mercoledì 26 dicembre 2012

LA BURLA












Tratto dal romanzo IL MATTO di Mario Scamardo




LA BURLA




In fondo al viale alberato che porta al lago, coperta dai rami di fitti alberi di noci, si intravede una casetta molto piccola, appena un paio di ambientini a piano terra ed una mansarda, tutta dipinta in bianco. Il tetto è realizzato in tegole marsigliesi color mattone, dove svettano in maniera simmetrica due piccoli abbaini ed un comignolo con in cima un galletto di latta. Un cancelletto in ferro battuto, permette l’accesso ad uno stretto viale ben curato e lindo che porta sotto i fitti noci. Davanti l’ingresso della villetta, una lunga e robusta panca in castagno ed un paio di sedie a dondolo, di ottima fattura e affacciate tra loro. Sui pali di recinzione, tutt’attorno, tanti piccoli giocattoli o parti di essi: vagoni di trenini, bamboline, il coperchio di un tamburo di latta, un vecchio Pierrot in pezza, un paio di cerchi, i resti di un triciclo, un Pulcinella con due marionette senza nome ed altri rottami, tanti, da eccitare la fantasia dei passanti. Qualcuno pensava che quel luogo potesse essere il cimitero delle bambole o, addirittura, quello di tutti i giocattoli, un luogo incantato che suscitava il mistero e con esso la curiosità, la paura, la diffidenza. Il giardino incantato qualcuno lo definì, dove il tempo poteva fermarsi, consentendo alla fantasia di galoppare ed al sogno di realizzarsi.
       Ignazio, il proprietario della villetta era un uomo dai comportamenti inconsueti, nessuno conosceva la sua età, forse cinquant’anni, forse sessanta, ma sembrava senza tempo. Non lo si vedeva mai in giro, tranne che per le commissioni necessarie, ritirare la posta dalla cassetta situata sul montante del cancelletto, fare la spesa, recarsi di tanto in tanto in banca e qualche volta in chiesa, ad ore insolite, quando non c’erano funzioni.
       Ignazio vestiva in maniera insolita, talvolta indossava pantaloni con il cavallo basso alla turca o alla cavallerizza, con stivali neri e lucidi. Non andava a cavallo, non ne possedeva uno, e nei paraggi non esisteva alcun maneggio. Calcava enormi cappelli di paglia in estate ed altri di feltro, a tese larghissime nei colori più azzardati, durante l’inverno. Tutto ciò gli fece meritare l’appellativo di “matto”, per cui la sua casa diventò nel tempo la casa di Ignazio il “matto”, in realtà egli si chiamava Rossi.
       Molti ragazzi passavano sbirciando tra le sbarre del cancello, lanciavano un ranocchio o un sasso nel viale, facevano gli scongiuri e tiravano innanzi. Ignazio si accorgeva della miseria in cui erano cresciuti quei giovani e scuoteva fortemente i pali della recinzione, facendo muovere i giocattoli, come per dire che anche se rottami, riuscivano ancora a offrire sensazioni, mentre l’ignoranza e la mediocrità schiavizzavano, riducendo l’uomo a marionetta, atta a ripetere sempre gli stessi gesti senza capirne il motivo, solo e soltanto per uniformarsi alla massa, solo per spirito di emulazione. Alcune signore, quando lo incontravano al supermercato, all’ufficio postale o in banca, abbozzavano piccoli e beffardi sorrisi e gli cedevano il turno, non tanto perché eccedevano in cortesie nei suoi confronti, quanto per avere il tempo di osservarlo per bene, negli atteggiamenti, nelle movenze, nel linguaggio, nel vestiario e poi, una volta lontano dai loro occhi, per poter trovare le parole false di commiserazione per il “matto”.
       Ignazio accettava i falsi atti di cortesia e, per ringraziare le signore, accennava, a sua volta, ad un piccolo inchino e con due dita toccava la tesa del suo cappello. Altre signore invece incontrandolo, mostravano di avere molto rispetto per il suo decoro, per il suo perbenismo e per la riservatezza, allora Ignazio, intuendo ciò ricambiava la stima con atti continui di cavalleria, cedeva loro il passo inchinandosi, cedeva il suo posto nelle file, si premurava ad aiutare loro a portare qualche involto o chiamava per loro un taxi. Una collettività spaccata in due, due culture diverse, una pregna di ignoranza e di pregiudizi, l’altra colta e tollerante.
       Nessuno sapeva come e di cosa vivesse Ignazio, ma egli era stato sempre autonomo e non era mai ricorso all’aiuto di qualcuno. Nessuno era mai entrato nella sua casa, tranne l’elettricista per mettergli a posto un guasto. Non era rimasto dentro più di mezzora, ma tutti in paese sapevano come era fatta la sua casa, come erano disposti i suoi mobili, i suoi quadri e la batteria di pentole di lucido rame attaccate alla parete del piccolo vano cucina, anche nei piccoli particolari più insignificanti, e tutti sapevano che la mansarda era occupata da un immenso numero di libri, per tutte e quattro le pareti e fino al tetto. Al centro c’era solo un tavolo grande, proprio tra gli abbaini, con sopra due lampade, due scrittoi, due calamai colmi d’inchiostro, due penne, ed al centro del tavolo vi era posto un grosso leggio con la Bibbia aperta sul Vangelo di Giovanni.
       Il “matto” passava le sue giornate tra la sua mansarda da dove, attraverso gli abbaini scrutava il mondo attorno a se e le sedie a dondolo davanti l’uscio di casa.
       Due stanzette a piano terra, due scrittoi con due calamai in mansarda, due sedie a dondolo davanti l’uscio, eppure Ignazio era solo, solo con se stesso, solo con i suoi libri, solo con i suoi vecchi giocattoli che vedeva sempre girandosi attorno, attaccati ai pali della recinzione. Strano tutto ciò, la fantasia dei suoi concittadini si sbizzarriva trovando soluzioni a tutti gli interrogativi. Qualcuno lo immaginò in coppia con una donna troppo bella che non si vedeva perché succube della sua gelosia, qualcun altro pensò che la sua compagna avesse l’aspetto d’un mostro e che fosse tenuta legata ad una catena fissata ad un anello piantato nel  pavimento, qualcuno ancora pensò al suo sdoppiamento ed alla sua capacità di bilocazione, fino al punto da fargli dividere la casa con quel demone che guidava la sua pazzia e che si materializzava di notte, i più intelligenti, per la verità pochi, pensarono che si confrontasse col suo alter ego.
