L'usura, una piaga che affligge l'intero mondo. L'usura si coniuga spesso con l'avarizia, vivono in simbiosi e allignano sul terreno dell'aridità e della non cultura.
Mario Scamardo
I RACCONTI DEL BORGO
LA PREFICA
Quando don Peppino Mocco l’usuraio fu
colpito da infarto, la signora Paolina, sua moglie, cominciò a trovarsi fra le mani le
prime banconote di grosso taglio. Non ne aveva mai vista una che superasse la
soglia delle cinquemila lire e, a fine settimana era obbligata a rendicontare
al marito ogni spesa, dall’ago al rocchetto di cotone, dalla saponetta alla
lampadina che s’era fulminata. Non aveva parenti Peppino Mocco oltre a sua
moglie, o meglio, li aveva ma stante alla sua avarizia e alla nomea di strozzino,
nessuno da anni l’aveva più
avvicinato, e lui di ciò era
felice, in quanto non aveva mai nessuno a pranzo, non faceva regali, non gli gironzolavano
bambini per casa, non doveva provvedere neppure ad acquistare delle caramelle.
Costretto dall’immobilità a letto, istruì la signora Paolina sulle
scadenze di riscossione dei malcapitati a cui aveva prestato del denaro a tassi
elevatissimi, le consegnò una
scatola di scarpe piena di cambiali da portare in banca alle scadenze segnate
ma non le affidò una
chiave che portava appesa al collo con la quale apriva un bauletto in metallo
riposto sotto il letto contenente parecchi milioni di lire in banconote di
grosso taglio, mazzette da cinquecentomila, mazzette da centomila, mazzette da
cinquantamila e mazzette da ventimila, una fortuna!
Quando dopo un paio di mesi il respiro
diventò
affannato don Peppino acconsentì che
uno specialista cardiologo venisse da Palermo e lo visitasse a casa sua ma,
ultimata la visita, dopo che il
professionista gli prescrisse i farmaci, l’anziano usuraio ebbe quasi un collasso nel sentire che la parcella era
di quattrocentomila lire, tirò da
sotto il cuscino un portafogli, cacciò fuori quattro biglietti da cento e non rispose neppure al saluto del
medico che usciva. Fino a sera non disse una parola, era come se gli fosse
morto un parente caro e, quando la moglie gli portò su un vassoio una pastina,
per il dispiacere rifiutò di
mangiarla, allungò la
mano sul comodino, prese la ricetta con l’elenco delle specialità
prescritte e le contò:
-
Otto pillole diverse per trenta giorni, otto scatole, vuole rovinarmi questo
dottore! Io i soldi li ho sudati, sono
stato un pazzo a farmi visitare!
La
moglie non disse una parola, gli rimboccò le coperte e nell’altra
stanza continuò ad
appuntare scadenze e mettere in ordine cambiali, nessuno comprò mai quelle medicine.
Peppino Mocco aveva frequentato le
elementari fino alla terza classe, ma in quasi cinquant’anni di usura era diventato
un esperto di aritmetica, aveva cominciato col libretto dei conti fatti ma l’esercizio di quell’orrenda professione lo aveva
portato a calcolare ratei, interessi e percentuali a memoria, senza mai incorrere
in un errore. L’esborso
di qualunque cifra, anche modestissima, anche la bolletta della luce, gli
procurava malesseri, lo faceva star male e lo faceva innervosire, spesso non
parlava neppure con la moglie e se la bolletta era un po’ salata, allora cominciava a
spegnere le luci di casa, sollecitava la moglie di stirare solo le camicie e,
non le aveva mai comprato una lavabiancheria perché sosteneva che la moglie si
sarebbe annoiata senza far nulla. Quando gli portarono a casa un frigorifero,
si informò
oltre che sul prezzo, sul possibile consumo, allora lo fece portare indietro
cambiandolo con uno piccolissimo, uno dei frigobar che si trovano negli
alberghi. Anche quando comprava la carne ne ordinava due fettine che non
superassero 150 grammi, si giustificava col macellaio che anche sua moglie
aveva una predisposizione alla gotta.
Un mattino la signora Paolina nel portare
la colazione al marito si accorse che la difficoltà respiratoria era accentuata,
gli sollevò il
capo e timorosa gli chiese:
- Peppino,
credo che tu debba riflettere un pochino sul tuo stato di salute, che importa
quanto costa la visita dello specialista, tu continui a peggiorare!
Con
un filo di voce don Peppino rispose:
-
Magari comprami quelle medicine, ritornando il medico, sempre quelle mi
prescriverebbe! …Perché farsi rubare i soldi?
Nel
paese i debitori seppero la notizia e quasi tutti tirarono un sospiro di
sollievo, e tutti da quel momento passavano a chiedere interessati sul suo
stato di salute ed in cuor loro speravano che il Mocco tirasse le cuoia, ma
quando parlavano fingevano dolore e preoccupazione.
