"Il pregiudizio si presenta alla nostra coscienza come messaggio, mascherato di saggezza e di verità, che stravolge la nostra ragione"
La gabbia dorata e “i draghi di carta”
Un macaone dalle ali variopinte intento a succhiare il nettare di un’infiorescenza di lavanda, forse colto da una fragranza più gradita, spicca il volo e si posa dolcemente sulla larga tesa del cappello di Rosetta che se ne sta adagiata sotto una mimosa penetrata dai raggi del sole, su una poltrona di vimini a far niente.
Un corpo perfetto, due grandi occhi scuri orientaleggianti risaltano sul viso chiaro e roseo come due chicchi di caffè sui riccioli di panna di una torta, una ciocca bionda sfugge da sotto il cappello immenso.
Il corpo perfetto è accarezzato da un abito di seta a fiori variopinti dai colori pastello, due gambe lunghissime accavallate, sembrano sostenere, come torri d’avorio, le mani leggiadre, diafane, dalle dita affusolate e curatissime. Il suo sguardo vago rimira quel paesaggio che le è familiare. Splendida donna, discreta e soave, sembra che tutto attorno a lei taccia, ed al suo passaggio si chini per rendere omaggio alla sua leggiadria.
Trentacinque anni trascorsi, quasi interamente, accanto ai suoi genitori, il padre ingegnere, la madre funzionaria del Ministero del Tesoro, da pochi mesi in pensione.
La sua camera s’affaccia su un piccolo prato che circonda la villetta ben curata, dentro, sistemate in una immensa bacheca, centinaia di bambole d’ogni fattura e d’ogni provenienza. Una camera color glicine, sembra essere stata arredata soltanto per Rosetta, tutto è tenue, colori e luce.
La pace esteriore che la circonda, misteriosamente cela il turbine che le va lievitando dentro e, il suo essere taciturna si va trasformando pian pianino in un ragionato silenzio. Rinuncia da un po’ di tempo agli inviti delle tante amiche ed amici che le offrono momenti di svago e si isola in quel piccolo paradiso, sotto la mimosa del suo giardino a mirare nel vago, quasi annullandosi, rendendo omaggio, con la sua bellezza, soltanto a quanto la circonda: una siepe di gelsomino, una palma nana, un olivo piantato in suo onore lo stesso giorno in cui è venuta alla luce.
Cosa passa per la testa di Rosetta, cosa dicono i suoi silenzi, cosa le suggerisce quell’angolo che la vede compostamente seduta, coperta dai suoi vestiti a tinte pastello, è tutto da scoprire.
Con la madre, dialoghi parchi con qualche accenno al sorriso; col padre, oltre i convenevoli, il commento sull’ultimo libro letto e poi riposto, con un ordine perfetto, nella grande libreria dello studio, accanto a tutti i suoi testi scolastici e alle dispense universitarie. Rosetta è architetto, compì ventidue anni il giorno della sua laurea, tra le foto ricordo degli esami, una, lievemente stropicciata, forse per un momento di nervosismo o forse perché riposta con poca cura nell’album, la ritrae con accanto Egisto, suo collega universitario, e chissà, forse anche suo spasimante deluso. E’ l’unica fotografia che ritrae i due, posta all’ultima pagina, quasi non appartenesse alla serie.
Solo i frustrati sanno raccontare a se stessi i propri silenzi, trasformando questi attimi eloquenti in oscure prigioni senza uscita. Rosetta non approda al mutismo, ed il suo silenzio non è un accadimento elementare, un punto matematico, esso è espressione di un “continuum”, di un processo interiore che struttura fondamentalmente la sua personalità e la sua relazione con gli altri, con la società. Il silenzio di Rosetta è concentrazione, ricerca del centro, del polo, del bersaglio, ed è quindi concentrandosi che precede il mistico, la comunione con l’Origine di tutte le cose.
Rosetta scopre il buco nero del suo passato, lo rivisita con la mente, risente il peso di un’educazione troppo rigida, dei pregiudizi provinciali che segnavano la vita dei suoi genitori e quella sua, e le ritorna alla mente il mostro poliedrico che l’ha afflitta, “la gente”.