       Niente di tutto ciò, Ignazio viveva da solo ed usava le due sedie a dondolo affacciate, una fino a mezzodì, quando il sole era allo zenith, quella che dava le spalle ad oriente, per poter leggere o lavorare senza avere il sole negli occhi, l’altra, quella che dava le spalle ad occidente, la usava dopo mezzodì, per lo stesso motivo, e così era per gli scrittoi in mansarda. Degli abbaini, affacciati tra loro, sfruttava la luce che entrava, evitando che l’ombra del suo corpo potesse oscurargli il piano di scrittura. Nella casa del “matto” tutto poteva sembrare strano, ma tutto aveva un posto ed una funzione, persino la lunga panca di castagno davanti all’uscio che gli serviva da bancale per la invasatura dei gerani dai colori più svariati che ornavano i davanzali delle finestre, gli abbaini, i vialetti e tutt’intorno la villetta. Quando non invasava i gerani la lunga panca veniva usata anche per stendervi ad asciugare le stuoie che ricavava intrecciando le fibre della palma che cresceva rigogliosa dietro la casa. Ignazio per i gerani aveva una cura particolare, ogni anno li trapiantava e li rinnovava, ed ogni anno i suoi vasi erano fioriti in maniera quasi eccessiva e ai pochi che gli chiedevano perché i suoi fiori fossero così rigogliosi rispondeva:
- Ama il prossimo tuo come te stesso!
       Non capendo l’attinenza con i gerani, la gente girava i tacchi e mentre andava via sentiva Ignazio che gridava:
- Sono il mio prossimo i miei gerani!
        Poi soddisfatto ridacchiava e dava una scrollata ai pali della recinzione, facendo si che i giocattoli che vi erano appesi si muovessero e partecipassero anche loro alla soddisfazione che gli dava l’allontanare la gente che riteneva curiosa, intrigante, ignorante e cattiva. Aveva visto tante volte la gente che si avvicinava alla staccionata, mentre cercava di staccare un ninnolino o parte di esso per servirsene come amuleto. Quando non vi riusciva, tirava fuori un ferro di cavallo, un corno rosso, un minuscolo gobbo, lo strofinava sulla ringhiera e lo conservava gelosamente. Ciò dall’origine dei tempi è servito all’uomo a scongiurare le proprie paure, riponendo la fiducia in qualcosa che potesse rendere forte l’individuo. Forse il pentacolo che il “matto” portava al collo, aveva innescato nella mente di alcuni suoi concittadini l’idea che potesse essere un operatore dell’occulto o, addirittura un mago impazzito, quindi agli ignoranti faceva paura, incuteva terrore, allora bisognava schermarsi. Il pentacolo per eccellenza è la stella a cinque punte, prodotto dallo sviluppo di un pentagono, prolungandone i lati. Detta stella, con una sola punta verso l’alto, rappresenta l’uomo, il microcosmo, le cinque piaghe di Gesù, i cinque elementi, aria, acqua, terra, fuoco ed etere. Se capovolta la stella, con due punte verso l’alto, rappresenta il male e diventa simbolo per il satanismo, usata in pratiche di magia nera e di stregoneria. Ciò che impressiona della magia è la pretesa di sottomettere Dio, angeli e demoni, le forze della natura e l’uomo ai voleri del mago. Tale aspetto marca in maniera forte come, quanto promesso dalla magia, non si leghi con la condotta morale di vita dell’uomo. Tra i testi che Ignazio divorava c’era un trattato sulla magia, egli lo aveva letto, non lo aveva mai ripreso e giaceva impolverato in cima ad una pila di altri libri tra i quali uno sui tarocchi e le profezie di Nostradamus. I sedicenti maghi distinguono i tipi di magia, in funzione del fine da raggiungere. La magia bianca, che servirebbe a proteggere lavoro, salute, attività economiche, vita familiare. La magia rosa o rossa riguarderebbe l’amore da conquistare o separare e la sfera sessuale. La magia nera, praticata per nuocere, distruggere nemici, procurare disastri, vendette, contrasti, malattie e  morte. La magia viola affronta una vetusta filosofia della morte, la Grande Madre. Alla magia verde, non molto conosciuta, è legata l’alchimia, dall’arabo al-Kimiya, forse dal greco chyma, (fusione dei metalli). Scienza molto antica, praticata in parecchie zone del mondo allora conosciuto, tendeva a perfezionare i fini della natura, trasformando ogni metallo in oro, e garantendo all’uomo persino l’immortalità.
       Ignazio aveva maturato il pensiero che se l’uomo si spinge verso l’occulto cercandosi un mago, allora i suoi fustigatori diventano: la curiosità, la disperazione, il desiderio di onnipotenza, la mancanza di sicurezza e, per le proprie certezze e speranze, ha la necessità di chiedere conferma. Altri fustigatori sono la solitudine ed il vuoto attorno a se. Da credente, accantonava tutto ciò, sedeva all’ombra di un noce e meditava sulla capacità dell’uomo di spiegare i fenomeni che gli stanno attorno.  Dava un grande ruolo alla casualità, per cui bisognava pensare alle cause che producono i fenomeni, senza che esse si vedano per forza, indispensabile è  pigliare conoscenza degli effetti. Risalendo alla Natura, Ignazio era capace di arrivare ad una Intelligenza, ad una Mente Cosmica, ad un Organizzatore Universale, ad un Essere Supremo. Le sue puntate ad ore insolite in chiesa, quando non c’erano le funzioni, quando c’era pochissima gente o, meglio, nessuno, gli davano l’opportunità di meditazioni serene, senza essere distolto da cicalecci, sguardi o quant’altro che non gli permettesse di studiare il simbolismo contenuto all’interno. Si interrogava spesso Ignazio su cosa fosse una religione, ed aveva maturato che non era tradizione pura, sentimento puro o culto fine a se stesso. Essa era un insieme di atteggiamenti e di idee nei riguardi della Causa Causante, dove l’uomo riconosce se stesso dipendente dalla divinità mantenendosi in relazione con essa.
