumento a fiato, adagiata su un leone. – Lo sa che questa opera è di Mario Rutelli? – dice il giovane alla donna, e lei con un sorriso: - ho origini anch’io palermitane, e poi, come architetto potrei anche offendermi di fronte al suo dubbio, anzi, le dico che l’altra scultura, quella sulla destra, quella donna che stringe al suo seno, adagiata sull’altro leone, rappresenta la “Tragedia”, ed è stata realizzata nel 1899 da Benedetto Civiletti. – Anche Mario sorride e guardandola negli occhi le chiede: - non mi faccia sentire vecchio, la prego, mi dia del tu, e poi… mi fa sentire più vicino… -
Rosetta non rispose, ma capì di aver trovato un posto nel cuore di Mario e, senza che se ne fosse accorta, visitò il suo e scoprì che il giovane era già entrato dentro di se con grande turbolenza; riprese Mario sottobraccio e tutti e due si avviarono verso il grande bar a fianco della Banca d’Italia. Seduti ad un tavolinetto consumarono lei un analcolico e lui un caffè. Rosetta non volle dare la sensazione di quanto le stava succedendo dentro ed incollò Mario con una bordata di domande sui suoi studi, sulla sua scelta universitaria, sulle materie date e su quelle in fase di preparazione e, quando ebbe tutte le risposte, erano già le tredici.


        A piazza Castelnuovo, accanto al teatro Politeama-Garibaldi, un attimo prima di avvicinarsi ai taxi, Mario propose a Rosetta di pranzare assieme e, al rifiuto garbato di lei le propose una cena in un locale tipico del centro storico, ma la donna trovò il modo di declinare l’invito col garbo e la gentilezza che la contraddistinguevano. Mario credette per un attimo che la sua fiamma improvvisa stesse per spegnersi troppo repentinamente, ed i suoi occhi neri e profondi diventarono immediatamente tristi. Rosetta chiamò un taxi, Mario le aprì lo sportello e lei, prima di salire, con immensa tenerezza: - domani voglio visitare la cattedrale, ho bisogno di un Cicerone, alle dieci in punto sarò davanti all’ingresso, approfitterò della tua disponibilità. – Sorrise ancora e sedendosi in macchina diede istruzioni all’autista. Gli occhi del giovane brillarono, gli aveva dato del tu e, lei dal finestrino, colse la gioia del ragazzo.


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sabato 3 novembre 2018

Divagazioni sul BENE E SUL MALE -


         



Mario Scamardo


BELZEBU' IL SIGNORE DELLE MOSCHE
Divagazioni sul BENE E SUL MALE





Il bene e il male


In filosofia la dicotomia bene/male appartiene soprattutto all’etica, che la intende come opposizione fra ciò che possiede un valore morale, ovvero ciò che è desiderato e appetito dall’uomo e ciò che è moralmente cattivo o sbagliato, ovvero ciò che arreca danno, dolore sofferenza. Oltre che all’etica, la dicotomia bene/male ha operato nella metafisica e nella teologia. Provo ad affrontare in maniera semplice le principali concezioni, rispettivamente del bene e del male, che si sono confrontate nella storia del pensiero filosofico.

Occorre innanzitutto distinguere fra una prospettiva metafisica e oggettivistica di intendere il bene, come la realtà suprema e perfetta che viene desiderata in quanto tale, e una concezione soggettivistica, che relativizza il bene in riferimento al soggetto che lo desidera. Il modello della prima concezione è offerto dalla filosofia di Platone, in cui il bene costituisce il vertice del mondo delle idee: come il Sole dà vita alle cose sensibili e ne consente la visione, così l’idea del bene è fonte di verità e di conoscenza del mondo ideale. Riallacciandosi a Platone, nel III secolo d.C. Plotino fa coincidere il bene con l’Uno, ossia col principio e la causa di tutto l’essere; in rapporto a esso il male costituisce un non essere, così come un non essere è la stessa materia: Plotino paragona alla zona d’ombra lasciata dal cono di luce proiettato dal principio primo. Anche il pensiero cristiano della scolastica medievale concepirà il bene come l’essere perfetto e lo identificherà con Dio: tutto ciò che proviene da Lui è quindi bene, per quanto il grado di perfezione di ogni cosa dipenda dalla posizione che essa occupa nella gerarchia degli enti, a seconda che questi siano più o meno vicini a Dio. Tuttavia il pensiero cristiano non potrà identificare la materia con il non essere e con il male, essendo la materia stessa creata da Dio.

La teoria opposta a quella metafisica del bene afferma che il bene è tale in relazione a un soggetto che lo desidera. In altri termini esso non è desiderato perché è il bene, ma è ritenuto bene perché è oggetto del desiderio. Nella sua forma più coerente, la teoria soggettivistica fu affermata in età moderna da Hobbes, il quale scrive: “L’uomo chiama buono l’oggetto del suo appetito e del suo desiderio, cattivo l’oggetto del suo odio e della sua avversione”. Anche Spinoza si muove in questa prospettiva quando afferma che “noi non cerchiamo, vogliamo, appetiamo una cosa perché riteniamo che sia buona; ma, al contrario, noi giudichiamo buona una cosa perché la cerchiamo, la vogliamo, la appetiamo, la desideriamo”. Pur mantenendosi all’interno di una prospettiva soggettivistica, Kant fece valere l’esigenza di universalità del bene che era propria della teoria oggettivistica: egli infatti sostenne da un lato che buono non può essere detto di un oggetto o un’azione in quanto tali, ma solo della volontà buona, dall’altro concepì quest’ultima come una volontà che si determina secondo una legge morale universale.

Non sono mancate nella storia del pensiero dottrine intermedie fra quelle oggettivistica e soggettivistica del bene. Socrate identifica la virtù nella scienza del bene e del male e afferma che nessuno commette il male volontariamente, ma solo perché ignora ciò che è il bene; quest’ultimo, nella concezione di Socrate, riguarda essenzialmente l’anima. L’identificazione fra bene, virtù e felicità diventerà importante nelle teorie etiche (dette “eudemonistiche”) successive a Socrate. Dal canto suo Aristotele intende il bene come “ciò cui ogni cosa tende”, e dunque, nel caso dell’uomo, la felicità come fine ultimo cui egli aspira: nel senso più pieno essa consiste nella vita contemplativa, ma accanto a essa si dispongono anche altri beni di ordine pratico. Aristotele intende così il bene in relazione all’uomo, ma d’altronde concepisce anche una gerarchia di beni secondo il loro grado di perfezione, avvicinandosi così alla teoria oggettivistica del bene.