Rosetta aveva vissuto il soffocamento dei sentimenti che l’hanno posseduta durante i suoi diciassette anni, il primo corteggiamento, Egisto forse, un amore strozzato da quelle frasi che l’ingegnere Ugo le faceva propinare da Clelia, la governante: “La tua posizione sociale non ti consente di avere amichetti prima della laurea, rovineresti la reputazione e l’onorabilità della tua famiglia”, “Hai un nome da non infangare, tua madre ne morirebbe di dolore”, “Solo le civette si fanno accompagnare dai giovanotti, la tua è una famiglia onorata”. Intanto era già luglio ed al Liceo Mazzini Rosetta conseguiva la maturità classica a pieni voti. “L’ambiente universitario spesso trascina le giovani verso la perdizione, non ci si può fidare di nessuno!”, e gli anatemi della governante le riempivano il cervello: “Ormai sei alla soglia della laurea, dopo potrai fidanzarti, prima sarebbe un comportamento da gente poco seria ed irresponsabile, sai come la pensa l’ingegner Ugo e come tua madre, morirebbero di crepacuore”. A Rosetta non era consentito uscire con le amiche dopo una certa ora, nemmeno a laurea conseguita, e lei non ne mostrava gran voglia, stante che Egisto, l’unico ragazzo di cui s’era innamorata da signorinella e che aveva amato in silenzio, le aveva partecipato il suo fidanzamento con Marisa, sua collega, che s’era laureata anch’essa architetto e nello stesso giorno; forse si spiega così l’enigma della foto stropicciata.
Rosetta aveva una sensibilità romantica che mal si intonava con la banalità quotidiana. Ogni di si svegliava sperando che qualcosa, in quel giorno, avrebbe dato un fremito nuovo alla sua vita. Le giornate si alternavano l’una all’altra ed ogni mattina, dall’esterno provenivano i consueti rumori della vita che riprendeva il suo corso dopo la pausa della notte.
Finiti i lavori in cucina, dopo cena, Clelia non si soffermava più in salotto a seguire i programmi televisivi, sembrava presa da irrequietezza, come se fosse una liberazione accomiatarsi da tutti, speditamente si affrettava a raggiungere la sua camera in fondo al viale.
Rosetta è incuriosita dal comportamento di Clelia. Una sera, scostando le tende della camera, scorge un’ombra in fondo al viale. Un uomo entra nella dependance dove dorme Clelia. Quale segreto cela la sua governante? Approfittando delle calde notti dell’estate romana, Rosetta decide di far luce sul segreto di Clelia. Apre l’armadio e indossa una sciarpa in seta, poi socchiude la porta dietro di sé. Eterea, a piedi nudi, percorre l’intero viale. L’ombra degli abeti, compagni di tante notti, le fa strada verso la dependance. Si ferma, ascolta i sussurrii che provengono da quella camera, voci fioche e piene di passione, interminabili sospiri, parole dal significato profondo intervallate da interminabili silenzi. Sbircia tra le pieghe delle tende e vede i corpi incantati ed avvinghiati dei due amanti. Rimane turbata e ad occhi chiusi vagheggia. Perché tutto quanto è lecito a quella donna che era stata la fonte della sua morale, per lei è stato sempre tabù? Domanda raccapricciante la sua, piena di inquietudine e di crescente rabbia. Non sono mai esistiti due mondi, uno per le ragazze come lei e l’altro per le governanti cariche di morale! Accarezza quasi con lo sguardo la bellezza di quell’attimo e riaffiorano nella sua mente sentimenti a lungo sopiti. Quanto aguzzini sono stati i suoi genitori! Nella prigione dorata, non le avevano fatto vivere la sua giovinezza, i loro pregiudizi l’avevano relegata ad una verginità forzata, ad una vita quasi monacale che le aveva fatto scordare il mondo al di la del muro. Per la prima volta Rosetta odiava la sua casa, quel giardino che le era stato compagno, quelle piante sotto le quali aveva letto e studiato, quella camera dai colori pastello, quell’ogliastro che il padre aveva piantato per lei alla sua nascita. D’un tratto il suo turbamento si trasforma in morbosa curiosità, ritorna a sbirciare tra le tende e coglie gli attimi interminabili di passione dei due amanti che liberano in quel talamo i più scatenati istinti, senza riserve, senza preclusioni, senza l’ombra dei pregiudizi e, i gemiti, sempre più intensi, diventano grida. I corpi diventano uno solo ed il silenzio marca in ambedue l’apoteosi del loro piacere consumato. E’ notte fonda, il tempo è trascorso fulmineo, la brezza della notte costringe la ragazza a coprire le sue spalle con la sciarpa, nella sua camera le luci fioche dell’abat-jour la richiamano ma all’orizzonte i primi albori a forza avanzano, preparando la strada all’aurora. La ragazza si sofferma davanti la sua camera, si appoggia ad uno stipite ed accompagna con gli occhi il diradarsi lento delle ombre . E’ l’alba di un nuovo giorno. Una vita nuova.