       Di quanto pensasse la gente di lui, il “matto” lo sapeva, l’aveva colto da atteggiamenti, piccoli gesti, scorci di discorsi captati, anche se ciò lo irritava molto, trovava la forza di non esternare la sua rabbia, tranne che nello squassare la staccionata. Da tanto tempo pensava ad una vendetta, ma voleva che fosse geniale e di grande effetto.
       Una sera Ignazio serrò le imposte della sua villa, irrigò abbondantemente le sue piante, uscì sulla strada con una valigia, si tirò dietro le spalle il cancello, calzò un cappello di feltro a tese larghe di colore grigio fumo e, a piedi, si avviò verso la stazione ferroviaria. Per giorni e giorni regnò il silenzio nella villa e non si vide muovere una foglia, non si aprì un’imposta, non fu accesa una luce. Ognuno che passava guardava dentro e, senza timore che il “matto” potesse dir qualcosa, curiosava con il naso tra le sbarre del cancello. Ignazio aveva forse una famiglia ed era andato a trovarla, forse un fratello lontano, forse un amico chissà dove, oppure si era ammalato gravemente e se ne stava ricoverato in un ospedale, tutto ciò pensava la gente, e ne parlava. Un mattino furono notati, attaccati ai muri della cittadina, dei manifesti di necrologio, tutti si fermavano a leggere: “Serenamente si è spento Ignazio Rossi, i parenti ne danno notizia. Non fiori ma opere di bene”. Per un poco di giorni si parlò del “matto” e della sua dipartita, la presenza di qualche sconosciuto in giro fece pensare a familiari, venuti nella cittadina forse per sistemare quanto c’era da fare dopo la sua dipartita.
       Dopo qualche settimana la gente passava davanti al cancello e quasi non sbirciava più, non si muovevano i pali della recinzione e nemmeno i giocattoli, ma non ingiallivano le piante, specialmente i gerani erano sempre più rigogliosi ed il terreno era umido. Nella casa sembrava non esserci anima viva, non si erano più aperte le finestre degli abbaini, non più le imposte a piano terra, non più il cancello, mai più una luce accesa, eppure quei gerani qualcuno doveva innaffiarli.
       Era passato quasi un anno dal momento in cui Ignazio era uscito da quella casa con la valigia ed era andato alla stazione ferroviaria, e di lui in paese non si parlava più.  Una mattina qualcuno passò, guardò verso la villetta dal cancello aperto e vide le luci del piano terra accese e le imposte degli abbaini aperte. Cosa pensare se non ad un nuovo inquilino e, quando la curiosità lo portò a spingersi un poco al di la del cancello, sentì lo squassare dei pali della recinzione ed il rumore dei giocattolini, saltò fuori in strada si diede a correre a gambe levate e a gridare. Di li a poco un bel po’ di gente fece ressa davanti alla villa, e Ignazio, quando li vide, uscì fuori col suo cappello di paglia chiaro a larghe tese ed i suoi pantaloni alla turca, si affacciò sulla strada e disse:
- Perché tanta curiosità, io non vi ho invitati, ma, se volete entrare accomodatevi!
       La gente si tirava indietro, come se fosse davanti ad un fantasma, il “matto” aggiunse:
- La mia morte vi ha soddisfatto certamente, avete gioito quando vi siete liberati di me, io guardavo i vostri visi compassati e bugiardi che ostentavano pietà davanti al necrologio! Falso, tutto falso, travestito in mezzo a voi ascoltavo storie fantastiche che mi vedevano protagonista, ma erano inventate da voi, mi avete fatto fare delle cose orribili con le vostre fantasie bacate, mi avete fatto ingoiare bambini in un sol boccone, avete giurato di avermi visto contemporaneamente in due e più luoghi diversi, avete assistito, nelle notti di luna piena, alla crescita dei peli sul mio corpo e all’allungarsi delle unghie delle mie mani, e avete visto allungare i miei canini ed azzannare la gente per la strada, tutto frutto delle vostre frustrazioni, della vostra ignoranza, della vostra cattiveria. Io non sono morto! Mi sono burlato di voi, vi ho sorpreso mentre volevate rubare i miei gerani, di notte, ma vi ho dissuaso con dei rumori e, dal buco della serratura, qualcuno voleva sbirciare dentro per scoprire il mistero di una moglie mostruosa incatenata al pavimento.
        Si avvicinò alla piccola folla :
- Toccatemi, non sono un fantasma, sono vivo e vegeto, sono io, Ignazio il “matto”, il mago, lo stregone, il lupo mannaro, il mangia bambini, l’azzannatore!
        La gente stupita si allontanava quasi con vergogna. Un fanciullo di circa sei anni lasciò la mano della madre e corse verso Ignazio, lo abbracciò alla cintola e gli chiese:
- Quando mi ripari il mio orsacchiotto a cui si è staccato un braccio?
        Ignazio si chinò prese in braccio il bambino che lo guardava con gli occhietti dolci, lo baciò su una gota rosea e pasciuta, poi gli rispose con estrema dolcezza:
- Portami il tuo orsacchiotto, lo cureremo, gli attaccheremo il braccio e tu tornerai ad averlo amico, dormirà con te nel tuo letto, ti farà compagnia di notte.
        Baciò nuovamente il bambino sulla guancia, lo pose a terra.
 - Ora va dalla tua mamma e quando passi da qui continua ad accarezzare i miei gerani, diventeranno più belli, le piante si nutrono anche dell’innocenza e della tenerezza dei bambini.
       Si tolse il cappello, lo pose in capo al fanciullino e gli disse:
 - Tienilo, te lo regalo, portami i tuoi giocattoli rotti e quelli dei tuoi compagnetti, quando vorrai, li accomoderò tutti.
       Gli poggiò la sua mano sulla guancia e lo accarezzò con tenerezza, poi rincasò e ripigliò la vita di sempre.





