Mario Scamardo
BELZEBU' IL SIGNORE DELLE MOSCHE
Divagazioni sul BENE E SUL MALE
BELZEBU' IL SIGNORE DELLE MOSCHE
Divagazioni sul BENE E SUL MALE
Il bene e il male
In filosofia la dicotomia
bene/male appartiene soprattutto all’etica, che la intende come opposizione fra
ciò che possiede un valore morale, ovvero ciò che è desiderato e appetito
dall’uomo e ciò che è moralmente cattivo o sbagliato, ovvero ciò che arreca
danno, dolore sofferenza. Oltre che all’etica, la dicotomia bene/male ha
operato nella metafisica e nella teologia. Provo ad affrontare in maniera
semplice le principali concezioni, rispettivamente del bene e del male, che si
sono confrontate nella storia del pensiero filosofico.
Occorre innanzitutto
distinguere fra una prospettiva metafisica e oggettivistica di intendere il
bene, come la realtà suprema e perfetta che viene desiderata in quanto tale, e
una concezione soggettivistica, che relativizza il bene in riferimento al
soggetto che lo desidera. Il modello della prima concezione è offerto dalla
filosofia di Platone, in cui il bene costituisce il vertice del mondo delle
idee: come il Sole dà vita alle cose sensibili e ne consente la visione, così
l’idea del bene è fonte di verità e di conoscenza del mondo ideale.
Riallacciandosi a Platone, nel III secolo d.C. Plotino fa coincidere il bene
con l’Uno, ossia col principio e la causa di tutto l’essere; in rapporto a esso
il male costituisce un non essere, così come un non essere è la stessa materia:
Plotino paragona alla zona d’ombra lasciata dal cono di luce proiettato dal
principio primo. Anche il pensiero cristiano della scolastica medievale
concepirà il bene come l’essere perfetto e lo identificherà con Dio: tutto ciò
che proviene da Lui è quindi bene, per quanto il grado di perfezione di ogni
cosa dipenda dalla posizione che essa occupa nella gerarchia degli enti, a
seconda che questi siano più o meno vicini a Dio. Tuttavia il pensiero
cristiano non potrà identificare la materia con il non essere e con il male,
essendo la materia stessa creata da Dio.
La teoria opposta a
quella metafisica del bene afferma che il bene è tale in relazione a un
soggetto che lo desidera. In altri termini esso non è desiderato perché è il
bene, ma è ritenuto bene perché è oggetto del desiderio. Nella sua forma più
coerente, la teoria soggettivistica fu affermata in età moderna da Hobbes, il
quale scrive: “L’uomo chiama buono
l’oggetto del suo appetito e del suo desiderio, cattivo l’oggetto del suo odio
e della sua avversione”. Anche Spinoza si muove in questa prospettiva
quando afferma che “noi non cerchiamo,
vogliamo, appetiamo una cosa perché riteniamo che sia buona; ma, al contrario,
noi giudichiamo buona una cosa perché la cerchiamo, la vogliamo, la appetiamo,
la desideriamo”. Pur mantenendosi all’interno di una prospettiva
soggettivistica, Kant fece valere l’esigenza di universalità del bene che era
propria della teoria oggettivistica: egli infatti sostenne da un lato che buono
non può essere detto di un oggetto o un’azione in quanto tali, ma solo della
volontà buona, dall’altro concepì quest’ultima come una volontà che si
determina secondo una legge morale universale.
Non sono mancate nella
storia del pensiero dottrine intermedie fra quelle oggettivistica e
soggettivistica del bene. Socrate identifica la virtù nella scienza del bene e
del male e afferma che nessuno commette il male volontariamente, ma solo perché
ignora ciò che è il bene; quest’ultimo, nella concezione di Socrate, riguarda
essenzialmente l’anima. L’identificazione fra bene, virtù e felicità diventerà
importante nelle teorie etiche (dette “eudemonistiche”)
successive a Socrate. Dal canto suo Aristotele intende il bene come “ciò cui ogni cosa tende”, e dunque, nel
caso dell’uomo, la felicità come fine ultimo cui egli aspira: nel senso più
pieno essa consiste nella vita contemplativa, ma accanto a essa si dispongono
anche altri beni di ordine pratico. Aristotele intende così il bene in relazione
all’uomo, ma d’altronde concepisce anche una gerarchia di beni secondo il loro
grado di perfezione, avvicinandosi così alla teoria oggettivistica del bene.
Il problema della natura
e dell’esistenza del male è alla base anzitutto delle principali religioni,
passando poi alla filosofia e dando luogo a soluzioni che oscillano fra la
negazione dell’esistenza del male e la negazione dell’onnipotenza di Dio.
