mercoledì 26 dicembre 2012

LA BURLA












Tratto dal romanzo IL MATTO di Mario Scamardo




LA BURLA




In fondo al viale alberato che porta al lago, coperta dai rami di fitti alberi di noci, si intravede una casetta molto piccola, appena un paio di ambientini a piano terra ed una mansarda, tutta dipinta in bianco. Il tetto è realizzato in tegole marsigliesi color mattone, dove svettano in maniera simmetrica due piccoli abbaini ed un comignolo con in cima un galletto di latta. Un cancelletto in ferro battuto, permette l’accesso ad uno stretto viale ben curato e lindo che porta sotto i fitti noci. Davanti l’ingresso della villetta, una lunga e robusta panca in castagno ed un paio di sedie a dondolo, di ottima fattura e affacciate tra loro. Sui pali di recinzione, tutt’attorno, tanti piccoli giocattoli o parti di essi: vagoni di trenini, bamboline, il coperchio di un tamburo di latta, un vecchio Pierrot in pezza, un paio di cerchi, i resti di un triciclo, un Pulcinella con due marionette senza nome ed altri rottami, tanti, da eccitare la fantasia dei passanti. Qualcuno pensava che quel luogo potesse essere il cimitero delle bambole o, addirittura, quello di tutti i giocattoli, un luogo incantato che suscitava il mistero e con esso la curiosità, la paura, la diffidenza. Il giardino incantato qualcuno lo definì, dove il tempo poteva fermarsi, consentendo alla fantasia di galoppare ed al sogno di realizzarsi.
       Ignazio, il proprietario della villetta era un uomo dai comportamenti inconsueti, nessuno conosceva la sua età, forse cinquant’anni, forse sessanta, ma sembrava senza tempo. Non lo si vedeva mai in giro, tranne che per le commissioni necessarie, ritirare la posta dalla cassetta situata sul montante del cancelletto, fare la spesa, recarsi di tanto in tanto in banca e qualche volta in chiesa, ad ore insolite, quando non c’erano funzioni.
       Ignazio vestiva in maniera insolita, talvolta indossava pantaloni con il cavallo basso alla turca o alla cavallerizza, con stivali neri e lucidi. Non andava a cavallo, non ne possedeva uno, e nei paraggi non esisteva alcun maneggio. Calcava enormi cappelli di paglia in estate ed altri di feltro, a tese larghissime nei colori più azzardati, durante l’inverno. Tutto ciò gli fece meritare l’appellativo di “matto”, per cui la sua casa diventò nel tempo la casa di Ignazio il “matto”, in realtà egli si chiamava Rossi.
       Molti ragazzi passavano sbirciando tra le sbarre del cancello, lanciavano un ranocchio o un sasso nel viale, facevano gli scongiuri e tiravano innanzi. Ignazio si accorgeva della miseria in cui erano cresciuti quei giovani e scuoteva fortemente i pali della recinzione, facendo muovere i giocattoli, come per dire che anche se rottami, riuscivano ancora a offrire sensazioni, mentre l’ignoranza e la mediocrità schiavizzavano, riducendo l’uomo a marionetta, atta a ripetere sempre gli stessi gesti senza capirne il motivo, solo e soltanto per uniformarsi alla massa, solo per spirito di emulazione. Alcune signore, quando lo incontravano al supermercato, all’ufficio postale o in banca, abbozzavano piccoli e beffardi sorrisi e gli cedevano il turno, non tanto perché eccedevano in cortesie nei suoi confronti, quanto per avere il tempo di osservarlo per bene, negli atteggiamenti, nelle movenze, nel linguaggio, nel vestiario e poi, una volta lontano dai loro occhi, per poter trovare le parole false di commiserazione per il “matto”.
       Ignazio accettava i falsi atti di cortesia e, per ringraziare le signore, accennava, a sua volta, ad un piccolo inchino e con due dita toccava la tesa del suo cappello. Altre signore invece incontrandolo, mostravano di avere molto rispetto per il suo decoro, per il suo perbenismo e per la riservatezza, allora Ignazio, intuendo ciò ricambiava la stima con atti continui di cavalleria, cedeva loro il passo inchinandosi, cedeva il suo posto nelle file, si premurava ad aiutare loro a portare qualche involto o chiamava per loro un taxi. Una collettività spaccata in due, due culture diverse, una pregna di ignoranza e di pregiudizi, l’altra colta e tollerante.