Ottima lettura!






mercoledì 12 dicembre 2012

LA FAVOLA DI NATALE - IL FRATE DELLA KUMETA







     Il racconto, la fiaba, la storiella, comunicano una informazione completa su fatti realmente accaduti o inventati, affidando esclusivamente al potere evocativo della parola la rappresentazione, di ciò che si racconta, nella mente di chi ascolta. Essi sono una pura costruzione verbale, non hanno altro sostegno che parole di un lessico proprio ed esclusivo.
     Nessun'altra forma di comunicazione verbale è così carica di potenzialità come il racconto; esso è insostituibile mezzo di sviluppo mentale e linguistico insieme.

Tratta da IL FAVOLIERE di Mario Scamardo e Sara Riolo - ed. ila palma








IL FRATE DELLA KUMETA




     L'autunno ingialliva le foglie e il vento le trasportava per ogni dove. Sulla vetta del monte Kumeta, l'eremita frate Anselmo, si affrettava ad accatastare dentro la sua grotta quanta più legna poteva. L'inverno era prematuro e rigido, spesso la neve ghiacciava e l'anfratto,dove era sistemato il monaco, per porta aveva solo un telaio di vecchie assi, ricoperto di canne intrecciate coi giunchi che crescevano lungo il torrentello che scorreva a valle.
     Gli unici compagni dell'eremita erano due capre e un cane da pastore che lo seguiva ormai da tempo. Frate Anselmo da circa vent'anni non scendeva dalla montagna, ma la gente lo andava a trovare sovente, soprattutto in compagnia dei bambini, e parlava con lui, si confidava, chiedeva consigli e preghiere, distogliendolo dal suo meditare, e gli portava in dono alimenti, frutti della terra e capi di vestiario. Quando era prossimo il Natale, la grotta si riempiva di doni che il frate destinava agli orfanelli che venivano ospitati nel convento di Muffoletto ad opera di alcuni frati questuanti, e che ogni anno, in prossimità della Natività, venivano accompagnati sulla Kumeta per visitare il presepe che il frate allestiva con le figurine ricavate da tronchetti in legno scolpito o in cartapesta e in argilla lasciata cuocere accanto al fuoco.
     Il presepe era suggestivo, la semplicità del frate si coglieva dalla semplicità dei suoi personaggi e dall'amore con cui veniva curato l'allestimento; i fanciulli estasiati ascoltavano la sua parola che li immergeva nell'atmosfera mistica dell'avvento del Salvatore.
     Non ci voleva molto per arrivare in cima, meno di un'ora, andando su per uno stretto sentiero da dove si coglie il panorama stupendo delle valli attorno, e si ha ragione della laboriosità degli abitanti dei luoghi; i campi tutti arati, i vigneti rigogliosi, i giardini stracarichi di frutta e i prati colorati rosso scarlatto dai papaveri.
     Il silenzio avvolgeva la cima della montagna; dentro la grotta regnava un'ordine certosino: un pagliericcio, due pietre affumicate con sopra un vecchio paiolo di rame, un paio di scodelle in metallo, due brocche d'argilla cotta piene dell'acqua che sgorgava appena fuori dall'anfratto, una panca tirata da un vecchio ceppo, e in un angolo un grande Crocefisso in rame con sotto una lucerna ad olio accesa. Su due panche, all'interno, erano sistemati una ventina di volumi; su di essi una Bibbia aperta sul Vangelo di Giovanni e, sopra, un rosario realizzato con i noccioli di olivo. In fondo all'anfratto entrava la luce da un crepaccio, e quando frate Anselmo bruciava la legna per riscaldarsi o per prepararsi una minestra, vi usciva fumo copioso, tanto da far sembrare la cima della Kumeta il cratere di un vulcano.
     L'inverno incalzava rigido, mancava poco al Natale. La neve venne più copiosa a ricoprire la valle. Il sentiero che porta alla grotta fu ricoperto anch'esso, e il frate non potè più uscire all'aperto.
     Era una notte di plenilunio, gli ultimi fiocchi di neve erano planati dolcemente sullo strato formatosi durante il giorno, il vento aveva smesso di soffiare e frate Anselmo, al lume di una stearica, aveva smesso di leggere il breviario, aveva dato uno sguardo alla valle e segnandosi, si era disteso sul pagliericcio, mentre si consumavano gli ultimi ceppi tra le due pietre affumicate.
     Un sonno profondo lo colse e sognò di scendere giù per il costone, portando con se un pò di provviste e una brocca colma di latte di capra, fino al santuario arroccato sul fianco del monte Jato. Il monte nell'antichità si chiamava monte San Cosmano, proprio per la presenza del romitaggio dedicato ai due dottori della chiesa, i santi Cosma e Damiano. Giunto sul posto, poggiò sulla soglia della chiesetta la brocca col latte e le provviste, ed entrò.
     La cappella era tutta illuminata. I ceri brillavano e si coglieva un'intenso profumo d'incenso. Frate Anselmo si girò attorno per scrutare se ci fosse qualcuno, ma oltre all'icona raffigurante l'Annunciazione della Vergine ed il grande Cristo deposto in cartapesta, non c'era anima viva. Sentì solamente un canto soave di fanciulli. Qualcuno dunque doveva esserci, non era possibile che la cappella fosse deserta. Che ne era stato dei frati? E tutti quei ceri da chi erano stati accesi? Si inginocchiò davanti all'altare e si mise a pregare, pregò tanto intensamente da non avvertire più il crepitio dei ceri accesi, e non sentì più il canto, si segnò alzandosi, ma quando fu sull'uscio, notò un uomo disteso a terra che si contorceva dal dolore, e sanguinava dalle mani. Andò verso di lui ma non riuscì a raggiungerlo, più gli andava incontro e più l'uomo era lontano. Tornò mesto sulla soglia della piccola chiesa per ripigliare la brocca col latte ed il suo tascapane con le provviste, ma li trovò vuoti. Qualcuno aveva preso il contenuto, forse l'uomo ferito del sagrato, o chissà chi, ma frate Anselmo ne fu contento, sorrise e si destò dal sonno. Una delle sue caprette lo aveva svegliato strofinandogli la barba sul viso.