Quando la signora Paolina spazzava l’uscio ed il marciapiedi,
regolarmente transitava Eufemia, si fermava, chiedeva del marito e facendo dei
strani segni, si allontanava a capo chino. Eufemia era considerata in paese una
guaritrice, toglieva il malocchio, curava le storte alle caviglie o ai polsi,
recitava gli scongiuri contro il morso delle api, delle vespe, dei serpenti,
preparava pozioni contro lo spavento e quelle per sciogliere o legare una
coppia di fidanzati. Quando moriva qualcuno, veniva chiamata assieme a sua
figlia, che era gibbosa, in qualità di prefica, per piangere il morto al posto dei parenti. Per quest’ultima attività si faceva pagare duemila
lire all’ora e
duemila per la figlia, per tutte le altre non riscuoteva denaro ma solo qualche
dono in alimentari di ogni genere.
Quando un mattino vide davanti l’uscio la signora Paolina,
come al solito si avvicinò e le
chiese di visitare il marito, dopo avere fatto dei gesti strani. La moglie di
don Peppino la fece accomodare, si recò dal marito, gliene parlò e, considerato che la sua opera era gratuita, accompagnò Eufemia in camera da letto.
Sedette ai piedi del letto la prefica, si segnò ed invitò ambedue a segnarsi, poi recitò una preghiera strana ad una santa e chiese alla moglie di portarle un piattino con l’olio, una saliera, un moccolo di candela e tre spicchi d’aglio, quindi si raccolse in meditazione. Don Peppino seguiva, forse era scettico, ma per il semplice fatto che tutto non gli costava il becco di un quattrino, la fece operare e, quando la donna, leggendo le scatole delle compresse disse che erano stati soldi sprecati, ricevette l’assenso col capo del paziente.
Sedette ai piedi del letto la prefica, si segnò ed invitò ambedue a segnarsi, poi recitò una preghiera strana ad una santa e chiese alla moglie di portarle un piattino con l’olio, una saliera, un moccolo di candela e tre spicchi d’aglio, quindi si raccolse in meditazione. Don Peppino seguiva, forse era scettico, ma per il semplice fatto che tutto non gli costava il becco di un quattrino, la fece operare e, quando la donna, leggendo le scatole delle compresse disse che erano stati soldi sprecati, ricevette l’assenso col capo del paziente.
Accese
la mezza candela, pose i tre spicchi d’aglio sulla fronte del Mocco, intinse il dito nell’olio, poi lo infilò nella saliera, scostò il pigiama e gli strofinò il dito sul cuore tracciando
trentatrè
croci, quindi si fermò. Gli
occhi della prefica si posarono sulla chiave attaccata ad una catenina al collo
di Peppino ed il suo piede toccò il piccolo baule sotto il letto e, quando si
abbassò per rimboccare le coperte, lo vide nella sua
interezza. Notò il
portafogli gonfio sotto il cuscino, ma avvertì la moglie:
-
Signora Paolina, stia attenta, il portafogli di suo marito sta per cadere a
terra.
L’usuraio con un gesto rapido
lo spinse un po’ più sotto e con gli occhi
ringraziò la
donna.
-
Domattina ritorno, fatemi trovare una bacinella con un po’ di acqua tiepida, l’olio e un asciugamano bianco.
Non c’è alcuna
fattura, solo un pizzico di malocchio, ma lo toglieremo in tre giorni.
Stranamente,
don Peppino si sentì
sollevato da quelle parole, e ordinò alla moglie di regalare ad Eufemia un pezzo di caciocavallo che era
in un armadietto della cucina.
Passarono
i tre giorni e l’usuraio
chiese alla sua donna di chiamargli il notaio che arrivò in serata per registrare le
sue volontà.
-
Voglio che nessuno dei miei parenti abbia un soldo, quindi a cominciare da
questa casa, tutto deve andare a mia moglie nell’eventualità che
dovessi morire; qualora morisse prima lei, lascio erede universale la mia
parrocchia, a condizione che alla mia
morte, nessuno si presenti a rendere omaggio alla mia salma, non ho visto i
parenti in vita, non voglio che siano presenti alla mia morte, si
trasformerebbero in sanguisughe, mignatte voraci, lupi famelici, zecche! Voglio
essere pianto, pianto tanto, ma solo da Eufemia la prefica e da sua figlia, con
una veglia di quarantotto ore, per cui saranno pagate novantaseimila lire alla
madre e altrettante alla figlia, per un totale di centonovantaduemila,
arrotondate a duecentomila perché desidero lasciare un segno tangibile della mia generosità, quattromila lire di
regalia, voglio che la gente continui a ricordarmi dopo il mio trapasso!
Come
se avesse avuto un presentimento, uscito il notaio, don Peppino Mocco reclinò il capo e nella notte passò a miglior vita.
Furono
avvertite le prefiche ed il prete e la moglie sbarrò la porta per non consentire
l’accesso ad alcuno, ma finalmente
tutte le luci di quella casa si accesero contemporaneamente.
