Mario Scamardo
I RACCONTI DEL BORGO
IL LADRO DI LUMINI
Alberto aveva appena sette anni quando nel
1957 una brutta influenza, l’asiatica,
gli rubò ambedue i genitori.
La
sua anziana nonna lo prese con se e lo accudì finché ebbe
le forze.
Una misera pensione da bracciante e una piccola resa scaturente dal
fatto che le due capre che erano del papà di Alberto, producevano quattro litri di latte al giorno e con la
vendita del latte le consentivano di non far mancare mai nulla sulla tavola del
fanciullo. Nell’orticello accanto alla modestissima casa crescevano rigogliosi
alcuni ficodindia e tutt’attorno cresceva buona erba. Dopo un mese che le capre
partorivano, nonna Laura vendeva i due capretti e tanto le serviva per vestire
il fanciullo e comprargli libri e quaderni.
Alberto a scuola seguiva con impegno e
meritava, ogni tanto, che il suo anziano maestro passasse da casa della nonna e
si complimentasse con lei.
Una volta la domenica, dopo la messa mattutina, in
compagnia della nonna si recava al cimitero, liberava la piccola lapide con le
foto dei genitori dagli aghi di pino che cadevano sul viale, tirava dalla borsa
della nonna un lumino e la scatola degli zolfanelli, lo accendeva e lo posava
ai piedi della tomba riparandolo dalle correnti d’aria, affinchè non si spegnesse e si
consumasse per intero.
Giunto il momento di prepararsi a fare la
prima comunione, Alberto iniziò il
suo corso pomeridiano di catechismo, nella sacrestia della parrocchia tenuto
dallo anziano sacerdote padre Salvatore. Il premio dopo la lezione di
catechismo era una fetta di pane con una spennellata di crema al cioccolato
preparata dalla sorella nubile del sacerdote ed una buona ora di giocare al calcio-balilla
o a tennis da tavolo in oratorio. Dopo circa un mese padre Salvatore introdusse
il tema della pietà, del
sentimento di compassione che si prova davanti alle sofferenze degli altri,
della commiserazione e della misericordia, della devozione e del culto e, a
proposito del culto, accennò a
quello per i defunti, al loro ricordo, al modo di esternare l’affetto per loro,
testimoniato con le visite ai cimiteri, al dovere di ricordarli nelle
preghiere, ai fiori da deporre sulle loro tombe, ai lumini da far ardere. Alberto
ascoltò il
suo parroco e capì un po’
di cose che per lui erano solo abitudini e nulla più. Consumata la fetta di pane
con la crema di cioccolato, invece che cercarsi il compagnetto per una partita
al bigliardino, si avvicinò a
padre Salvatore e chiese il permesso di parlargli in disparte.
Il sacerdote
incuriosito, lo portò con
se in chiesa, ambedue si segnarono e sedettero su un banco.
-
Dimmi figliolo, cosa vuoi chiedermi?
-
Nulla padre, una inezia, lei oggi ha parlato della pietà, del culto, di quello dei
defunti. Io vado tutte le domeniche, dopo la santa messa, in compagnia della
nonna, al cimitero. Porto due o tre garofani raccolti nell’orto, ed un lumino
che accendo ai miei genitori, avendo cura di ripararlo per farlo consumare fino
in fondo, ma mi accorgo che tutt’attorno i lumini non si consumano del tutto e
nessuno si preoccupa, una volta accesi, di ripararli dal vento.
Il
sacerdote, quasi a volerlo rincuorare, gli rispose:
-
Alberto, l’importante è che
i parenti si ricordino dei loro morti, il buon Dio apprezza il loro gesto, che è quello che conta, se poi i
lumini non si consumano del tutto, pazienza,
quella
è un’inezia, il valore sta
nelle intenzioni non nel consumarsi a fondo del lumino.
- Sa,
padre, mia nonna salta una volta la settimana la sua colazione e col latte che
risparmia compra una confezione da quattro lumini.
Il
sacerdote lo accarezzò,
infilò la
mano nella tasca della sua tunica e tirò fuori una caramella.