     I primi raggi di un sole fioco entrarono nell'anfratto e il monaco, scoscate le coperte, si alzò, tirò a se il vecchio telaio ricoperto di canne intrecciate e ringraziò Iddio per avergli concesso di vedere un nuovo giorno. Fuori era freddo e bisognava accendere il fuoco, mungere le capre, dar da mangiare al cane e sistemare sulla volta della grotta qualche canna che portasse all'esterno le gocce d'acqua che si infiltravano.
     Frate Anselmo si diede un gran da fare per realizzare il suo programma giornaliero, ma ogni tanto si fermava e rifletteva sul suo sogno fantasioso, poi si affacciò e guardò in direzione del santuario dei santi Cosma e Damiano. Non si muoveva anima viva, la coltre bianca aveva ricoperto tutto e il silenzio che vi imperava era turbato soltanto da qualche rapace che sulla neve rastrellava la sua colazione: un topolino, un coniglietto, un fringuello infreddolito, una bacca. Dio era così grande che provvedeva anche ai rapaci stanziati sul monte Kumeta. Il frate godeva di quest'ordine perfetto e ringraziava il Creatore anche per loro.
     Era già dicembre inoltrato, pochissima gente era andata a trovarlo con la neve; e l'inverno vicino sarebbe stato ancora più rigido. Forse i suoi orfanelli non avrebbero ricevuto alcun dono a Natale... La neve aveva forse impedito anche alla Provvidenza di scalare il monte, o forse si era dimenticata di chi aveva bisogno di un'atto d'amore. Corrugò la fronte, chinò il capo ed ebbe rimorso per quel suo dubbio da peccatore. Si segnò tre volte, davanti al grande Crocefisso in rame lucido, là, attaccato alla parete, che sembrava soffrire ancor di più per il suo dubbio. Poi il frate tirò fuori le figurine del presepe, con cura le lisciò ad una ad una e le pose sulle panche in attesa di sistemarle in maniera dovuta, quindi, sedutosi accanto al fuoco, allungò la mano, prese un libro dalla panca accanto e si immerse nella lettura. Il vecchio cane da pastore sdraiato ai piedi del pagliericcio, drizzò le orecchie, si mosse e sortì fuori. Sembrava irrequieto, come attratto da qualcosa, discese lungo il sentiero in direzione del romitaggio, e quando fu sul primo pianoro si fermò e si mise ad abbaiare.
     Frate Ansemo ripose il libro, si affacciò ma non vide anima viva, mentre il cane continuava ad abbaiare. Pensò che la presenza di un coniglio ne avesse destato l'istinto e lo chiamò ripetute volte, ma senza esito alcuno. Rientrato nella grotta si coprì col mantello sdrucito, infilò i piedi in un vecchio paio di scarpe e discese per il sentiero. A un certo punto sentì un lamento e accelerò il passo. Avvolto da un cencio un pellegrino stava disteso e si lamentava. Ai piedi aveva sandali. Frate Anselmo si chinò su di lui, si tolse il mantello e lo coprì, poi cercò di scaldargli le mani e lo sollevò da terra. Lo caricò sulle spalle e trovò la forza per arrivare alla grotta. Quando fu dentro, adagiò sul pagliericcio l'uomo, ravvivò il fuoco e lo ristorò.
     Passarono i giorni. Era la settimana prima di Natale, e mentre il frate sistemava le figurine del presepe, il pellegrino, che era stato zitto fino allora, gli parlò: << Non mi avete chiesto perchè mi trovo su questa montagna.>> Il frate non rispose e l'uomo lo incalzò: << Notti fa, io ho bevuto il vostro latte e mangiato le vostre provviste sul sagrato del romitaggio di san Cosma e Damiano, dopo mi avete salvato, ospitato e curato, e non avete chiesto chi sono.>>
     Il frate guardò l'uomo, mentre adagiava il Bambinello nel presepe, e disse: << Tu sei mio fratello, ed io ho ricevuto da Dio Padre la grazia di poterti amare nel Suo Nome.>>
     Frate Anselmo aggiunse legna al fuoco, rabboccò il paiolo d'acqua, prese le due brocche d'argilla e uscì per riempirle alla sorgente. Dalla valle uno stuolo di fanciulli, gli orfanelli del convento di Muffoletto, si accingeva a risalire il monte per visitare il presepe, si sentiva il loro canto soave che gli ricordava il suo sogno, la stessa musica, le stesse parole, lo stesso salmodiare, ed un momento prima le parole dell'uomo: <<Notti fa, io ho bevuto il vostro latte e mangiato le vostre provviste sul sagrato del romitaggio di san Cosma e Damiano.>>
     Un dubbio atroce tormentò il frate, gli fece paura, forse non aveva per nulla sognato... La sua mente fu turbata. Cosa gli stava succedendo? Si riebbe dopo un attimo e, come sempre, si segnò, si apprestò a riempire le brocche d'acqua, attese la lenta ascesa dei fanciulli e godette della soavità del loro canto, seduto su un sasso. Cosa donare ai ragazzi? Anche le ultime castagne che aveva raccattato quà e là nel boschetto, le aveva aggiunte alla minestra del giorno prima; si interrogò a lungo il frate, guardò le sue mai, erano vuote, e lo colse la tristezza: dai suoi occhi sortirono due lacrimoni. Assorto nei pensieri si stropicciò gli occhi e poggiò il mento sulla mano. Un sassolino rotolato dalla cima lo colpì sulla spalla, si girò, alzò lo sguardo e vide l'uomo che aveva ospitato in cima al monte che lo salutava agitando la mano, il frate si alzò in piedi e capì che l'ospite andava via per sempre, alzò anch'egli la mano e lo salutò: << Dio ti benedica fratello.>> 

