lunedì 14 maggio 2012

" I DRAGHI DI CARTA "... II puntata - LA FUGA.


















Fontana Pretoria



Tratto dal romanzo "L'ORRENDO FASCINO DELLE MUTAZIONI" di Mario Scamardo



II puntata


LA FUGA E IL COLPO DI FULMINE



         Un pomeriggio di sabato Ugo, suo padre, bussa alla camera di Rosetta e, vedendole riporre in una valigia alcuni effetti personali, le chiede spiegazione. Rosetta è impassibile, i suoi gesti sono decisi, ostenta tutta la sua sicurezza e, continuando a sistemare la valigia, dice al padre che intende partire per un viaggio in Sicilia, intende incontrare alcuni suoi ex colleghi di università che lavorano a dei progetti di restauro a Palermo.
         L’ingegnere Ugo colto di sorpresa non batte ciglio, assiste alla scelta di alcuni abiti che la figlia tira fuori dall’armadio e coglie la sua determinazione, senza dire altro le chiede: - quando hai deciso di partire? – Rosetta lo guarda e poi con decisione: - domani, con l’aereo delle dodici! – e per evitare che il padre la incalzi: - ho prenotato l’albergo al centro della città, a mamma lo diremo assieme dopo che avrò preparato ogni cosa, mancherò giusto il tempo per rendermi conto di un lavoro che mi piacerebbe fare. – Ugo infilò la porta e la richiuse piano piano dietro di se.
         Nessun restauro, nessun gruppo di colleghi, nessun interesse per la sua professione, almeno nell’immediato, l’unica voglia di Rosetta era poter riempire il vuoto dei suoi quindici anni. Non li aveva vissuti, le mancava un pezzo della sua vita, un tassello importante che bisognava fosse recuperato.
         Perché Palermo, perché non rimanere a Roma? Perché in Sicilia affondano le sue radici. Il padre era nato in un sobborgo della città isolana tra gli aranci ed i limoni, dove il sole di luglio ti fa bruciare la pelle e lo scirocco ti screpola le labbra, dove tutto sembra essere fatalità, dove l’Oriente e l’Occidente non hanno una linea di demarcazione, dove i quartieri più vecchi assomigliano alle medine e dove i mercati non son altro che pezzi di bazar in cui la gente tratta come al mercato delle spezie di Istambul.


         Appena dodicenne Rosetta aveva visitato tutto ciò, col padre era stata ospite dei nonni, ormai trapassati da tempo e, non aveva dimenticato gli occhi pieni di passione dei quindicenni che sprizzavano bramosia e puntavano dritti dritti sui suoi piccoli seni ancora acerbi che si coglievano sotto la maglietta.


         Palermo con i suoi contrasti, con la forza dei suoi colori, col profumo delle sue zaghere, con la bellezza della sua statuaria, con la monumentalità dei suoi palazzi, con la limpidezza del suo mare, attraeva fatalmente questa donna e la faceva ritornare fanciulla, carica di speranze, carica di sogni, carica di voglia di vivere, alla ricerca, forse, di un sogno perduto e di quelle emozioni che i suoi anni da ragazza non le avevano fatto vivere. La sua famiglia era stata una prigione dorata, dove tutto aveva avuto ma dove tutto le era stato negato e, paradossalmente, aveva vissuto la lenta morte della sua età più bella.