Rosetta si scopre piena di passione. I suoi movimenti diventano sempre meno eleganti. Facile agli impulsi, allontana davanti a se il passato che, come un ermo colle, per molto tempo le ha precluso la vita. Ogni notte si presentano come abnormi forme gli amplessi di Clelia, la turbano, le fanno nascere desideri, la fanno agitare, le fanno perdere la ragione, le rubano il sonno. Nel suo corpo l’entropia degli ormoni, nella sua mente continue mutazioni. Rosetta, che non ha mai esternato alcuna emozione negativa per alcuno, principia a conoscere l’invidia, la stizza e financo l’odio.
I pregiudizi, queste odiose “lune d’argilla”, sono stati i suoi padroni, hanno determinato la sua vita. Le lune d’argilla vivono di luce riflessa, così come ogni falso ego, che si erge a muro per proteggere l’uomo dalle paure più assurde e dalle angosce più profonde che un illuminato Indù definì “draghi di carta”, illusioni. Il falso ego, meditò Rosetta, vive come una luna che ponendosi davanti al nostro Sé più autentico, eclissa la luce che ognuno di noi potrebbe emanare per rendere più vera e autentica la propria vita e quella degli altri. Fu a questo punto che volle fare una riflessione su un’altra parola, un nome, un epiteto che è sinonimo di paura, di male, Belzebù. Gli ebrei davano al diavolo, alla quintessenza del male, proprio questo nome. Ebbene, stranamente, il significato letterale di Belzebù dice chiaramente che il potere del male è solo apparenza, inganno, illusione, menzogna e, in ultimo, pregiudizio. Nei fatti, Belzebù, tradotto letteralmente, è “signore delle mosche”, un epiteto che suscita il ridicolo, il patetico. Qualcosa o qualcuno che nella realtà vera del mondo come la creazione, la meraviglia, lo stupore, il miracolo, la varietà, ha il potere di comandare solo sulle mosche, dunque, un titolo e un potere riduttivo. William Golden, noto scrittore inglese e premio Nobel per la letteratura, a tal proposito, scrisse un libro di grande successo dal titolo “Il signore delle mosche”, dove è contenuta un’analisi serrata dei meccanismi psicologici inconsci che mettono in moto il nostro falso ego e che prendono origine dalla paura dell’ignoto, dai bisogni primari di sopravvivenza e organizzazione sociale, in grado di soddisfare questi bisogni nel modo, apparentemente, più economico, ovvero, con la violenza e l’esclusione dell’altro da Sé. Come conseguenza, assurdi sacrifici ad altri “signori delle mosche” e agli archetipi delle nostre paure inconsce. In ultimo, con la persecuzione del diverso, di colui che non accetta le regole piramidali di una società che semplifica e soddisfa i propri bisogni con la violenza. Stranamente, però, in questo mondo e in questo universo si può definire paradossale chi persegue la logica del pregiudizio e della violenza verso gli altri, come per Ate, cioè per maledizione divina, ne è esso stesso vittima. Ogni azione violenta contro “l’altro da Sé”è destinata a ricadere su chi questa logica persegue, in una coazione a ripetere che è danno, incapacità ad incedere. Tutto questo è semplice da spiegare, infatti, l’uomo che vive nel pregiudizio sbaglia, dimenticando di essere solo una piccola parte di una totalità più vasta di cui partecipa, ovvero l’umanità e il mondo di cui fa parte e da cui deriva, allora, vive una fase egocentrica ed è incapace di uscirne per paura. Stranamente la psicoanalisi ha scoperto che ciò che noi rimuoviamo e riteniamo inaccettabile e che generalmente neghiamo, vive nel nostro inconscio di vita propria, si costituisce come seconda personalità e, più questa viene negata e perseguitata, più diventa forte e ci si contrappone. Solo il riconoscere che “l’altro da Sé” non è nient’altro che un possibile noi, porta ad un abbassamento della tensione e del conflitto interiore, tanto che, l’accettazione del diverso diventa guarigione e ricchezza per chi, in questa difficile impresa, riesce ad amare ed accettare chi si ritiene, con pregiudizio, nemico e pericoloso.