     Gli orfanelli avevano raggiunto la sommità e frate Anselmo aperse le braccia come a volerli stringere tutti al suo petto, entrò nella grotta e ai piedi del presepe trovò, con suo grande stupore, tanti doni quanti erano gli orfanelli, ognuno portava una scritta: << Dal vostro fratello Anselmo.>>  Il monaco alzò gli occhi al grande Crocefisso di rame lucido, cadde in ginocchio, si segnò ed esclamò: << Sei venuto a trovarmi e non ti ho riconosciuto, ma ti amo.>> Un raggio di sole attraversò l'anfratto e si posò sul presepe. Il frate capì che l'Uomo della Croce era ancora con lui, in mezzo ai fanciulli.
   

Buon Natale a voi e ai vostri bambini.
















domenica 25 novembre 2012

L ' A D D I M U R U












L'innocenza ? .... perchè disquisire, nei bambini fa credere a Babbo Natale, alla Befana, alle fate, agli orchi, a tutti i personaggi delle fiabe, alla cicogna che porta un bimbo o al cavolo sotto cui nasce. Mezzo secolo fa, i bambini non erano diversi da ora, alcune forme di pudore costringevano i genitori a quasi burlarsi dei bambini, certamente senza cattiveria. Provo a raccontarvi un aneddoto che fa perno sull'innocenza dei bimbi del tempo. L'avevo scritto in dialetto, l'ho adattato in lingua italiana, credo non abbia perso nulla del suo significato. Buona lettura.



L’addimuru*


(* Addimuru = l'attesa e il ritardo concordati. Quando bisognava tenere i bambini lontani da casa, si mandavano dai nonni, dagli amici, dai vicini di casa, avendo cura di avvertire l’ospitante di dare al bambino un poco di “addimuru”. Quando il bambino manifestava la voglia di ritornare a casa sua, tutti si prodigavano a trattenerlo promettendogli l’”addimuru” che non arrivava mai.)