Il problema della natura e dell’esistenza del male è alla base anzitutto delle principali religioni, passando poi alla filosofia e dando luogo a soluzioni che oscillano fra la negazione dell’esistenza del male e la negazione dell’onnipotenza di Dio.




Secondo l’insegnamento indù, per voler fare un esempio, il male non esiste poiché fa parte del mondo illusorio dei fenomeni; per lo zoroastrismo, antica religione persiana, così pure per l’antica setta dei manichei, il male dipende dall’esistenza di una divinità malvagia, contro cui è costretta a combattere la divinità buona. Nel libro biblico di Giobbe non si dà ragione per le sue sofferenze: la Scrittura suggerisce che le misteriose vie del Signore eccedono l’umana comprensione.

Nel III e IV secolo, all’affermarsi della teologia cristiana, divenne urgente una trattazione teorica del problema del male, poiché la dottrina del cristianesimo si fondava sull’esistenza di un Dio onnipotente e buono, ma contemporaneamente riconosceva la reale esistenza del male.

Col vertere del IV secolo Sant’Agostino formulò la soluzione maggiormente accettata dai pensatori cristiani successivi. Prima aveva accolto la teologia dualistica del manicheismo, in un secondo tempo, dopo la lettura di opere neoplatoniche e attraverso l’insegnamento di sant’Ambrogio, si convertì al cristianesimo ed accettò la teologia cristiana di un Dio buono, creatore dell’universo, con la presenza del male nel mondo.

Secondo Sant’Agostino il male non può essere opera di Dio, perché quanto creato da Dio non può che essere buono; il male, è privazione, o assenza di bene, così come il buio è assenza di luce. Può accadere, tuttavia, che qualcosa, pur creato buono, si corrompa, permettendo al male di insinuarsi nel mondo, qualora ogni creatura dotata di libero arbitrio, angeli, demoni e uomini, rifiutino i beni supremi, o assoluti, optando per quelli inferiori e relativi.  Secondo Sant’Agostino, può accadere che, da analisi immediata e superficiale, sia additata a male qualcosa che potrebbe risultare bene se considerata sub specie aeternitatis; dalla prospettiva eterna di Dio, ogni cosa è bene.

Le teorie agostiniane esercitarono un profondo influsso sui teologi cattolici del Medioevo come san Tommaso D’Aquino, e sui teologi della Riforma protestante, particolarmente su Martin Lutero e Giovanni Calvino.

Gottfried Wilhelm Leibniz, filosofo tedesco del XVII secolo, asserì l’irrealtà del male, definendo il mondo creato da Dio il”migliore dei mondi possibili” . L’ottimismo metafisico di Leibniz, durante l’Illuminismo, venne criticato sia da Voltaire che da David Hume, i quali respinsero la dottrina secondo cui la quantità di dolore immenso e la sofferenza possono essere giustificati perché facenti parte di un benevolo disegno divino.

La credenza nella certezza del progresso fu indebolita dalle guerre e dalle persecuzioni del XX secolo. Il male diventò l’oggetto di analisi di teologi e filosofi. In relazione alla Shoah ci si è chiesti se la sofferenza estrema possa trovare una giustificazione teologica. Sulla scia di Nietzsche alcuni pensatori hanno teorizzato la non esistenza di Dio; altri, ripartendo dalla teoria di Giobbe si sono fermati davanti alla imperscrutabilità delle vie del Signore. Il dibattito sul bene e sul male rimane sempre aperto in quanto bene e male sono in eterna lotta.

Sia nel pensiero del primo cristianesimo che nella tradizione del tardo ebraismo, Satana, il diavolo, fu visto come l’avversario di Dio. Certamente l’influenza dello zoroastrismo che oppone le potenze del bene Ahura Mazda ad Ahriman potenze del male, non si può escludere; sia nell’ebraismo che nel cristianesimo il dualismo è relativo e temporaneo, essendo il diavolo sottomesso a Dio. La letteratura apocalittica e quella apocrifa ci fanno riscontrare decine di figure diaboliche ed angeli decaduti. Nei manoscritti del Mar Morto si riscontrano dette figure ed il diavolo viene chiamato Belial , spirito del malvagio. In molte correnti del pensiero rabbinico, il diavolo è collegato con “l’impulso malvagio”, e cristiani ed ebraici convengono sulla possessione di Satana o da demoni che gli obbediscono.

Nel Nuovo Testamento Gesù libera dal male in tutte le sue forme, anche quelle legate alla presenza del diavolo. (Luca 10:18) Gesù disse: “Io vedevo cadere Satana dal cielo come folgore”.

Una parte importante ebbe il diavolo nel Medioevo, rappresentato sempre come creatura malvagia, munito di corna, coda e zoccoli caprini, in compagnia spesso da demoni subordinati.

L’Islam, riconoscendo l’ispirazione divina sia dall’ebraismo che dal cristianesimo, trasse da queste fonti la raffigurazione del diavolo, riportato nel Corano col nome di Iblis, l’angelo che rifiuta di inchinarsi ad Adamo. Allah maledice Iblis, lasciandolo però libero di tentare gli incauti.


Proviamo a fare una riflessione su una parola, un nome, un epiteto che è sinonimo di paura, di male, Belzebù, e sul pregiudizio causa del male.