In
tanti si soffermarono sull’uscio,
e si sentirono i pianti strazianti di Eufemia e di sua figlia, non un mazzo di
fiori, non una candela, non un lumino, don Peppino non avrebbe consentito tanti
sprechi, anche le lapidi per lui erano illusione per i vivi.
Nel
pieno della notte, mentre la signora Paolina dormiva su una vecchia sdraio,
Eufemia staccò dal
collo dell’usurario
la chiave, tirò
fuori il bauletto, lo aprì e
sistemò
quasi tutte le banconote attorno al gibbo della figlia, ripose il baule e
risistemò la
chiave attorno al collo del defunto poi, si rimise a fare i versi strazianti.
Quando il carro funebre si presentò alla porta, la gente era tutta sugli usci, capannelli di persone agli
angoli della strada non si davano spiegazione del fatto che nessuno aveva
varcato quella soglia per rendere omaggio ad una salma, ed anche il prete si
fermò a
far capannello e si informò sull’accaduto, e la domanda fu
sempre la stessa:
- A
chi li lascia tutti i suoi soldi? …In banca avrà
depositi per miliardi! … Chi
sarà il
fortunato?
Ed
anche il prete si pose una domanda:
-
Chissà, avrà lasciato qualcosa alla
parrocchia?
Don
Peppino non andava in chiesa proprio per non dare l’obolo!
Sistemata la salma nella cassa, Eufemia
fece uscire la figlia e le raccomandò di andare a casa e di chiudersi dentro fino al suo arrivo, poi si
portò nel
soggiorno e mentre la moglie dava l’ultimo sguardo al marito, in attesa che saldassero la bara, raccattò la scatola con le cambiali e
sgattaiolò
fuori dirigendosi verso casa, il tempo giusto di nasconderla in un posto sicuro
e ritornare indietro per accompagnare il morto in chiesa. Mossi da pietà cristiana, prima alcuni uomini, poi delle signore formarono un
piccolo corteo.
Nessuno
cercò
Eufemia, che scomparve con la figlia per un po’ di giorni, poi ricomparve e contattò ad uno ad uno i firmatari delle cambiali a favore di Peppino Mocco,
contrattò con
loro il dieci per cento del valore del titolo in cambio del titolo stesso con l’impegno della segretezza dell’operazione. Un bel gruzzoletto, in sei mesi intascò circa trenta milioni di
lire.
Tranne
pochi, quelli che non erano in debito con Peppino Mocco, si chiesero perché Eufemia avesse rinfrescato
la sua casa con un bel prospetto e avesse cambiato i mobili, ognuno manteneva
il suo segreto e sfuggiva alle domande.
Eufemia
continuò il
suo lavoro di guaritrice, continuò a recitare gli scongiuri, a togliere il malocchio e a piangere
davanti alle salme. Un mattino fece operare la figliola in una clinica da un
ottimo neurochirurgo che le raddrizzò la colonna, riducendo al minimo la scoliosi ed azzerando quasi la
gibbosità.
Quei soldi prelevati dal bauletto dell’usuraio erano serviti a rendere felice una fanciulla. Eufemia non se
la sentì di
tenersi il resto della somma, sapeva che la signora Paolina aveva ereditato una
fortuna, ma lei aveva sulla coscienza quell’appropriazione di denaro e ne sentiva il peso. Passò un mattino da una casa di
riposo per anziani gestita dalle suore, parlò alla madre superiora e confidò del suo proposito di devolvere a quella struttura tutti i soldi che
le rimanevano, inventandosi una piccola bugia, dicendo che in punto di morte le
erano stati affidati da don Peppino Mocco per donarli ai vecchi pensionanti
della casa. Volle trattenere per se appena i soldi per una piccola lapide in
marmo che fece scolpire.
Tre
giorni prima della commemorazione dei defunti si recò al cimitero, davanti alla tomba del Mocco, si
segnò e
lesse:
“Qui giace Peppino Mocco uomo
di mirabili virtù, la
moglie pietosamente pose”. Mirabili virtu? La pietà piglia sempre il sopravvento
e le lapidi sono quasi sempre bugiarde, la verità quasi sempre rimane attaccata negli attrezzi dello scalpellino. In
vita l’uomo
può
essere deriso, beffeggiato, schernito, ingiuriato, ma al suo trapasso, tutto si
annulla e allora, anche il peggiore degli uomini diventa buono, degno, pieno di
virtù!
Eufemia
si inginocchiò,
scartò la
sua piccola lapide con la scritta “uomo generoso”, tirò un tubo di mastice dalla
borsa e la incollò di
seguito alla scritta preesistente poi, accese un lumino. Si segnò nuovamente e, prima di
allontanarsi, quasi sottovoce sussurrò:
-
Grazie don Peppino, grazie dalla prefica e da sua figlia, ora puoi riposare in
pace!
Si può ironizzare anche sulla morte? ... Vi auguro una ottima lettura.