            Avevo da poco compiuto cinque anni e da cinque o sei giorni donna Nunzia, mattina e sera, veniva a casa mia portandosi dietro un grosso borsone in cuoio marrone che aveva tra un manico e l’altro due lunghe cerniere e una piccola stava su un lato del borsone, quasi a guardia di una piccola tasca.
            Donna Nunzia era una donna corpulenta, altissima, dalle mani immense; non era né bella né brutta, ma tutti la salutavano con rispetto, tutti si inchinavano e lei accennava ad un sorriso che era più una smorfia. Io non capii mai il significato del termine, ma tutti dicevano che fosse una mammana, e questa parola mi fece impressione. Credevo che donna Nunzia, chiamata dalle persone alla bisogna, castigasse i bambini più discoli, e lei non faceva nulla per non farmelo pensare. Mai una carezza ad un bambino, mai un sorriso, solo due occhi grandi sempre sbarrati che sembravano puntare come due cani levrieri, e sotto il naso, due peli neri e lunghi che spuntavano come due sarmenti da un neo grosso e tondeggiante come un cece. Quando lei entrava a casa mia, riparavo di corsa in un angolo e stringevo i pugni per timore che potesse dirmi qualcosa.
            Una mattina a casa mia ci fu una gran confusione, le zie che entravano ed uscivano, mia nonna presa da un gran da fare con Donna Nunzia e mia madre a letto. In punta di piedi mi avvicinai guardingo alla camera da letto, mia madre non si accorse neppure che c’ero, affacciato appena alla porta, forse stava male, era tanto pallida, poi diventava paonazza, e il borsone della mammana era aperto sopra una sedia.  Non sapevo se entrare e correre da mia madre o rimanere a soffrire sullo stipite. Donna Nunzia con gli occhi spalancati si accostò a me, io indietreggiai con le spalle al muro e gli occhi gonfi di pianto, pensando che pur non avendo fatto alcuna monelleria fosse arrivato il momento di essere castigato; col vocione, simile al suono di una tuba, disse a mia nonna: - Ci siamo! Mandate questo bambino a prendere un poco di addimuru! Cercai di capire cosa fosse l’addimuru e, pensando che potesse essere una medicina o un qualunque rimedio per mia madre, mi sentii carico di responsabilità e, presa coscienza che avevo contezza solo della strada che conduceva all’asilo, cercai con gli occhi chi mi potesse accompagnare. Da giorni mia madre non mi metteva in braccio, e pur di riguadagnarmi quella possibilità con la sua guarigione, ero pronto ad affrontare anche l’ignoto. Mentre pensavo al mio atto eroico da compiere, mia nonna mi fece indossare un giubetto di lana, mi accompagnò all’uscio, mi baciò ripetutamente  e mi consegnò a mio padre che stava rientrando con un pacchetto in mano, festante gridai: - Papà, l’hai portato tu l’addimuru per la mamma? Mio padre sorrise per la mia innocenza, mi sollevò sulle sue braccia e, come era solito fare, strofinò i suoi baffi sul mio naso, poi mi rimise a terra e mi disse: - Nel pacchetto non c’è addimuru, ci sono solo medicine per la tua mamma, ora ti ci porto io a prenderlo, mi fece sedere sui gradini dell’ingresso ed entrò in casa dicendomi: - Faccio subito, tu non muoverti.  Pensai che l’addimuru non fosse una medicina, ma se aveva una funzione così importante, cosa poteva essere, se serviva proprio in quel momento di confusione? Mio padre uscì, mi prese per mano e mi portò due strade sotto l’asilo che frequentavo, da una sua vecchia zia che tutti chiamavamo zia Maria. La porta, composta da due grandi ante, era dotata di uno sportello aggiunto su una delle ante ed era accostata e dal camino usciva copioso il fumo, entrammo e mio padre disse all’anziana zia: - Zia Maria, appena lo ha pronto, dia al bambino un poco di addimuru.  Baciò la zia e si fermò sull’uscio. La zia Maria stava mandando avanti il forno, aveva finito di imboccarlo con dei sarmenti, si pulì le mani col suo grembiule, prese una sedia e mi fece sedere a distanza, in modo che potessi vedere la legna che bruciava dentro, si avvicinò a mio padre e si dissero qualcosa che non capii. Andato via mio padre, lei ritornò a rompere sarmenti e ad infilarli nel forno. Lo spettacolo fu molto bello, le fiamme sembravano tante braccia che salivano fino a raggiungere la cupola e parevano accarezzarla e lo scoppiettio costante si trasformava in una musica. Per un po’ dimenticai perché mi trovassi in quella casa, in compagnia della vecchia zia che alimentava un fuoco con costanza ed ogni tanto alzava una coperta