Gli ebrei davano al diavolo, alla quintessenza del male, proprio questo nome. Ebbene, stranamente, il significato letterale di Belzebù dice chiaramente che il potere del male è solo apparenza, inganno, illusione, menzogna e, in ultimo, pregiudizio. Nei fatti, Belzebù, tradotto letteralmente, è “signore delle mosche”, un epiteto che suscita il ridicolo, il patetico. Qualcosa o qualcuno che nella realtà vera del mondo come la creazione, la meraviglia, lo stupore, il miracolo, la varietà, ha il potere di comandare solo sulle mosche, dunque, un titolo e un potere riduttivo. William Golden, noto scrittore inglese e premio Nobel per la letteratura, a tal proposito, scrisse un libro di grande successo dal titolo “Il signore delle mosche”, dove è contenuta un’analisi serrata dei meccanismi psicologici inconsci  che mettono in moto il nostro falso ego e che prendono origine dalla paura dell’ignoto, dai bisogni primari di sopravvivenza e organizzazione sociale, in grado di soddisfare questi bisogni nel modo, apparentemente, più economico, ovvero, con la violenza e l’esclusione dell’altro da Sé. Come conseguenza, assurdi sacrifici ad altri “signori delle mosche” e agli archetipi delle nostre paure inconsce. In ultimo, con la persecuzione del diverso, di colui che non accetta le regole piramidali di una società che semplifica e soddisfa i propri bisogni con la violenza. Stranamente, però, in questo mondo e in questo universo si può definire paradossale chi persegue la logica del pregiudizio e della violenza verso gli altri, come per Ate, cioè per maledizione divina, ne è esso stesso vittima. Ogni azione violenta contro “l’altro Sé” è destinata a ricadere su chi questa logica persegue, in una coazione a ripetere che è danno, incapacità ad incedere. Tutto questo è semplice da spiegare, infatti, l’uomo che vive nel pregiudizio sbaglia, dimenticando di essere solo una piccola parte di una totalità più vasta di cui partecipa, ovvero l’umanità e il mondo di cui fa parte e da cui deriva, allora, vive una fase egocentrica ed è incapace di uscirne per paura. Stranamente la psicoanalisi ha scoperto che ciò che noi rimuoviamo e riteniamo inaccettabile e che generalmente neghiamo, vive nel nostro inconscio di vita propria, si costituisce come seconda personalità e, più questa viene negata e perseguitata, più diventa forte e ci si contrappone. Solo il riconoscere che “l’altro Sé” non è nient’altro che un possibile noi, porta ad un abbassamento della tensione e del conflitto interiore, tanto che, l’accettazione del diverso diventa guarigione e ricchezza per chi, in questa difficile impresa, riesce ad amare ed accettare chi si ritiene, con pregiudizio, nemico e pericoloso.

        Cristo diceva che amare gli amici è facile, difficile è amare i propri nemici! Il perseguire e perseguitare il diverso da noi porta perciò al vero male, ad una scissione della psiche che in analisi viene definita come schizofrenia. Anche qui il diavolo può darci una mano a capire di cosa siamo vittime, essendo “diavolo” un termine che in greco significa dividere in due, ovvero negazione di una parte di se che, per pregiudizio, si ritiene inaccettabile.

        La natura, il creato, nel senso più vasto del termine, per una esigenza evolutiva di tipo ontogenetico, ha posto in ognuno di noi l’esigenza di trovare un’armonia nella totalità dell’essere e la spinta a raggiungere una completezza che, in definitiva, è ricchezza e, se è consentito un neologismo, eu-evoluzione (evoluzione buona) a cui opporsi, che causa il malessere e la nevrosi. Si viene ad innescare così uno strano meccanismo, da definire gioco crudele che fa del pregiudizio e di chi lo pratica, vittima e carnefice di se stesso. In ultima analisi, il pregiudizio è antieconomico perché rifiuta la ricchezza della varietà e della diversità. Una volta praticato e lanciato, torna indietro come un boomerang per colpire chi lo scaglia. Come in un gioco di specchi che, a riflesso oppone altro riflesso identico, che ha uguale forza e uguale intensità nell’opporsi, generando il “polèmos”, il conflitto interiore e sociale. La capacità, invece, di aprirsi agli altri, a ciò che apparentemente è diverso da noi, ma che con noi partecipa di un valore più alto, che è l’umanità e la conoscenza vera nello spirito di un riconoscimento di fratellanza, è anche la capacità di arricchirsi di cose nuove. La capacità di vivere la vita come un’avventura alla scoperta di ciò che da noi è diverso, porta alla comprensione e ad una pacificazione del vero io interiore che, di luce propria vive e non necessita di modellarsi con meccanismi assurdi di difesa. “Avventura”, dal latino “ad ventura”, cioè andare incontro a ciò che deve avvenire, un viaggio nella vita e dentro noi stessi, alla scoperta della vita, dove anche il rischio, gioca un suo ruolo fondante.






 Apollo 11

 Scoprire il mondo e le sue meraviglie anche nei risvolti che all’apparenza sembrano assurdi, contraddittori, pericolosi, estranei, non graditi è, in ultimo, il senso vero della vita; se così non fosse, bisognerebbe giudicare assurdi, pericolosi e folli i versi di Dante che fa dire ad Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza”. Questo verso ha trovato collocazione a Cape Canaveral, ai piedi della base di lancio dell’Apollo 11, dove per primi alcuni uomini partirono alla conquista e alla scoperta della luna, quella vera, quella che illumina la notte, ispira i poeti e fa sognare gli amanti, un verso che vuole ricordare agli uomini che il vero propellente della scoperta e della conquista è, e resta, la conoscenza, strumento vero dell’evoluzione. E’ possibile affermare che la virtù e la verità non stanno nella parzialità e, a maggior ragione, nel pregiudizio che ne è il paladino e il difensore più strenuo. Virtù e verità, stanno nella totalità delle cose e chi nega queste verità vive nel pregiudizio, nella menzogna e nell’autoinganno, generando sofferenza. I pregiudizi, hanno la qualità propria dell’argilla, quella di mutare forma e di adeguarsi alle necessità del momento, secondo le esigenze ed i bisogni del falso ego, nell’illusoria speranza di farci pagare il prezzo più basso e ricavare il maggiore guadagno.



Proteus

        Il pregiudizio ha la stessa capacità di Proteus, il mitologico mostro capace di assumere ogni forma per sopravvivere e sopraffare, fin che un eroe, nel compimento del suo destino, non lo svela e lo uccide. Cambiare forma in modo proteiforme, vale quanto le ragioni che sostengono i pregiudizi, logiche ed accettabili in apparenza, sufficienti alla ragione perché comodi per le paure e le vigliaccherie quotidiane. Il pregiudizio soddisfa pienamente il falso ego, un ego che dimentica di essere solo una parte del tutto, una parte che, se non in armonia con “l’altro Se”, non ha valore alcuno.

        Albert Einstein disse in proposito: è più facile spaccare un atomo che un pregiudizio!