- Vieni
con me, andiamo in sacrestia. Tanti parrocchiani tutte le settimane provvedono
alle candele per la chiesa, portano tanti lumini, proprio in confezioni da quattro,
te ne darò
quattro confezioni, le porterai alla nonna e le dirai che non rinunci alla sua
colazione, il buon Dio non consente che ci si privi degli alimenti. Il lumino
acceso è
soltanto un simbolo, una testimonianza, un mezzo che ci permette di compiere un
atto di pietà.
Accompagnò il ragazzo sul sagrato e lo
guardò
allontanarsi verso casa, rientrò in
chiesa, si inginocchiò e
pregò.
Un mattino, mentre la nonna era nell’orto
a mungere le due capre, Alberto prese da una vetrinetta un lumino, si munì di un coltello, incise la
carta cerata che avvolgeva il cilindro, lo tirò fuori, notò che
in fondo c’era un lamierino rotondo con un foro al centro dove usciva lo
stoppino, poi tagliò il
cilindro in due e si rese conto di come era fatto, avvolse il tutto nella carta
del pane e lo ripose nel cassetto del suo comodino.
La domenica successiva, si recò come al solito al cimitero
con la nonna e, dopo aver compiuto il rituale pietoso accompagnò la vecchietta a casa e
ritornò in
quel luogo consacrato.
Il vecchio guardiano era sempre seduto sulla soglia della guardiola, la sua pipa fumava come una vecchia locomotiva, vedendo rientrare Alberto gli disse:
Il vecchio guardiano era sempre seduto sulla soglia della guardiola, la sua pipa fumava come una vecchia locomotiva, vedendo rientrare Alberto gli disse:
- Hai
dimenticato qualcosa figliolo?
- No
signore, ho voglia ancora di pregare sulla tomba dei miei genitori.
-
Capisco, sono cinquant’anni che vivo in mezzo ai morti, mi portano da mangiare
i miei figli, mi portano la biancheria, il sapone, qualche frutta, da quando
mia moglie è qui,
ci dormo pure, ogni tanto sento il bisogno di parlarle, allora mi siedo sulla
sua tomba e comincio un lungo monologo, poi raccatto tutti fiori appassiti e
cerco di riaccendere qua e la i lumini spenti, ma il vento, quasi a dispetto,
li spegne e sento l’odore della cera che brucia mentre fuma lo stoppino. Sai,
il silenzio qua è
imperante, gli unici rumori sono quelli delle pigne che cascano di tanto in
tanto e, nelle giornate uggiose il gracchiare delle taccole sulle cime dei
cipressi. E’ strano, ragazzo mio, qui è sempre primavera, tutto pieno di fiori, tutti i giorni, ed io so in
che periodo dell’anno siamo, proprio guardando i fiori, rose e margherite nella
bella stagione, crisantemi e tulipani in inverno. Lumini consumati nella bella
stagione, lumini spenti in inverno, questo è il mio calendario.
Alberto
sorrise, aspettò l’ulteriore
folata di fumo che fuoriusciva dalla pipa del guardiano e percorse il viale
centrale. Si fermò a
guardare ogni tomba, arrivò in
fondo al grande viale, poi percorse tutti i camminamenti, come se cercasse
qualcosa, accanto ad una cappella gentilizia sovrastata da un grande angelo in
marmo bianco, contò più di venti lumini, nessuno
acceso, solo un paio consumati a metà, il resto appena accesi e poi spenti. Riprese il vialone centrale, si
avviò all’uscita
e, dopo avere salutato il vecchio guardiano, si avviò verso casa.
Alberto pensò che fosse ora di imparare un mestiere, si recò dallo stagnaio che aveva
bottega accanto alla chiesa e chiese se poteva imparare quel mestiere, stagnare
le pentole di rame, saldare i manici nelle pentole di alluminio, confezionare
imbuti in lamiera zincata, confezionare “quartare”, recipienti per l’acqua, e
una serie di piccole riparazioni ai suppellettili di metallo. Lo affascinava la
forgia e il mantice che alimentava la fiamma fino a far diventare il metallo di
colore bianco. Dopo la prima settimana,
lo stagnaio infilò la
mano nella tasca del suo grembiule e gli diede la prima paghetta, duecento
lire, l’equivalente di due litri di latte. Alberto imparò subito il mestiere e la sua
paga diventò dopo
tre mesi di mille lire, dieci litri di latte, allora pensò di valere quanto una capra.