Secondo l’insegnamento
indù, per voler fare un esempio, il male non esiste poiché fa parte del mondo
illusorio dei fenomeni; per lo zoroastrismo, antica religione persiana, così
pure per l’antica setta dei manichei, il male dipende dall’esistenza di una
divinità malvagia, contro cui è costretta a combattere la divinità buona. Nel
libro biblico di Giobbe non si dà ragione per le sue sofferenze: la Scrittura
suggerisce che le misteriose vie del Signore eccedono l’umana comprensione.
Nel III e IV secolo,
all’affermarsi della teologia cristiana, divenne urgente una trattazione
teorica del problema del male, poiché la dottrina del cristianesimo si fondava
sull’esistenza di un Dio onnipotente e buono, ma contemporaneamente riconosceva
la reale esistenza del male.
Col vertere del IV secolo
Sant’Agostino formulò la soluzione maggiormente accettata dai pensatori
cristiani successivi. Prima aveva accolto la teologia dualistica del
manicheismo, in un secondo tempo, dopo la lettura di opere neoplatoniche e
attraverso l’insegnamento di sant’Ambrogio, si convertì al cristianesimo ed
accettò la teologia cristiana di un Dio buono, creatore dell’universo, con la
presenza del male nel mondo.
Secondo Sant’Agostino il
male non può essere opera di Dio, perché quanto creato da Dio non può che
essere buono; il male, è privazione, o assenza di bene, così come il buio è
assenza di luce. Può accadere, tuttavia, che qualcosa, pur creato buono, si
corrompa, permettendo al male di insinuarsi nel mondo, qualora ogni creatura
dotata di libero arbitrio, angeli, demoni e uomini, rifiutino i beni supremi, o
assoluti, optando per quelli inferiori e relativi. Secondo Sant’Agostino, può accadere che, da
analisi immediata e superficiale, sia additata a male qualcosa che potrebbe
risultare bene se considerata sub specie aeternitatis; dalla prospettiva eterna
di Dio, ogni cosa è bene.
Le teorie agostiniane
esercitarono un profondo influsso sui teologi cattolici del Medioevo come san
Tommaso D’Aquino, e sui teologi della Riforma protestante, particolarmente su
Martin Lutero e Giovanni Calvino.
Gottfried Wilhelm
Leibniz, filosofo tedesco del XVII secolo, asserì l’irrealtà del male, definendo
il mondo creato da Dio il”migliore dei
mondi possibili” . L’ottimismo metafisico di Leibniz, durante
l’Illuminismo, venne criticato sia da Voltaire che da David Hume, i quali
respinsero la dottrina secondo cui la quantità di dolore immenso e la
sofferenza possono essere giustificati perché facenti parte di un benevolo
disegno divino.
La credenza nella
certezza del progresso fu indebolita dalle guerre e dalle persecuzioni del XX
secolo. Il male diventò l’oggetto di analisi di teologi e filosofi. In
relazione alla Shoah ci si è chiesti se la sofferenza estrema possa trovare una
giustificazione teologica. Sulla scia di Nietzsche alcuni pensatori hanno
teorizzato la non esistenza di Dio; altri, ripartendo dalla teoria di Giobbe si
sono fermati davanti alla imperscrutabilità delle vie del Signore. Il dibattito
sul bene e sul male rimane sempre aperto in quanto bene e male sono in eterna
lotta.
Sia nel pensiero del
primo cristianesimo che nella tradizione del tardo ebraismo, Satana, il
diavolo, fu visto come l’avversario di Dio. Certamente l’influenza dello
zoroastrismo che oppone le potenze del bene Ahura
Mazda ad Ahriman potenze del male, non si può escludere; sia nell’ebraismo
che nel cristianesimo il dualismo è relativo e temporaneo, essendo il diavolo
sottomesso a Dio. La letteratura apocalittica e quella apocrifa ci fanno
riscontrare decine di figure diaboliche ed angeli decaduti. Nei manoscritti del
Mar Morto si riscontrano dette figure ed il diavolo viene chiamato Belial , spirito del malvagio. In molte
correnti del pensiero rabbinico, il diavolo è collegato con “l’impulso malvagio”, e cristiani ed
ebraici convengono sulla possessione di Satana o da demoni che gli obbediscono.
Nel Nuovo Testamento Gesù
libera dal male in tutte le sue forme, anche quelle legate alla presenza del
diavolo. (Luca 10:18) Gesù disse: “Io
vedevo cadere Satana dal cielo come folgore”.