         La sera Rosetta si sedette a cena chiusa in un assoluto e ragionato mutismo. La madre per la prima volta si era adoperata in cucina assieme a Clelia, avevano forse parlucchiato ma, informata dal marito, una volta a tavola, aveva preferito, per prudenza, non aprire bocca. Per lei diceva tutto la sua irrequietezza, l’aggrottamento delle ciglia, le due rughe sulla fronte profondamente marcate, gli occhi lucidi di pianto e l’accigliamento un po’ recitato della governante. A fine pasto, ritiratasi in cucina Clelia, la madre apostrofò la ragazza: - se avevi il desiderio di compiere un viaggio in Sicilia potevi parlarne, io e tuo padre desideriamo tanto ritornare a Palermo, è un po’ che non andiamo giù, potremmo partire assieme a fine settimana. – La ragazza non proferì parola, la guardò negli occhi con insistenza, ripose il tovagliolo sul tavolo e si alzò di scatto. Notò l’imbarazzo del padre che toccando il braccio della moglie, disse: - non ti preoccupare, Rosetta è adulta e sa cavarsela da sola, poi non starà molto, la sua casa le mancherà presto. - La madre  stava per parlare ma il marito, ritoccandole con insistenza il braccio, la indusse a tacere. La donna ravviò una ciocca dei suoi capelli color rame e dagli occhi sortirono due lacrimoni che le solcarono le gote. Rosetta girò i tacchi, quasi con sprezzo diede un’occhiata in cucina verso Clelia e si ritirò nella sua camera. Fu una notte lunga e insonne, come un turbine le trasgressioni della governante si impadronirono della sua mente. Il mondo al di la del muro l’attendeva, come d’incanto s’erano spezzate le sbarre della sua prigione, la libertà, sogno da sempre agognato, era ad un passo. Nessuna titubanza, nessuna remora nel suo cervello, solo la voglia matta di spiccare il volo, solo la voglia di vivere.
        E’ un mattino sereno, l’aria è cristallina, una brezza leggera
ha spazzato ogni cosa, Rosetta spalanca la finestra della sua camera, che si affaccia sul golfo di Mondello, e viene investita dai raggi di un caldissimo sole che le attraversano la finissima camiciola di seta, dando risalto ai contorni del suo corpo perfetto. I capelli, alla luce immensa, sembrano più biondi, le sue palpebre socchiuse danno la sensazione del piacere che la pervade e della serenità in cui si trova immersa.
         L’albergo è il migliore della città, sonnecchia immerso da un lato in un immenso verde protetto dai colli e dall’altro su un mare verde smeraldo. Grandi saloni illuminati da enormi lampadari liberty, sono ricoperti da tappeti di seta; una passatoia di velluto rosso si spiega lungo i corridoi smisurati che accompagnano tutti al grande scalone centrale che porta al primo piano. Camerieri in livrea e guanti bianchi si spostano celermente per i piani. In uno dei salotti Ducrot, una signora ingioiellata se ne sta adagiata con in braccio due yorkshire dai collari di pietre dure, quasi a perpetuare un rito che la nobiltà isolana, salottiera, celebra e ripete accedendo dai tempi della realizzazione di questo Grand Hotel.
         Rosetta, in tailleur rosso e i capelli sciolti, cadenti a grandi onde sulle spalle, esce dall’ascensore centrale, lascia la chiave alla ricezione, infila la porta girevole e, dopo avere dato il primo sguardo attorno, fa cenno al primo taxi e si fa accompagnare al centro della città, nei pressi della facoltà di giurisprudenza.


         La visione d’insieme della scenografica Fontana Pretoria lascia Rosetta a bocca aperta. Lei, architetto, ha occhi soltanto per il complesso statuario della fontana, col suo fantastico paradiso mitologico di figure umane e di animali esotici, che esprime il ciclo della natura e della vita secondo uno schema quaternario che si ricollega alla “Croce cosmica” e al teatro “cosmologico” di Piazza Villena, o, come i palermitani la chiamano, “I quattro canti di città”.
Al tema quaternario dell’ottangolo espresso dalle quattro stagioni, dai quattro sovrani spagnoli e dalle quattro vergini protettrici di Palermo, fanno riscontro le quattro scalinate della Fontana Pretoria con le allegorie di quattro fiumi e con quattro coppie di Termini, disposti tutti agli antipodi di vaghe ellissi concentriche. Il rumore dell’acqua che fuoriesce dai cento zampilli, come sirena ammaliatrice, la chiama tra le sue mille statue la cui nudità pudica invita a liberarsi sia dalle pastoie delle convenzioni che dagli abiti. Rosetta, tra le statue diventa un Termine, un Tritone, una nereide, il fiume Maredolce, Diana, Pomona, il Genio dell’acqua; ogni statua è la sintesi di una bellezza, Rosetta, come Venere, le sintetizza tutte.