Non essendo io filosofo, ma un lettore di tutto quello che capita sottomano, vi chiedo venia se qualcosa di questa modestissima divagazione
può presentarsi non chiara.

                        

                            Grazie!

giovedì 1 novembre 2018

LUCREZIA, LA BARONESSA DI CALCARA - (Racconto breve) 01. Novembre. 2018





















I RACCONTI DEL BORGO


Mario Scamardo




LA BARONESSA DI CALCARA

Vittima di un matrimonio mal combinato, da dove non nacquero figli, Lucrezia Mazzi Raitano baronessa di Calcara, attese in gramaglie appena il tempo dei funerali del marito, il barone Lucio Calcara che mai aveva amato ma che aveva sposato perché impostogli da suo padre il barone Ottavio. Al ritorno dal cimitero, dove il barone Lucio era stato tumulato nella cappella gentilizia di famiglia, Lucrezia risalì sulla carrozza di don Tiberio Terrazzino, un ricco quarantenne, possidente della zona, che la riaccompagnò a casa a palazzo Calcara. Non aveva parenti Lucrezia, era figlia unica ed i suoi genitori, il barone e la baronessa Mazzi Raitano erano morti, nell’arco di venti giorni uno dall’altra, vittime di una pandemia che aveva mietuto migliaia di vite, meno di un anno dopo il suo matrimonio. Il barone Lucio, più anziano di lei di venti anni, a cinquantadue anni era trapassato roso dalla tubercolosi. L’unico fratello del barone, Leopoldo Calcara, aveva scelto l’abito talare ed era nel convento dei Frati passionisti sul Monte Argentario. Trentaduenne, nel pieno della sua bellezza, Lucrezia era innamorata  di don Tiberio Terrazzino e lui le aveva sempre fatto una corte spietata, le mandava enormi fasci di rose che coltivava in una sua tenuta, le mandava le primizie del suo giardino e, con la scusa delle visite di cortesia al barone Lucio da tempo infermo, passava tante ore nel salotto di Lucrezia, con la complicità della sua attempata dama di compagnia, Luigina, una nobile decaduta, vedova, ospite fissa di palazzo Calcara. Mai vestita a lutto Lucrezia, neppure al funerale, celebrato un mese esatto dopo la morte di Lucio, nella cappella interna al palazzo.  Un abito grigio perla lungo di seta, attillatissimo, guarnito solo con dei bottoni in madreperla e una cintura della stessa stoffa annodata  alla vita; sul capo un cappellino con veletta anch’essa grigia. Nella cappella solo una ventina di persone, il grande assente Tiberio Terrazzino, della cui non presenza non ne parlò alcuno e nessuno parlò dell’assenza di Leopoldo, il frate passionista. Strana l’assenza del Terrazzino al funerale e strana quella del passionista frate Leopoldo. Da più di venti giorni nessuno aveva visto fermare la carrozza di Tiberio davanti al portone di Palazzo Calcara, ed in un ambiente ciarliero come quello della nobiltà palermitana, si diffuse subito la voce che Lucrezia aveva interrotto il suo idillio amoroso col Terrazzino che non era titolato anche se ricco, e che, sicuramente, la baronessa avesse intrapreso una nuova relazione con un nobile siciliano, magari trapanese o siracusano, stante che i suoi genitori provenivano da quelle provincie. Nulla di quanto in giro si diceva; un pomeriggio si aprì il portone e la carrozza, tirata a lucido, con sopra Lucrezia Mazzi, più raggiante che mai, e Luigina la sua dama, uscì e attraversò l’intera città, poi entrò al porto e si fermò al molo Santa Lucia dove era ormeggiata la nave a vapore Partenope che copriva la tratta Palermo –Napoli. Il cocchiere aprì la portiera della carrozza, abbassò il predellino ed attese, tuba in mano, che le due dame scendessero, poi fece segno ad un facchino di prelevare i bagagli della baronessa e di portarli sulla nave. Dopo un riverente inchino, incassò la consegna del silenzio da parte della sua padrona: nessuno doveva sapere della sua partenza, del tempo che sarebbe mancata, del suo ritorno e della sua destinazione. Il fidatissimo cocchiere attese che l’imbarco fosse completato e attese lo sventolio di un fazzoletto bianco da parte di donna Luigina che non si fece attendere molto al fine di poter ritornare a Palazzo Calcara. 





Alle tre del pomeriggio del giorno seguente al Molo Angioino attraccò la Partenope. Tiberio Terrazzino era giù con una carrozza con un tiro a quattro ad attendere le due donne. Caricati i bagagli, il cocchiere fece schioccare la frusta e la carrozza, percorrendo tutto il lungomare si indirizzò verso il Vomero ed entrò, attraversando un enorme portone, con uno stemma  sul portale e sotto una scritta: Palazzo San Ferdinando. La carrozza si fermò nel patio e  tanta servitù accorse a riverire gli ospiti. Tanto sfarzo aveva confuso Lucrezia, lei sapeva che Tiberio aveva ereditato per parte di sua madre alcune proprietà, ma non immaginava che fosse un patrimonio inestimabile. Tiberio era rimasto figlio unico dopo la dipartita dell’unica sorella che aveva e che la tisi, ad appena sedici anni, aveva ridotto ad una larva; aveva ereditato dal padre in Sicilia un enorme patrimonio e, dalla madre a Napoli un patrimonio ancora più grande che oltre al palazzo al Vomero consisteva in una parte della vecchia baronia, quella della Tenuta di Boscoreale. Era maggio inoltrato quando Lucrezia prese possesso della sua camera e, per un mese di fila fu un visitare le bellezze di Napoli e dei suoi dintorni, grandi cene ma pochissimi rapporti con la nobiltà napoletana, nessun invito, nessun ricevimento. Grande era l’amore di Lucrezia  per Tiberio, ma la mancanza di blasone, senza alcun titolo, la loro vita sociale sarebbe stata monotona, senza interessi, tranne che per i loro patrimoni, uno sfacelo!
Un pomeriggio Terrazzino uscì da solo in carrozza, si fece condurre  a Torre del Greco e andò a ritirare un grosso cammeo in corallo rosso incorniciato in oro. Al ritorno trovò la baronessa nel grande salone a dialogare con la sua dama di compagnia, attese che donna Luigina uscisse dal salone e inginocchiandosi davanti alla sua amata tirò dalla tasca il cofanetto col cammeo e lo pose sulle sue ginocchia, attese pazientemente che la sua Lucrezia lo aprisse e con voce pacata disse:
- Lucrezia, sono ormai ventiquattro mesi che tuo marito, il barone Lucio, pace all’anima sua, ci ha lasciato, credo sarebbe giunto il momento che noi ci sposassimo.