       Nessuno sapeva come e di cosa vivesse Ignazio, ma egli era stato sempre autonomo e non era mai ricorso all’aiuto di qualcuno. Nessuno era mai entrato nella sua casa, tranne l’elettricista per mettergli a posto un guasto. Non era rimasto dentro più di mezzora, ma tutti in paese sapevano come era fatta la sua casa, come erano disposti i suoi mobili, i suoi quadri e la batteria di pentole di lucido rame attaccate alla parete del piccolo vano cucina, anche nei piccoli particolari più insignificanti, e tutti sapevano che la mansarda era occupata da un immenso numero di libri, per tutte e quattro le pareti e fino al tetto. Al centro c’era solo un tavolo grande, proprio tra gli abbaini, con sopra due lampade, due scrittoi, due calamai colmi d’inchiostro, due penne, ed al centro del tavolo vi era posto un grosso leggio con la Bibbia aperta sul Vangelo di Giovanni.
       Il “matto” passava le sue giornate tra la sua mansarda da dove, attraverso gli abbaini scrutava il mondo attorno a se e le sedie a dondolo davanti l’uscio di casa.
       Due stanzette a piano terra, due scrittoi con due calamai in mansarda, due sedie a dondolo davanti l’uscio, eppure Ignazio era solo, solo con se stesso, solo con i suoi libri, solo con i suoi vecchi giocattoli che vedeva sempre girandosi attorno, attaccati ai pali della recinzione. Strano tutto ciò, la fantasia dei suoi concittadini si sbizzarriva trovando soluzioni a tutti gli interrogativi. Qualcuno lo immaginò in coppia con una donna troppo bella che non si vedeva perché succube della sua gelosia, qualcun altro pensò che la sua compagna avesse l’aspetto d’un mostro e che fosse tenuta legata ad una catena fissata ad un anello piantato nel  pavimento, qualcuno ancora pensò al suo sdoppiamento ed alla sua capacità di bilocazione, fino al punto da fargli dividere la casa con quel demone che guidava la sua pazzia e che si materializzava di notte, i più intelligenti, per la verità pochi, pensarono che si confrontasse col suo alter ego.
       Niente di tutto ciò, Ignazio viveva da solo ed usava le due sedie a dondolo affacciate, una fino a mezzodì, quando il sole era allo zenith, quella che dava le spalle ad oriente, per poter leggere o lavorare senza avere il sole negli occhi, l’altra, quella che dava le spalle ad occidente, la usava dopo mezzodì, per lo stesso motivo, e così era per gli scrittoi in mansarda. Degli abbaini, affacciati tra loro, sfruttava la luce che entrava, evitando che l’ombra del suo corpo potesse oscurargli il piano di scrittura. Nella casa del “matto” tutto poteva sembrare strano, ma tutto aveva un posto ed una funzione, persino la lunga panca di castagno davanti all’uscio che gli serviva da bancale per la invasatura dei gerani dai colori più svariati che ornavano i davanzali delle finestre, gli abbaini, i vialetti e tutt’intorno la villetta. Quando non invasava i gerani la lunga panca veniva usata anche per stendervi ad asciugare le stuoie che ricavava intrecciando le fibre della palma che cresceva rigogliosa dietro la casa. Ignazio per i gerani aveva una cura particolare, ogni anno li trapiantava e li rinnovava, ed ogni anno i suoi vasi erano fioriti in maniera quasi eccessiva e ai pochi che gli chiedevano perché i suoi fiori fossero così rigogliosi rispondeva:
- Ama il prossimo tuo come te stesso!
       Non capendo l’attinenza con i gerani, la gente girava i tacchi e mentre andava via sentiva Ignazio che gridava:
- Sono il mio prossimo i miei gerani!