         Ancora uno sguardo a Palazzo delle Aquile ed alla loggia barocca che sovrasta la chiesa di San Giuseppe dei Teatini, poi, varca la soglia dell’ateneo. Si sofferma un attimo al centro del grande porticato, apre la borsetta e tira fuori un foglietto piegato in quattro, lo spiega per leggervi dentro qualcosa. Ad un bidello impettito nella sua divisa fiammante e gallonata chiede: - perdonate, sapreste dirmi dove trovare il professor  Renato Brunelli? – Il bidello, folgorato dalla sua grazia: - scusate, volete ripetere?… - Dove posso trovare il professor Brunelli… - il titolare di Diritto Canonico? – Si. – E’ nell’aula A, alle vostre spalle, se volete v’accompagno… - no, grazie, aspetterò che finisca la lezione e quando uscirà lo fermerò -.
         Rosetta lesse tutti gli avvisi alle bacheche, tutti i calendari d’esame, ma gli occhi erano sempre puntati verso l’uscio dell’aula A. Sortirono decine di studenti, quasi tutti ventenni, il professore forse si attardava. Rilesse la targa alla porta: Aula A, entrò ma all’interno non c’era anima viva, che vi fosse un’altra uscita? Ritornò al centro del porticato invaso da centinaia di giovani, si guardò attorno quasi smarrita, chi sa chi fosse il professor Brunelli, poteva averlo visto non uscire dall’aula? Ma lei non lo conosceva , le avevano dato il suo nome a Roma, doveva incontrarlo perché amico di amici comuni. Il bidello impettito ripassò, si soffermò e interrogò la donna scoprendo che non conosceva quel ragazzino ventisettenne che si confondeva con gli altri ragazzi, ma che era titolare della cattedra di Diritto Canonico. – Scusate signora, ma voi conoscete il professor Brunelli?… E’ uscito un attimo fa, con quattro o cinque allievi… se volete trovarlo è qui di fronte, al bar sotto il Teatro Bellini. - Rosetta ringraziò con un cenno del capo e, muovendosi verso l’uscita, ebbe il tempo di reindossare quegli abiti che il bidello le aveva con gli occhi strappato di dosso.
         Renato Brunelli, figlio di un alto funzionario del Vaticano, approdato a soli ventisei anni all’Ateneo palermitano chissà per quali meriti, era sotto l’aspetto fisico una figura insignificante. Due lenti spesse da miope su una montatura metallica e due orecchie a sventola lo rendevano solamente buffo, seduto su una falsa sedia viennese, sorbiva spaparanzato una coppa di granita di limone, accompagnandola con una brioche a forma di minuscolo panino tondo, che solo a Palermo i fornai riescono a creare. Uno degli alunni, quando Rosetta stava per avvicinarsi al tavolo, stava per emettere uno di quei fischi sibilanti, che servono solo ad esprimere meraviglia, ma lei lo battè sul tempo e chiese all’uomo buffo, che aveva capito essere il Brunelli: - Scusate se disturbo, professor Renato Brunelli?… - L’omino con gli occhiali dalle lenti spesse leccò in maniera sgraziata la palettina colma di granita e ricomponendosi sulla sedia: - in cosa posso esservi utile… - mentre uno dei tre goliardi al tavolo del docente, notò la grande villania del Brunelli  che non fu capace di alzarsi e rendere omaggio a tanta grazia, notò pure come l’avvenente donna non volle dar peso alla enorme scortesia del cattedratico.