distesa su un tavolo e bussava nelle forme di pane pronte per essere infornate, ne ascoltava il suono e continuava a spezzare sarmenti. Preso un coltello, tagliò un pezzetto di una forma, lo pose in un angolo del tavolo, lo schiacciò e mi disse: - Ti preparo una focaccia, poi la mangi appena è cotta. Con una pala di legno spostò un po’ di brace nel forno e vi collocò quell’impasto schiacciato, attese un pochino, la girò con l’aiuto della pala e con la stessa la tirò fuori dicendomi: - Appena si raffredda un po’ la puoi pigliare. Mi convinsi che quel pezzo di pasta infornata fosse l’addimuru e, per la fretta di portarla a mia madre, avvicinai timidamente un dito ed ebbi la sensazione che non si raffreddava mai. L’anziana zia cominciò a tirare la brace dal forno, poi scopò la base con una vecchia ramazza di saggina infilata in un manico di canna e corse a scoprire le forme di pane sul tavolo, le sistemò una alla volta sulla pala e le depose in forno. L’operazione mi incuriosì fino a veder chiudere il forno, poi cominciai a chiedermi perché mio padre non tornasse a riprendermi, allungai la mano sulla focaccia che credevo fosse l’addimuru, la presi e mi approcciai alla porta. La zia Maria mi fermò, mi prese per mano e mi riaccompagnò alla sedia: - Siedi, ora che ho finito di infornare il pane ti cerco l’addimuru. Avevo sbagliato tutto! Quella focaccia era cosa ben diversa, e la zia pigliandomela dalle mani mi disse: - Ora te la condisco questa focaccia, siedi così nel mentre ci metto l’olio e un pizzico di sale, poi la mangi e quando finisci cerchiamo assieme l’addimuru. Ho avuto un nodo alla gola e mi è venuta voglia della mia mamma, singhiozzando le dissi: - Non la voglio la focaccia, voglio la cosa che deve darmi perché mia madre sta male, voglio l’addimuru! Zia Maria s’è messa a ridere e, convincendomi a risedermi ripeteva: - Ci vuole pazienza, mangia la focaccia che fra poco viene lo Zio Nino, mio marito e ti porta l’addimuru. Lo zio Nino era un vecchietto buono che passava tutti i giorni da casa mia, si fermava un po’, tirava dalla tasca sempre una caramella carruba e me la dava bella e senza carta, poi salutava ed andava a casa sua, sedeva sull’uscio ed intrecciava i vimini per fare i panieri. Giorni prima lo zio Nino mi aveva regalato un panierino colmo di fichi secchi, castagne e noci ed un altro vuoto dicendomi: -Tieni, quello pieno è per te, quello vuoto poi, se ti nasce una sorellina o un fratellino glielo regali. Tutti mi avevano detto che doveva nascere un fratellino o una sorellina, da così troppo tempo che mi ero stancato di guardare il cielo aspettando che una cicogna si posasse sul terrazzo con un bimbo trattenuto dal suo lungo becco. La zia Maria cominciò a sfornare il pane, erano tanti pani rotondi da riempire un grande cesto, l’ultimo più piccolo non era rotondo ma aveva la forma di un pupazzetto con testa, braccia e gambe. La zia lo strusciò con una salvietta per togliere qualche residuo di cenere e me lo porse: - Questo è tuo, tieni, quando te ne andrai lo porterai al fratellino o alla sorellina. Io non avevo né l’uno né l’altra e decisi di portarlo alla mia mamma, si, però, l’addimuru? Entrò lo zio Nino, si avvicinò alla moglie e con gli occhi pieni di gioia le disse: Marì, Santina ha partorito una femminuccia. Sua moglie prese un tovagliolo, avvolse il pupazzetto di pane, me lo diede: - Ora con lo zio ti riportiamo dalla mamma, passando ha lasciato l’addimuru a casa tua. Mi sentii sollevato, provai una gioia immensa, corsi dallo zio e abbracciai le sue ginocchia. Sua moglie si tolse il grembiule, ricoperse il cesto del pane appena sfornato con una coperta di lana, mi prese per mano assieme al marito e mi ricondusse a casa mia. Quanto tempo era passato? Era già buio e da un bel po’. A casa tutte le lampade erano accese, donna Nunzia non c’èra più e nemmeno il suo borsone di cuoio con tre cerniere. Sia nonna che mio padre mi misero in braccio e mi accompagnarono accanto al letto di mia madre che non era più pallida, era guarita, ed ho visto mia sorella piccolissima che dormiva accanto a mia madre, nello stesso posto dove piccolino avevo dormito anch’io. Peccato, pensai, mi sono distratto solo il tempo che sono stato dalla zia Maria ed ho perso di vedere posare sul terrazzo di casa la cicogna con la sorellina. Io avevo un altro compito, più importante, ero andato a cercare l’addimuru!


Spero di essere riuscito nell'intento. Grazie.