Lucrezia, lo guardò negli occhi, lo amava ma tutte le volte che pensava ad un legame stabile, le passava per la mente il diniego della nobiltà napoletana e siciliana di accettare un non titolato.
- Tiberio, sai quanto ti voglio bene, ho sfidato tutto e tutti pur di starti vicino, ma tu  purtroppo sei senza un titolo e la nobiltà del Regno non consente questo matrimonio, non che sia illegale, ma non è accetto!

Stava per parlare Tiberio, ma lei lo bloccò:

-         Non parlare, ho imparato a conoscere questa città, conosco la nobiltà dell’intero regno, so come muovermi.

Tiberio sembrò mortificato dal fatto che non avesse origini nobili, abbassò lo sguardo e guadagnò la poltrona accanto a quella della baronessa, standosene in silenzio.

-         Non crucciarti, so che Sua Maestà Ferdinando Carlo Maria di Borbone è un uomo generoso, so che non disdegna le belle amicizie, dammi tempo, dimentica quanto ti ho detto stasera, vedrai, un titolo nobiliare per te lo otterrò e questo consentirà di superare tutti gli ostacoli. Ora lasciami dire che sei stato splendido col tuo regalo che ho apprezzato molto, ti prego, attacca questo splendido cammeo alla catenina che ho al collo, poi prendimi sottobraccio e conducimi davanti allo specchio della nostra camera ed abbi cura di chiudere la porta.

Donna Luigina dal corridoio aveva seguito tutto, in fretta si rinchiuse nella cucina per dare ordini alla cuoca per la cena.

 

 

Quando nell’aprile del 1833 il re aveva visitato, dopo le province calabre, quelle di Messina, Palermo e Trapani, in quest’ultima, ad attenderlo, oltre a buona parte della nobiltà isolana, c’era Lucrezia in compagnia del marito e del cognato il frate passionista Leopoldo Calcara.  Sua Maestà , pur essendo padre di 13 figli avuti da due mogli, non disdegnava di ammirare le belle donne, e Lucrezia lo era! Al suo inchinarsi davanti al re, la baronessa notò come costui la guardava, cosa che difficilmente sfugge ad una donna e, prima di accomiatarsi dai suoi sudditi Trapanesi, si avvicinò a Lucrezia e si complimentò per la sua bellezza, mettendole in mano un minuscolo scarabeo di capodimonte. Questo ricordo era chiaro nella mente della giovane vedova, e giusto che le donne ne sanno una più del diavolo, pensò di recarsi dal suo re Ferdinando Carlo Maria, quasi a volergli rendere la visita.
Come farsi ricevere a corte? A chi chiedere sulle formalità? Quali fossero i protocolli da rispettare? Bisognava chiedere a chi abitualmente frequentava il palazzo reale.
Il padre di Lucrezia era stato imparentato col Conte Francesco del Balzo, dei Duchi di Presenzano, Maggiordomo di settimana e Gentiluomo di Camera di entrata del Re delle Due Sicilie. Scrisse un biglietto e lo inviò col suo cocchiere al Conte del Balzo, chiedendogli di riceverla. La risposta non si fece attendere e, una settimana dopo, il cocchiere del Conte Balzo consegnò nelle mani Donna Luigina una lettera che invitava Lucrezia a Palazzo del Balzo-Presenzano, nel cuore di Napoli ma non distante da Piazza Pebliscito dove è ubicato il Palazzo Reale.
Finito che ebbero di pranzare, Lucrezia comunicò a Tiberio Terrazzino della sua visita al Conte del Balzo parente del suo defunto padre, lo pregò di non recarsi nella sua tenuta di Boscoreale e di accompagnarla ma di rimanere, una volta varcato il portone del palazzo, giù nel patio, mentre lei avrebbe raggiunto il piano nobile accompagnata dalla sua dama di compagnia. Terrazzino se ne stiede muto ad ascoltare ma, i suoi occhi parlavano per lui e stavano a testimoniare un pizzico di disappunto.

 

 

Dal Vomero al centro storico la carrozza, per vicoli e vicoletti, impiegò più di mezzora.
La baronessa e la dama salirono il grande scalone, dove a metà percorso incontrarono l’anziano conte del Balzo accompagnato da un figliolo e da un paggio. Lucrezia accennò ad un inchino e fu invitata ad accomodarsi nell’immensa biblioteca del palazzo. Fiumi di ricordi del Conte e ricostruzione delle parentele comuni. Fu Lucrezia a spiegare che a Napoli era ospite di Tiberio Terrazzino con palazzo al Vomero e la Tenuta di Boscoreale, oltre alle due tenute nel trapanese, quella di Bellocchio e quella di San Giacomo, benestante non titolato, ma amico fedelissimo del suo defunto marito. Quando il Conte le chiese se fosse venuta solo in compagnia della dama, Lucrezia disse che Tiberio, era rimasto nel patio in compagnia del cocchiere. Il Conte impugnò un campanello e, prima di agitarlo interrogò Lucrezia:

-         Mia cara, se vi ospita, se vi accompagna, se era amico di vostro marito, e poi, con quello che possiede, perché lasciarlo in compagnia del cocchiere? Se vi va lo facciamo accomodare, mentre mi dite cosa posso fare per voi…

-         E’ una persona educata, ossequiosa, rispettosa e generosa, mai avrei accettato, altrimenti, la sua ospitalità. Conte del Balzo, se volete fatelo accomodare, non è nobile, ma è una persona degna.

Il Conte agitò il campanello ed un servitore ebbe l’ordine di accompagnare Tiberio Terrazzino in biblioteca. Dopo i convenevoli Lucrezia:

-         Signor Conte, voi ogni giorno varcate la soglia del Palazzo Reale, i vostri contatti con Sua Maestà sono quotidiani. Io lo incontrai con mio marito quando visitò le province siciliane. A Trapani ebbi modo di dialogare con lui e prima del commiato volle farmi un regalo.