Una parte importante ebbe
il diavolo nel Medioevo, rappresentato sempre come creatura malvagia, munito di
corna, coda e zoccoli caprini, in compagnia spesso da demoni subordinati.
L’Islam, riconoscendo
l’ispirazione divina sia dall’ebraismo che dal cristianesimo, trasse da queste fonti
la raffigurazione del diavolo, riportato nel Corano col nome di Iblis, l’angelo
che rifiuta di inchinarsi ad Adamo. Allah maledice Iblis, lasciandolo però
libero di tentare gli incauti.
Proviamo a fare una riflessione su una parola, un nome, un
epiteto che è sinonimo di paura, di male, Belzebù,
e sul pregiudizio causa del male.
Gli ebrei davano al diavolo, alla
quintessenza del male, proprio questo nome. Ebbene, stranamente, il significato
letterale di Belzebù dice chiaramente che il potere del male è solo apparenza,
inganno, illusione, menzogna e, in ultimo, pregiudizio. Nei fatti, Belzebù,
tradotto letteralmente, è “signore delle
mosche”, un epiteto che suscita il
ridicolo, il patetico. Qualcosa o qualcuno che nella realtà vera del mondo come
la creazione, la meraviglia, lo stupore, il miracolo, la varietà, ha il potere
di comandare solo sulle mosche, dunque, un titolo e un potere riduttivo.
William Golden, noto scrittore inglese e premio Nobel per la letteratura, a tal
proposito, scrisse un libro di grande successo dal titolo “Il signore delle mosche”, dove è contenuta un’analisi serrata dei
meccanismi psicologici inconsci che
mettono in moto il nostro falso ego e che prendono origine dalla paura dell’ignoto,
dai bisogni primari di sopravvivenza e organizzazione sociale, in grado di
soddisfare questi bisogni nel modo, apparentemente, più economico, ovvero, con
la violenza e l’esclusione dell’altro da Sé. Come conseguenza, assurdi
sacrifici ad altri “signori delle mosche” e agli archetipi delle
nostre paure inconsce. In ultimo, con la persecuzione del diverso, di colui che
non accetta le regole piramidali di una società che semplifica e soddisfa i
propri bisogni con la violenza. Stranamente, però, in questo mondo e in questo
universo si può definire paradossale chi persegue la logica del pregiudizio e
della violenza verso gli altri, come per Ate, cioè per maledizione divina, ne è
esso stesso vittima. Ogni azione violenta contro “l’altro Sé” è destinata a ricadere su chi questa logica persegue,
in una coazione a ripetere che è danno, incapacità ad incedere. Tutto questo è
semplice da spiegare, infatti, l’uomo che vive nel pregiudizio sbaglia,
dimenticando di essere solo una piccola parte di una totalità più vasta di cui
partecipa, ovvero l’umanità e il mondo di cui fa parte e da cui deriva, allora,
vive una fase egocentrica ed è incapace di uscirne per paura. Stranamente la
psicoanalisi ha scoperto che ciò che noi rimuoviamo e riteniamo inaccettabile e
che generalmente neghiamo, vive nel nostro inconscio di vita propria, si
costituisce come seconda personalità e, più questa viene negata e perseguitata,
più diventa forte e ci si contrappone. Solo il riconoscere che “l’altro Sé” non è nient’altro che un
possibile noi, porta ad un abbassamento della tensione e del conflitto
interiore, tanto che, l’accettazione del diverso diventa guarigione e ricchezza
per chi, in questa difficile impresa, riesce ad amare ed accettare chi si
ritiene, con pregiudizio, nemico e pericoloso.
Cristo
diceva che amare gli amici è facile, difficile è amare i propri nemici! Il
perseguire e perseguitare il diverso da noi porta perciò al vero male, ad una
scissione della psiche che in analisi viene definita come schizofrenia. Anche
qui il diavolo può darci una mano a capire di cosa siamo vittime, essendo “diavolo” un termine che in greco
significa dividere in due, ovvero negazione di una parte di se che, per
pregiudizio, si ritiene inaccettabile.