        Poi soddisfatto ridacchiava e dava una scrollata ai pali della recinzione, facendo si che i giocattoli che vi erano appesi si muovessero e partecipassero anche loro alla soddisfazione che gli dava l’allontanare la gente che riteneva curiosa, intrigante, ignorante e cattiva. Aveva visto tante volte la gente che si avvicinava alla staccionata, mentre cercava di staccare un ninnolino o parte di esso per servirsene come amuleto. Quando non vi riusciva, tirava fuori un ferro di cavallo, un corno rosso, un minuscolo gobbo, lo strofinava sulla ringhiera e lo conservava gelosamente. Ciò dall’origine dei tempi è servito all’uomo a scongiurare le proprie paure, riponendo la fiducia in qualcosa che potesse rendere forte l’individuo. Forse il pentacolo che il “matto” portava al collo, aveva innescato nella mente di alcuni suoi concittadini l’idea che potesse essere un operatore dell’occulto o, addirittura un mago impazzito, quindi agli ignoranti faceva paura, incuteva terrore, allora bisognava schermarsi. Il pentacolo per eccellenza è la stella a cinque punte, prodotto dallo sviluppo di un pentagono, prolungandone i lati. Detta stella, con una sola punta verso l’alto, rappresenta l’uomo, il microcosmo, le cinque piaghe di Gesù, i cinque elementi, aria, acqua, terra, fuoco ed etere. Se capovolta la stella, con due punte verso l’alto, rappresenta il male e diventa simbolo per il satanismo, usata in pratiche di magia nera e di stregoneria. Ciò che impressiona della magia è la pretesa di sottomettere Dio, angeli e demoni, le forze della natura e l’uomo ai voleri del mago. Tale aspetto marca in maniera forte come, quanto promesso dalla magia, non si leghi con la condotta morale di vita dell’uomo. Tra i testi che Ignazio divorava c’era un trattato sulla magia, egli lo aveva letto, non lo aveva mai ripreso e giaceva impolverato in cima ad una pila di altri libri tra i quali uno sui tarocchi e le profezie di Nostradamus. I sedicenti maghi distinguono i tipi di magia, in funzione del fine da raggiungere. La magia bianca, che servirebbe a proteggere lavoro, salute, attività economiche, vita familiare. La magia rosa o rossa riguarderebbe l’amore da conquistare o separare e la sfera sessuale. La magia nera, praticata per nuocere, distruggere nemici, procurare disastri, vendette, contrasti, malattie e  morte. La magia viola affronta una vetusta filosofia della morte, la Grande Madre. Alla magia verde, non molto conosciuta, è legata l’alchimia, dall’arabo al-Kimiya, forse dal greco chyma, (fusione dei metalli). Scienza molto antica, praticata in parecchie zone del mondo allora conosciuto, tendeva a perfezionare i fini della natura, trasformando ogni metallo in oro, e garantendo all’uomo persino l’immortalità.
       Ignazio aveva maturato il pensiero che se l’uomo si spinge verso l’occulto cercandosi un mago, allora i suoi fustigatori diventano: la curiosità, la disperazione, il desiderio di onnipotenza, la mancanza di sicurezza e, per le proprie certezze e speranze, ha la necessità di chiedere conferma. Altri fustigatori sono la solitudine ed il vuoto attorno a se. Da credente, accantonava tutto ciò, sedeva all’ombra di un noce e meditava sulla capacità dell’uomo di spiegare i fenomeni che gli stanno attorno.  Dava un grande ruolo alla casualità, per cui bisognava pensare alle cause che producono i fenomeni, senza che esse si vedano per forza, indispensabile è  pigliare conoscenza degli effetti. Risalendo alla Natura, Ignazio era capace di arrivare ad una Intelligenza, ad una Mente Cosmica, ad un Organizzatore Universale, ad un Essere Supremo. Le sue puntate ad ore insolite in chiesa, quando non c’erano le funzioni, quando c’era pochissima gente o, meglio, nessuno, gli davano l’opportunità di meditazioni serene, senza essere distolto da cicalecci, sguardi o quant’altro che non gli permettesse di studiare il simbolismo contenuto all’interno. Si interrogava spesso Ignazio su cosa fosse una religione, ed aveva maturato che non era tradizione pura, sentimento puro o culto fine a se stesso. Essa era un insieme di atteggiamenti e di idee nei riguardi della Causa Causante, dove l’uomo riconosce se stesso dipendente dalla divinità mantenendosi in relazione con essa.
       Di quanto pensasse la gente di lui, il “matto” lo sapeva, l’aveva colto da atteggiamenti, piccoli gesti, scorci di discorsi captati, anche se ciò lo irritava molto, trovava la forza di non esternare la sua rabbia, tranne che nello squassare la staccionata. Da tanto tempo pensava ad una vendetta, ma voleva che fosse geniale e di grande effetto.
       Una sera Ignazio serrò le imposte della sua villa, irrigò abbondantemente le sue piante, uscì sulla strada con una valigia, si tirò dietro le spalle il cancello, calzò un cappello di feltro a tese larghe di colore grigio fumo e, a piedi, si avviò verso la stazione ferroviaria. Per giorni e giorni regnò il silenzio nella villa e non si vide muovere una foglia, non si aprì un’imposta, non fu accesa una luce. Ognuno che passava guardava dentro e, senza timore che il “matto” potesse dir qualcosa, curiosava con il naso tra le sbarre del cancello. Ignazio aveva forse una famiglia ed era andato a trovarla, forse un fratello lontano, forse un amico chissà dove, oppure si era ammalato gravemente e se ne stava ricoverato in un ospedale, tutto ciò pensava la gente, e ne parlava. Un mattino furono notati, attaccati ai muri della cittadina, dei manifesti di necrologio, tutti si fermavano a leggere: “Serenamente si è spento Ignazio Rossi, i parenti ne danno notizia. Non fiori ma opere di bene”. Per un poco di giorni si parlò del “matto” e della sua dipartita, la presenza di qualche sconosciuto in giro fece pensare a familiari, venuti nella cittadina forse per sistemare quanto c’era da fare dopo la sua dipartita.