Infilò la mano nella sua borsetta di pizzo nero e tirò fuori il piccolo scarabeo di capodimonte, lo porse al Conte:

-         Tenetelo, mostratelo a Sua Maestà, ricordategli che me lo ha donato a Trapani e, chiedetegli, se e quando lo ritenete opportuno, se mi concede una udienza. Io saprò aspettare, il tempo per me non è un parametro.

Il Conte intascò gelosamente il piccolo monile dopo averlo più volte ammirato.

-         Farò del mio meglio, Ferdinando Carlo Maria è un uomo buono, difficilmente dimentica due occhi come i vostri, riferirò e gli chiederò udienza per voi.

Terrazzino rimase stupito, Lucrezia al cospetto del re, a Palazzo Reale, non gli sembrò vero. Commiatatisi dal Conte i tre salirono in carrozza e nessuno pronunziò parola.

Tiberio, sceso dalla carrozza, porse il braccio a Lucrezia e la accompagnò al piano nobile. Messasi in libertà la baronessa  ritornò nel grande salone e sedette davanti al suo amato:

-         Tiberio, mi sono messa in mente che tu devi avere un titolo nobiliare e lo avrai!...vedrai, se Sua Maestà mi concede udienza, non uscirò dal Palazzo Reale senza avere ottenuto quello che voglio. Nessuno sa che io sono a Napoli ospite in casa tua, tranne Luigina ed il Conte del Balzo. Se ciò venisse alla luce scoppierebbe uno scandalo e tu ed io saremo sulle bocche della nobiltà del Regno delle due Sicilie, tante bocche, troppe bocche e, le nostra vita sarebbe un inferno! Io non voglio perderti ma, senza un titolo, la decisione di lasciarci renderebbe la vita ad ambedue meno tormentata.

-         Lucrezia, io sono un po’ confuso, forse ho difficoltà a capire, io non ti amo perché sei baronessa, io ti voglio soltanto sposare ma, se tu ritieni che io debba diventare un titolato, fai come tu ritieni sia giusto.

Lucrezia si alzò, si pose dietro la poltrona di Fabrizio, si chinò, gli cinse il collo e lo baciò sulla fronte:

-         Lascia che il Conte del Balzo mi dia notizia , mi recherò al cospetto di Sua Maestà e… che Iddio ce la mandi buona, chiederò un titolo per te, fosse anche di Cavaliere.

-         Mi daranno uno stemma e dovrò farlo riprodurre sui portoni di casa, sia a Napoli che a Palermo, sulle carrozze e all’ingresso della tenuta di Boscoreale.

-         Te lo farò ricamare sulle camicie, sulle vestaglie, sui fazzoletti e dove ci sarà di bisogno. Vedi caro, anche se i nobili dell’intero regno si tengono in piedi per sbaglio, perché non hanno più il becco di un quattrino, fanno sempre lucidare i loro stemmi, è l’unica cosa che conta!

Tiberio non disse più una parola ed avvertito da un cameriere che un suo fattore chiedeva udienza, si commiatò dalla contessa e scese giù per il grande scalone.
Dopo due settimane di attesa, Lucrezia cominciò a dare qualche segnale di irrequietezza, il Conte del Balzo aveva dimenticato del suo impegno, oppure Sua Maestà non aveva voglia di riceverla. Luigina cercava di farle capire che non bisognava spazientirsi e che i tempi di Corte a volte erano lunghi. 

 

Lucrezia, nervosa e scoraggiata, si immerse nella lettura di un piccolo testo sulla Cappella Sansevero che ospita capolavori come il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, conosciuto in tutto il mondo per il suo velo marmoreo che quasi si adagia sul Cristo morto, la Pudicizia di Antonio Corradini e il Disinganno di Francesco Queirolo. La cappella oltre ad essere stata concepita come luogo di culto, è soprattutto un tempio massonico carico di simbologie, che riflette il genio e il carisma di Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero, committente e allo stesso tempo ideatore dell'apparato artistico settecentesco della cappella stessa. Per una settimana di fila la visitò, la studiò e, tornando a casa volle spiegarla pazientemente a Tiberio Terrazzino che, colto com’era, una sera ne parlò con dovizia di particolari, tratteggiando le conoscenze e la cultura del Principe di Sangro, soprattutto del suo esoterismo e delle leggende che si raccontavano sul suo operato. Fu quella attenzione riverente che Tiberio mostrava per il Principe di Sangro che le fece venire un sospetto; suo marito era massone, ma ricco per quanto potesse essere Tiberio, difficilmente avrebbe potuto avere accesso continuo a Palazzo Calcara e il Barone Lucio non avrebbe concesso ad un non titolato di dargli del tu, di abbracciarlo e baciarlo sulle guance, mai avrebbe affidato del denaro a terzi per darlo in beneficienza, quindi Terrazzino non poteva essere che massone, e come il suo defunto marito e come il suo stesso genitore, tutti i venerdì, al calare delle ombre, si facevano accompagnare in un palazzo del centro, di proprietà della Curia Arcivescovile della città a celebrare le tornate. Bisognava chiedere a Tiberio se fosse massone?...e perché?... forse non glielo aveva detto perché non erano sposati o, forse perché era davvero di pochissime parole. Una sera nell’intimità Lucrezia:

-         Tiberio, scusa la domanda, il mio defunto marito era massone, voi vi davate del tu, vi baciavate tutte le volte che vi incontravate e vi separavate…

-         Pensavo lo sapessi già, da un po’ di anni. Tuo padre e tuo marito lo sono stati, io il martedì frequento una Loggia a Napoli, in Sicilia, andavamo con tuo marito di venerdì.

-         Ecco perché sei erudito sulla Cappella Sansevero.

-         Napoli e Palermo sono piene di simboli massonici, frontespizi dei palazzi, blasoni, fregi, gioielli portati da molti nobili, portoni e battenti in metallo. Tendiamo, attraverso la conoscenza, di migliorare noi stessi al fine di migliorare la società. Mettiamo in atto la tolleranza, il rispetto per le idee altrui anche se sono in antitesi con le nostre. Libertà, Fratellanza ed Uguaglianza sono i nostri obiettivi e poniamo sempre l’uomo al centro dell’Universo. Amiamo parlare, ma ci piace molto di più ascoltare e ci consideriamo eterni scolari che hanno bisogno tutti i giorni di apprendere.