Quando lo stagnaio andava fuori a montare una
grondaia o qualcos’altro, Alberto con le cesoie ritagliava dalle strisce
inutilizzate della lamiera, tanti piccoli tondini sul modello di una moneta da
cinque lire, li forava al centro e li conservava in un sacchetto. Poi confezionò una piccola pentola con in
cima un imbuto dalla cannuccia sottile. Un pomeriggio passò dal merciaio e comprò due
grossi gomitoli di spago bianco, un po’ di fogli di carta cerata di colore
rosso ed paio di cartoncini anch’essi cerati .
La sua cartella di cartone pressato era
ancora attaccata in fondo ad una parete della sua cameretta, la liberò dal sussidiario, dai
quaderni, dal suo libro di lettura e la spolverò. La domenica mattina, dopo avere riaccompagnato nonna a casa,
sgattaiolò
dentro il cimitero e, tomba per tomba, raccolse tutti i lumini spenti, aspettò che il vecchio custode si
allontanasse e ritornò
senza destare sospetti . Fuori, nell’orto, si mise a lavorare ai fogli di carta,
al cartoncino, ai fondelli in lamierino dotandoli dello stoppino, si procurò della colla e, quando i
recipienti furono pronti, sciolse la cera nella sua pentola e la versò, aspettando che si
raffermasse. Era meticoloso nel suo lavoro, i lumini sembrava fossero usciti da
una fabbrica, non avevano una scritta, ma erano perfetti. Si trovò una scatola e li portò da una vecchia merciaia che
glieli pagò
venti lire ciascuna per poi rivenderle a quaranta.
Seicento
lire, una bella cifra, calcolò che
cento lire gli era costata la carta oleata, il cartoncino e lo spago, allora
pensò che
si poteva fare di più,
anche perché la
nonna, in condizioni precarie di salute, non poteva più badare alle due capre, non
poteva più
mungerle e non poteva più
tagliare l’erba o raccogliere le pale dai fichidindia. Un pomeriggio di sabato
si recò in
chiesa e raccontò al
suo parroco tutto quanto. Il vecchio sacerdote sorrise, lo condusse in
sacrestia, aprì una
cassa dove c’erano tutti i mozziconi di candela, tanti, ma tanti da potere
realizzare centinaia di lumini e gli disse:
-
Porta un sacco domani, questi mozziconi sono tutti tuoi, io te li conserverò ed una volta al mese li
verrai a ritirare.
- Grazie,
padre Salvatore, ne confezionerò una
scatola solo per la chiesa.
Il
sacerdote sorrise, lo portò
davanti un altare della navata di destra e gli fece notare che i lumini rossi
senza alcuna scritta erano già
arrivati in chiesa da parte dei fedeli.
- Non
portarli, vendili alla merciaia, qualcuno li porterà qua, molti si spegneranno e
io li metterò
nella cassa dei mozziconi, ed il ciclo
ricomincia.
Alberto programmò il suo lavoro in maniera
che, durante la settimana avesse pronti i lumini vuoti e la domenica pomeriggio
potesse colarvi dentro la cera, mentre al mattino, ancor prima che fosse pronta
la nonna, scavalcando il muro di cinta, raccoglieva tutti i lumini spenti.
Confezionare
lumini fu un lavoro, ma anche un gioco, il ragazzo difficilmente si trastullò con i compagni della sua età, volte sporadiche all’oratorio.
Il vecchio custode del cimitero, che ogni
mattina passava in rassegna tutte le tombe, notò che mentre i fiori, secchi o freschi inondavano quel camposanto, i
lumini scomparivano e quelli che c’erano risultavano sempre accesi. Strano,
pensò, i
parenti sono diventati tutti diligenti da togliere quelli spenti e lasciare
quelli accesi, e perché no
con i fiori appassiti! Controllò i
cassonetti della spazzatura posti sul viale centrale ma non vide l’ombra di un
lumino spento, diede un paio di boccate alla pipa e si preparò mentalmente per scoprire il
mistero. Ogni pomeriggio prima della chiusura faceva il suo giro, lumini accesi
e lumini spenti ma, la domenica pomeriggio notò che erano spariti i lumini spenti, allora nella notte del sabato il
ladro aveva passato in rassegna le tombe! Calzò il suo vecchio pastrano di velluto a coste, calcò sul capo il suo cappello
gallonato e, pipa in bocca, si recò alla stazione dei carabinieri che distava appena cento metri, bussò, entrò e raccontò al comandante di stazione
quello che era accaduto.