Fu quando Rosetta si presentò che venne invitata a sedere al tavolo e Mario, il perspicace goliardo, le porse subito la sua sedia sistemandogliela all’atto di accomodarsi e approfittando per pigliare posto accanto a lei. Gli amici che l’avevano indirizzata da Brunelli non avevano tenuto in considerazione la differenza di stile che correva tra i due, mentre, l’aveva colta Mario che non sapeva toglierle gli occhi di dosso e, per quanto breve fosse stato il dialogo tra loro, aveva colto in lei un velo di sdegno malcelato dalla voglia eccessiva di interrompere il dialogo e andare via.
Mario chiese a Rosetta se le servisse un’auto e, togliendole la sedia di sotto, con un ulteriore gesto di cavalleria, le cedette il passo verso il posteggio dei taxi. Nessun turbamento sembrò sortire dall’espressione della donna ma Mario, con garbo: - vuole che l’accompagni al prossimo posteggio, quello vicino la cattedrale?… forse due passi le consentiranno di scaricare un pochino di tensione e, se poi sono tanto fortunato, potrò farle da Cicerone. – Rosetta stava quasi per chiedere al tassista se fosse libero, ma guardò Mario e si accorse che i suoi occhi neri chiedevano una risposta positiva ai suoi desideri, poi, quasi per giustificare la decisione, guardò l’orologio, forse non vide manco l’ora: - si, lei è una persona simpatica, forse è bene che scarichi, purtroppo le titolarità all’università non conferiscono le doti per diventare galantuomini. Signori si nasce, farò volentieri due passi con lei, ma non ho voglia di visitare la cattedrale, magari domani, voglio pigliare un aperitivo a condizione che sia io a pagare, voi siciliani, tutti uguali, ve la pigliate se una donna ha il piacere di pagare il conto al ristorante o al bar. A mio padre sono occorsi trent’anni per imparare, anche lui è siciliano, è nato qui a Palermo, permette?… - e pigliandolo sottobraccio: - mi accompagni lei. –
         Mario è un giovanotto bruno di media statura, due occhi grandi, i capelli con la riga di lato, due mani grandi ma curatissime. Dai tratti del volto spagnoleggiante si intravede la sua origine contadina, trabocca da tutte le parti il suo essere distinto, educato ma soprattutto cavaliere, senza mai eccedere nel cerimonioso o trascendere nel banale. La sua educazione è quasi perfetta, non v’è un gesto, una postura, un atteggiamento, una parola che trasgredisce alle regole dettate da Monsignor della Casa.


         Sembrano una coppia perfetta, non si nota la differenza d’età, pur avendo lui vent’anni, quindici meno di lei. Imboccano Via Maqueda e passeggiando si ritrovano davanti al Teatro Massimo. Rosetta si sofferma davanti lo scalone di accesso al teatro dove sulla sinistra si trova una scultura bronzea che rappresenta una donna che simboleggia la “Lirica”, mentre suona uno strumento a fiato, adagiata su un leone. – Lo sa che questa opera è di Mario Rutelli ? – dice il giovane alla donna, e lei con un sorriso: - ho origini anch’io palermitane, e poi, come architetto potrei anche offendermi di fronte al suo dubbio, anzi, le dico che l’altra scultura, quella sulla destra, quella donna che stringe al suo seno, adagiata sull’altro leone, rappresenta la “Tragedia”, ed è stata realizzata nel 1899 da Benedetto Civiletti. – Anche Mario sorride e guardandola negli occhi le chiede: - non mi faccia sentire vecchio, la prego, mi dia del tu, e poi… mi fa sentire più vicino…
Rosetta non rispose, ma capì di aver trovato un posto nel cuore di Mario e, senza che se ne fosse accorta, visitò il suo e scoprì che il giovane era già entrato dentro di se con grande turbolenza; riprese Mario sottobraccio e tutti e due si avviarono verso il grande bar a fianco della Banca d’Italia. Seduti ad un tavolinetto consumarono lei un analcolico e lui un caffè. Rosetta non volle dare la sensazione di quanto le stava succedendo dentro ed incollò Mario con una bordata di domande sui suoi studi, sulla sua scelta universitaria, sulle materie date e su quelle in fase di preparazione e, quando ebbe tutte le risposte, erano già le tredici.
         A piazza Castelnuovo, accanto al teatro Politeama-Garibaldi, un attimo prima di avvicinarsi ai taxi, Mario propose a Rosetta di pranzare assieme e, al rifiuto garbato di lei le propose una cena in un locale tipico del centro storico, ma la donna trovò il modo di declinare l’invito col garbo e la gentilezza che la contraddistinguevano. Mario credette per un attimo che la sua fiamma improvvisa stesse per spegnersi troppo repentinamente, ed i suoi occhi neri e profondi diventarono immediatamente tristi. Rosetta chiamò un taxi, Mario le aprì lo sportello e lei, prima di salire, con immensa tenerezza: - domani voglio visitare la cattedrale, ho bisogno di un Cicerone, alle dieci in punto sarò davanti all’ingresso, approfitterò della tua disponibilità. – Sorrise ancora e sedendosi in macchina diede istruzioni all’autista. Gli occhi del giovane brillarono, gli aveva dato del tu e, lei dal finestrino, colse la gioia del ragazzo.


Segue.

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