Lucrezia gli turò la bocca con le sue labbra e, avvinghiati trascorsero la notte.
Le prime foglie degli platani cominciavano a cadere, l’autunno incedeva a passo lesto e anche il Vesuvio pian piano ingialliva. Donna Luigina, ad onta dell’ora mattutina, bussò in maniera concitata all’uscio della camera della Baronessa e, consegnandole una lettera:

-         L’ha portata un servitore del Conte del Balzo, raccomandando di consegnarvela immediatamente.

-         Grazie Donna Luigina, avete fatto bene, mi ero appena svegliata, Tiberio è andato via che era ancora buio, a Boscoreale è già vendemmia. Farò in fretta, faremo colazione giù nel grande salone.

Uscita Donna Luigina, Lucrezia aperse la lettera che ne conteneva una seconda che portava sul frontespizio lo stemma dei Borbone e la scritta: “UDIENZA DEL DIECI OTTOBRE”. Nella lettera a firma del Conte del Balzo erano spiegate le modalità, gli orari (le undici del mattino), alcuni particolari, ma soprattutto la presenza senza alcuna dama di compagnia e i colori degli abiti non graditi a corte, il verde acceso ed il marrone in ogni tonalità. La lettera conteneva anche una raccomandazione, quella di non aprire la seconda busta che portava all’interno un cartoncino col nome del richiedente udienza e quello del suo segnalatore. Lucrezia rilesse una seconda volta tutto e, considerato che mancavano otto giorni all’udienza, dopo colazione iniziò a pensare a vestito, monili, calzature, acconciatura e quant’altro. Nel pomeriggio informò Tiberio e, come se la sua supplica fosse stata accolta, cominciò ogni pomeriggio ad istruire il suo amato per una eventuale investitura a corte.
La mattina del dieci ottobre, Napoli era baciata da un sole caldo, il cielo era corrusco ed una brezza leggera portava con se un tenue odore di mare. Lucrezia, in un completo nero, guarnito soltanto di piccolissime perle, salì sulla carrozza tirata a lucido in compagnia di Donna Luigina e si ritrovò alle dieci e quaranta minuti davanti alla porta carraia del Palazzo Reale. Il cocchiere la fece scendere e attese pazientemente a Piazza del Plebiscito. La baronessa tirò dalla sua borsetta la busta con lo stemma dei Borbone e la mostrò al capitano delle guardie, che la precedette per le scale e la fece accomodare nella sala antistante il salone delle udienze, prese la busta e la consegnò ad un paggio, si inchinò alla baronessa e le disse sommessamente:

-         Di grazia, oggi l’udienza sembra essere soltanto per la signoria vostra, non ci sono altri, di solito questa sala d’attesa è piena. Un segretario di corte vi accompagnerà al cospetto di Sua Maestà, scusate, io torno al posto di guardia.

 

Un orologio scandì le undici e da una porta laterale un cortigiano in livrea invitò la baronessa a seguirlo. Sua Maestà era seduto sul trono, quando Lucrezia varcò la soglia di quella sala, di fermò, chinò il capo e si inginocchiò. Il Re fece cenno ai servitori di uscire, si alzò e invitò Lucrezia ad avvicinarsi. La fissò negli occhi, poi aprì la mano che conteneva il piccolo monile in capodimonte, lo porse alla donna:

-         Indossatelo, come avete fatto a Trapani il giorno che ci siamo incontrati, la luce dei vostri occhi è viva come allora, nulla è cambiato e voi siete rimasta quello splendore che eravate allora, identica a quella gran donna di vostra madre.

-         Maestà, voi mi fate arrossire.

-         La natura con voi è stata molto generosa, lasciate che faccia un apprezzamento su di voi da popolano, “vuje site nu zucchero, na bambulilla e Capemonte!”

Lucrezia abbassò il capo e Ferdinando le prese ambedue le mani, la strinse a se e, quando lei poggiò il capo sul petto del Re, costui con dolcezza le baciò i capelli.
Lucrezia aveva capito che sarebbe bastato poco a squinternare la mappa ormonale di Ferdinando e, siccome aveva un obiettivo a cui non avrebbe mai rinunciato, si lasciò corteggiare e carezzare dal Re.

-         Baronessa Mazzi Raitano di Calcara, oggi ho concesso udienza soltanto per voi; quando il Conte del Balzo mi parlò di voi e mi mostrò il piccolo scarabeo che vi avevo donato, ebbi il desiderio di rivedere voi ed i vostri occhi. Vi prego, esponetemi il motivo della vostra supplica.

-         Maestà, io sono ospite qui a Napoli…

-         Fermatevi, so della vostra amicizia con Tiberio Terrazzino, conosco ogni particolare, il Conte del Balzo, grande amico e fedelissimo della corona, mi ha informato di tutto, anche del rapporto sentimentale che c’è tra di voi. Cosa volete, sia Palermo che Napoli sono due città ciarliere, dove tutti sanno tutto di ognuno. Non vergognatevi di amare un non nobile, da buon padre di famiglia ne sarei felice, da nobile dovrei dirvi che ciò sarebbe disdicevole e contrario alle regole. Sono stato informato di tantissime cose sul vostro innamorato, sulla gente che frequenta e sui principi su cui ha basato la sua vita. Ora chiedetemi cosa volete che io faccia.

-         Maestà, Tiberio Terrazzino non ha un blasone, se lo sposassi, la mia vita di società sarebbe un inferno, soprattutto per le relazioni sociali. Vostra Maestà, testé ha distinto tra padre di famiglia e nobile, io voglio sposare Tiberio, ma mi occorre un titolo nobiliare per lui.

-         Nulla di più semplice, vi chiedo soltanto un sacrificio.

-         Maestà, disponete della mia persona.

-         Conservate le grazie per il vostro amato, io voglio rivedere soltanto la luminosità del vostro sguardo, nominerò Tiberio Terrazzino Barone di Boscoreale. Attendete ora nella sala antistante per qualche minuto, un mio segretario vi consegnerà una busta che presenterete al capitano delle guardie esattamente fra quindici giorni, alle ore undici del venticinque di ottobre, terrò udienza soltanto per voi, vi consegnerò personalmente la pergamena che attesta il titolo e lo stemma che potrà apporre dove crede.