- E
voi pensate ad un ladro che ruba i moccoli dei lumini?
- Si
maresciallo, non è mai
successo, sono cinquant’anni che nessuno piglia qualcosa dal camposanto!
- Ma
voi non credete agli spiriti!
-
Comandante, io ci dormo i sonni più tranquilli in quel luogo santo, non ho mai visto muovere una foglia! L’unico
rumore lo fanno le taccole e i corvi nelle giornate uggiose.
- Ma
voi avete visto mai i corvi mangiare la cera, o le taccole, o i conigli?
- Mi
avete messo un dubbio in testa, da un po’ di tempo vedo anche delle gazze, un
bel numero di gazze che prima non c’erano, io non so se le gazze mangiano la
cera.
Il
vecchio custode si alzò, tirò fuori la scatola degli
zolfanelli, accese la sua pipa, inondò la stanza di fumo, salutò ed imboccò l’uscita.
Il comandante di stazione guardò in
faccia il carabiniere che aveva appuntato su un brogliaccio il racconto e
sorridendo disse:
- Bisognerà interrogare taccole corvi e gazze, povero vecchio, sarebbe ora che
andasse in pensione.
Il
mattino dopo il maresciallo si incontrò in farmacia col parroco e per strappargli un sorriso gli raccontò dell’incontro col custode
del cimitero. Il parroco che sapeva di Alberto disse al comandante:
- Vedrà, oggi pomeriggio verrà da me, ritenendomi uno che
conosce lo scibile umano, mi chiederà se le gazze sono ghiotte di cera, ed io gli dirò che sono ghiotte e che non
mangiano i lumini accesi perché hanno
paura del fuoco.
Il
comandante sorrise, gli strinse la mano e andò via.
Dopo
l’incontro col sacerdote, anche il vecchio custode si convinse che bisognava
sistemare nel cimitero dei dissuasori per le gazze e la voce del ladro di lumini si sparse per l’intero
paese. I parenti si diedero un gran da fare, si attrezzarono di mortaretti a
tempo da sistemare accanto alle tombe, di fischietti che ad ogni quarto d’ora sibilassero
al soffio di bombolette, di marchingegni a pila che facessero frastuono. Il
sindaco, allertato dai cittadini, convocò il consiglio comunale ed ordinò persino al comandante dei vigili di censire gazze, piccioni, corvi,
taccole e segnalare la presenza di eventuali uccelli strani.
Il
vecchio custode sembrò
soddisfatto, ma il suo sonno non fu più tranquillo, fischietti, mortaretti, piccole sirene, marchingegni vari,
lo svegliavano ad ogni ora, la sua pace non era più. Avvilito, una notte smontò tutte le sorgenti di quel
continuo frastuono, accatastò
tutto in un angolo e si recò in
paese, dal barbiere, grossa camera di risonanza, per dare la lieta notizia che
il ladro di lumini era stato
sconfitto, con la sua armonica a bocca, quando arrivavano le gazze, intonava
una marcetta militare e gli uccelli volavano via lasciando intatti i lumini.
Alberto,
consigliato dal suo parroco, lo andò a trovare una mattina e disse al vecchio custode che avrebbe
provveduto lui a togliere i lumini spenti, per evitargli di ricorrere allo
stratagemma dell’armonica e per far si che le gazze si abituassero a cercare
altrove le loro prelibatezze. Il vecchio non potè tirarsi indietro e il ragazzo, da quel giorno, con la sua
autorizzazione, tolse tutte le domeniche, al mattino, tutti i lumini spenti,
evitando così alle
gazze di rubarle.
Ottima lettura, se vi va, lasciate le vostre impressioni in un commento.
racconti che riportano indietro di 50 anni..i mille mestieri dell'Italia antica...povera e dignitosa..molto bello..
RispondiEliminaBellissimo e simpaticissimo racconto,,,,,un bambino ingegnoso,,intelligente e furbo,,ha messo nel sacco il vecchio guardiano del cimitero,,,,,
RispondiEliminaTra fantasia e realtà un narrare fantastico che coinvolge il lettore.complimenti!!!
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