Cristo diceva che amare gli amici è facile, difficile è amare i propri nemici! Il perseguire e perseguitare il diverso da noi porta perciò al vero male, ad una scissione della psiche che in analisi viene definita come schizofrenia. Anche qui il diavolo può darci una mano a capire di cosa siamo vittime, essendo “diavolo” un termine che in greco significa dividere in due, ovvero negazione di una parte di se che, per pregiudizio, si ritiene inaccettabile.
La natura, il creato, nel senso più vasto del termine, per una esigenza evolutiva di tipo ontogenetico, ha posto in ognuno di noi l’esigenza di trovare un’armonia nella totalità dell’essere e la spinta a raggiungere una completezza che, in definitiva, è ricchezza e, se è consentito un neologismo, eu-evoluzione (evoluzione buona) a cui opporsi, che causa il malessere e la nevrosi. Si viene ad innescare così uno strano meccanismo, da definire gioco crudele che fa del pregiudizio e di chi lo pratica, vittima e carnefice di se stesso. In ultima analisi, il pregiudizio è antieconomico perché rifiuta la ricchezza della varietà e della diversità. Una volta praticato e lanciato, torna indietro come un boomerang per colpire chi lo scaglia. Come in un gioco di specchi che, a riflesso oppone altro riflesso identico, che ha uguale forza e uguale intensità nell’opporsi, generando il “polèmos”, il conflitto interiore e sociale. La capacità, invece, di aprirsi agli altri, a ciò che apparentemente è diverso da noi, ma che con noi partecipa di un valore più alto, che è l’umanità e la conoscenza vera nello spirito di un riconoscimento di fratellanza, è anche la capacità di arricchirsi di cose nuove. La capacità di vivere la vita come un’avventura alla scoperta di ciò che da noi è diverso, porta alla comprensione e ad una pacificazione del vero io interiore che, di luce propria vive e non necessita di modellarsi con meccanismi assurdi di difesa. “Avventura”, dal latino “ad ventura”, cioè andare incontro a ciò che deve avvenire, un viaggio nella vita e dentro noi stessi, alla scoperta della vita, dove anche il rischio, gioca un suo ruolo fondante. Scoprire il mondo e le sue meraviglie anche nei risvolti che all’apparenza sembrano assurdi, contraddittori, pericolosi, estranei, non graditi è, in ultimo, il senso vero della vita; se così non fosse, bisognerebbe giudicare assurdi, pericolosi e folli i versi di Dante che fa dire ad Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza”. Questo verso ha trovato collocazione a Cape Canaveral, ai piedi della base di lancio dell’Apollo 11, dove per primi alcuni uomini partirono alla conquista e alla scoperta della luna, quella vera, quella che illumina la notte, ispira i poeti e fa sognare gli amanti, un verso che vuole ricordare agli uomini che il vero propellente della scoperta e della conquista è, e resta, la conoscenza, strumento vero dell’evoluzione. E’ possibile affermare che la virtù e la verità non stanno nella parzialità e, a maggior ragione, nel pregiudizio che ne è il paladino e il difensore più strenuo. Virtù e verità, stanno nella totalità delle cose e chi nega queste verità vive nel pregiudizio, nella menzogna e nell’autoinganno, generando sofferenza. I pregiudizi, hanno la qualità propria dell’argilla, quella di mutare forma e di adeguarsi alle necessità del momento, secondo le esigenze ed i bisogni del falso ego, nell’illusoria speranza di farci pagare il prezzo più basso e ricavare il maggiore guadagno.
Il pregiudizio ha la stessa capacità di Proteus, il mitologico mostro capace di assumere ogni forma per sopravvivere e sopraffare, fin che un eroe, nel compimento del suo destino, non lo svela e lo uccide. Cambiare forma in modo proteiforme, vale quanto le ragioni che sostengono i pregiudizi, logiche ed accettabili in apparenza, sufficienti alla ragione perché comodi per le paure e le vigliaccherie quotidiane. Il pregiudizio soddisfa pienamente il falso ego, un ego che dimentica di essere solo una parte del tutto, una parte che, se non in armonia con “l’altro Se”, non ha valore alcuno.
Albert Einstein disse in proposito: è più facile spaccare un atomo che un pregiudizio!
Buona lettura.
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Complimenti per il blog!
RispondiEliminaIl bene e il male, due facce della stessa medaglia. Ottimo lavoro!
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