Lucrezia stava per inginocchiarsi ma il re le riprese entrambi le mani e gliele baciò, poi suonò un campanello e disse a due servitori:

-         Accompagnate la Baronessa in sala d’attesa, mandatemi un segretario in biblioteca.

Ferdinando Carlo Maria di Borbone scomparve per uno dei corridoi, Lucrezia si accomodò nella sala antistante e dopo pochi minuti il segretario del Re le consegnò la nuova busta con il nuovo invito “UDIENZA DEL VENTICINQUE OTTOBRE  - presso la Regia di Caserta”. Perché a Caserta? Lucrezia si diede solo una spiegazione, il Re le avrebbe concesso quanto richiesto, ma il prezzo sarebbe stato quello di concedersi a Sua Maestà, lontani da occhi indiscreti, lontani da moglie, figli e cortigiane, infilò la sua busta nella borsetta e, preceduta  da un paggio, guadagnò l’uscita dove pazientemente l’aspettava la sua dama di compagnia sulla carrozza.

 

Terrazzino venne informato dalla baronessa nei piccoli particolari, compresa l’udienza promessa a Caserta. Napoli -  Caserta, una quarantina di chilometri di una buona strada, percorribile in carrozza in 4 – 5 ore, bisognava partire alle cinque del mattino per essere puntuali.

Il mattino seguente, il  solito servitore del Conte del Balzo portò una lettera per Lucrezia che consegnò a Donna Luigina. Quando la baronessa apri la lettera, prese fiato prima di leggerla, Sua Maestà le chiedeva scusa per il disagio e, considerata la distanza, Lucrezia era invitata a Caserta per il giorno ventiquattro  nel pomeriggio, sarebbe rimasta ospite nella reggia, l’indomani avrebbe avuto l’udienza ricevendo la pergamena promessa e se avesse voluto, sarebbe potuta ripartire in mattinata del giorno ventisei.  Ripose la lettera e si convinse di avere la certezza che quel titolo di nobiltà sarebbe costato il prezzo del suo corpo per due notti. Aspettò due giorni prima di parlarne con Tiberio, dovette smaltire prima una buona dose di nervosismo.

Alle tredici del ventiquattro ottobre Lucrezia partì da Napoli in compagnia della sua dama di compagnia, alle diciotto in punto la carrozza fu fatta entrare nella Regia di Caserta e, mentre qualcuno prelevò le due dame e le portò al piano nobile, il cocchiere fu accompagnato nelle scuderie, staccò i cavalli e infilò nei box, poi si unì alla servitù. Lucrezia e Luigina ebbero due camere in corridoi diversi, ciò fece ancor di più supporre alla baronessa sulle intenzioni del Re. La cena fu servita in camera e immediatamente dopo, un servitore, dopo aver bussato, avverti Lucrezia che  il Re l’attendeva giù, ai piedi del grande scalone per recarsi nel giardino
     -   Maestà, vi ho fatto attendere ai piedi di questo Scalone?

-         Per nulla baronessa, io di solito non ceno, piglio soltanto una tazza di latte e, mentre gli altri lottano con le portate di una tavola ricca, io mi godo la bellezza di questi giardini, di queste fontane, del rumore dell’acqua che scendendo a valle gorgoglia. Di solito lo faccio da solo, stasera lo farò con voi che siete tanto bella e, mentre parliamo, coglierò i raggi della luna nei vostri occhi.

Non disse più una parola Lucrezia, passeggiò attaccata al braccio del Re ammirando quell’esterno al lume di una luna piena e delle mille fiaccole che tremolavano alla brezza. Il Re si fermò:

-         Siete stanca?

-         No Maestà, ma se volete, ritorniamo indietro.

 

I due cominciarono a percorrere la via del ritorno, e quando furono entrati a palazzo, una dama si impadronì di Lucrezia e l’accompagnò nella sua camera. Lucrezia, stanca com’era, si preparò per la notte, nel dubbio che il Re volesse giacere con lei, non fermò l’uscio e cadde in un sonno profondo.

L’indomani il sole era già alto, Donna Luigina bussò alla camera di Lucrezia e notò che non era stata fermata dall’interno e, da donna vissuta pensò che Ferdinando avesse giaciuto con la sua baronessa, fece una piccola smorfia ma poi sorrise, pensando ai benefici che ne avrebbero potuto trarre. Svegliata si chiese che ora fosse, e quando seppe che mancava un’ora grassa all’udienza, si diede da fare ed indossò un abito verde scuro con passamaneria oro molto scollata e un quarto alle undici di presentò davanti la stanza del trono. Puntualmente il re la ricevette solo soletto, ammirò i suoi occhi, il suo vestito ma soprattutto il suo audace decollettè.

-         Siete ogni giorno più bella baronessa, avete dormito lasciando aperta la porta della vostra camera, di questo vi ringrazio, mi avete messo su un piatto d’argento il vostro corpo, io non avevo nessuna intenzione di approfittare di un vostro bisogno. Se io avessi giaciuto con voi, avrei disprezzato il regalo che sto per farvi, un titolo nobiliare per il vostro futuro marito. In ogni momento, con grande rimorso per la vostra coscienza, avreste pensato che il blasone di vostro marito è stato la contropartita ad una notte di sesso. Che figura sarebbe stata per un Re, e voi nel tempo mi avreste disprezzato, pur sorridendomi ed inchinandovi al mio passare.

Non disse una parola la baronessa, abbassò il capo ed attese che il Re le consegnasse la pergamena. Si inginocchiò e disse:

-         Grazie Maestà. Grazie per questa pergamena, grazie per la vostra generosità, grazie per la lezione che mi avete dato, Voi siete un galantuomo, un uomo di immenso prestigio, un uomo di parola e, soprattutto, un buon padre di famiglia.

-         Alzatevi baronessa, alzate lo sguardo affinché io possa ancora cogliere la luce dei vostri occhi. Ora andate e godetevi tutta la felicità che vi è dovuta.

Lucrezia si commiatò dal Re, ritornò a Napoli e appena dopo Natale sposò il Barone Tiberio Terrazzino.

 

 
 

 

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