       Dopo qualche settimana la gente passava davanti al cancello e quasi non sbirciava più, non si muovevano i pali della recinzione e nemmeno i giocattoli, ma non ingiallivano le piante, specialmente i gerani erano sempre più rigogliosi ed il terreno era umido. Nella casa sembrava non esserci anima viva, non si erano più aperte le finestre degli abbaini, non più le imposte a piano terra, non più il cancello, mai più una luce accesa, eppure quei gerani qualcuno doveva innaffiarli.
       Era passato quasi un anno dal momento in cui Ignazio era uscito da quella casa con la valigia ed era andato alla stazione ferroviaria, e di lui in paese non si parlava più.  Una mattina qualcuno passò, guardò verso la villetta dal cancello aperto e vide le luci del piano terra accese e le imposte degli abbaini aperte. Cosa pensare se non ad un nuovo inquilino e, quando la curiosità lo portò a spingersi un poco al di la del cancello, sentì lo squassare dei pali della recinzione ed il rumore dei giocattolini, saltò fuori in strada si diede a correre a gambe levate e a gridare. Di li a poco un bel po’ di gente fece ressa davanti alla villa, e Ignazio, quando li vide, uscì fuori col suo cappello di paglia chiaro a larghe tese ed i suoi pantaloni alla turca, si affacciò sulla strada e disse:
- Perché tanta curiosità, io non vi ho invitati, ma, se volete entrare accomodatevi!
       La gente si tirava indietro, come se fosse davanti ad un fantasma, il “matto” aggiunse:
- La mia morte vi ha soddisfatto certamente, avete gioito quando vi siete liberati di me, io guardavo i vostri visi compassati e bugiardi che ostentavano pietà davanti al necrologio! Falso, tutto falso, travestito in mezzo a voi ascoltavo storie fantastiche che mi vedevano protagonista, ma erano inventate da voi, mi avete fatto fare delle cose orribili con le vostre fantasie bacate, mi avete fatto ingoiare bambini in un sol boccone, avete giurato di avermi visto contemporaneamente in due e più luoghi diversi, avete assistito, nelle notti di luna piena, alla crescita dei peli sul mio corpo e all’allungarsi delle unghie delle mie mani, e avete visto allungare i miei canini ed azzannare la gente per la strada, tutto frutto delle vostre frustrazioni, della vostra ignoranza, della vostra cattiveria. Io non sono morto! Mi sono burlato di voi, vi ho sorpreso mentre volevate rubare i miei gerani, di notte, ma vi ho dissuaso con dei rumori e, dal buco della serratura, qualcuno voleva sbirciare dentro per scoprire il mistero di una moglie mostruosa incatenata al pavimento.
        Si avvicinò alla piccola folla :
- Toccatemi, non sono un fantasma, sono vivo e vegeto, sono io, Ignazio il “matto”, il mago, lo stregone, il lupo mannaro, il mangia bambini, l’azzannatore!
        La gente stupita si allontanava quasi con vergogna. Un fanciullo di circa sei anni lasciò la mano della madre e corse verso Ignazio, lo abbracciò alla cintola e gli chiese:
- Quando mi ripari il mio orsacchiotto a cui si è staccato un braccio?
        Ignazio si chinò prese in braccio il bambino che lo guardava con gli occhietti dolci, lo baciò su una gota rosea e pasciuta, poi gli rispose con estrema dolcezza:
- Portami il tuo orsacchiotto, lo cureremo, gli attaccheremo il braccio e tu tornerai ad averlo amico, dormirà con te nel tuo letto, ti farà compagnia di notte.
        Baciò nuovamente il bambino sulla guancia, lo pose a terra.
 - Ora va dalla tua mamma e quando passi da qui continua ad accarezzare i miei gerani, diventeranno più belli, le piante si nutrono anche dell’innocenza e della tenerezza dei bambini.
       Si tolse il cappello, lo pose in capo al fanciullino e gli disse:
 - Tienilo, te lo regalo, portami i tuoi giocattoli rotti e quelli dei tuoi compagnetti, quando vorrai, li accomoderò tutti.
       Gli poggiò la sua mano sulla guancia e lo accarezzò con tenerezza, poi rincasò e ripigliò la vita di sempre.





Ottima lettura!






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