La
natura, il creato, nel senso più vasto del termine, per una esigenza evolutiva
di tipo ontogenetico, ha posto in ognuno di noi l’esigenza di trovare un’armonia
nella totalità dell’essere e la spinta a raggiungere una completezza che, in
definitiva, è ricchezza e, se è consentito un neologismo, eu-evoluzione
(evoluzione buona) a cui opporsi, che causa il malessere e la nevrosi. Si viene
ad innescare così uno strano meccanismo, da definire gioco crudele che fa del
pregiudizio e di chi lo pratica, vittima e carnefice di se stesso. In ultima
analisi, il pregiudizio è antieconomico perché rifiuta la ricchezza della
varietà e della diversità. Una volta praticato e lanciato, torna indietro come
un boomerang per colpire chi lo scaglia. Come in un gioco di specchi che, a
riflesso oppone altro riflesso identico, che ha uguale forza e uguale intensità
nell’opporsi, generando il “polèmos”,
il conflitto interiore e sociale. La capacità, invece, di aprirsi agli altri, a
ciò che apparentemente è diverso da noi, ma che con noi partecipa di un valore
più alto, che è l’umanità e la conoscenza vera nello spirito di un
riconoscimento di fratellanza, è anche la capacità di arricchirsi di cose
nuove. La capacità di vivere la vita come un’avventura alla scoperta di ciò che
da noi è diverso, porta alla comprensione e ad una pacificazione del vero io
interiore che, di luce propria vive e non necessita di modellarsi con
meccanismi assurdi di difesa. “Avventura”,
dal latino “ad ventura”, cioè andare
incontro a ciò che deve avvenire, un viaggio nella vita e dentro noi stessi,
alla scoperta della vita, dove anche il rischio, gioca un suo ruolo fondante.
Scoprire il mondo e le sue meraviglie anche nei risvolti che all’apparenza sembrano assurdi, contraddittori, pericolosi, estranei, non graditi è, in ultimo, il senso vero della vita; se così non fosse, bisognerebbe giudicare assurdi, pericolosi e folli i versi di Dante che fa dire ad Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza”. Questo verso ha trovato collocazione a Cape Canaveral, ai piedi della base di lancio dell’Apollo 11, dove per primi alcuni uomini partirono alla conquista e alla scoperta della luna, quella vera, quella che illumina la notte, ispira i poeti e fa sognare gli amanti, un verso che vuole ricordare agli uomini che il vero propellente della scoperta e della conquista è, e resta, la conoscenza, strumento vero dell’evoluzione. E’ possibile affermare che la virtù e la verità non stanno nella parzialità e, a maggior ragione, nel pregiudizio che ne è il paladino e il difensore più strenuo. Virtù e verità, stanno nella totalità delle cose e chi nega queste verità vive nel pregiudizio, nella menzogna e nell’autoinganno, generando sofferenza. I pregiudizi, hanno la qualità propria dell’argilla, quella di mutare forma e di adeguarsi alle necessità del momento, secondo le esigenze ed i bisogni del falso ego, nell’illusoria speranza di farci pagare il prezzo più basso e ricavare il maggiore guadagno.
Apollo 11
Scoprire il mondo e le sue meraviglie anche nei risvolti che all’apparenza sembrano assurdi, contraddittori, pericolosi, estranei, non graditi è, in ultimo, il senso vero della vita; se così non fosse, bisognerebbe giudicare assurdi, pericolosi e folli i versi di Dante che fa dire ad Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza”. Questo verso ha trovato collocazione a Cape Canaveral, ai piedi della base di lancio dell’Apollo 11, dove per primi alcuni uomini partirono alla conquista e alla scoperta della luna, quella vera, quella che illumina la notte, ispira i poeti e fa sognare gli amanti, un verso che vuole ricordare agli uomini che il vero propellente della scoperta e della conquista è, e resta, la conoscenza, strumento vero dell’evoluzione. E’ possibile affermare che la virtù e la verità non stanno nella parzialità e, a maggior ragione, nel pregiudizio che ne è il paladino e il difensore più strenuo. Virtù e verità, stanno nella totalità delle cose e chi nega queste verità vive nel pregiudizio, nella menzogna e nell’autoinganno, generando sofferenza. I pregiudizi, hanno la qualità propria dell’argilla, quella di mutare forma e di adeguarsi alle necessità del momento, secondo le esigenze ed i bisogni del falso ego, nell’illusoria speranza di farci pagare il prezzo più basso e ricavare il maggiore guadagno.
Proteus
Il
pregiudizio ha la stessa capacità di Proteus, il mitologico mostro capace di
assumere ogni forma per sopravvivere e sopraffare, fin che un eroe, nel
compimento del suo destino, non lo svela e lo uccide. Cambiare forma in modo
proteiforme, vale quanto le ragioni che sostengono i pregiudizi, logiche ed accettabili
in apparenza, sufficienti alla ragione perché comodi per le paure e le
vigliaccherie quotidiane. Il pregiudizio soddisfa pienamente il falso ego, un
ego che dimentica di essere solo una parte del tutto, una parte che, se non in
armonia con “l’altro Se”, non ha
valore alcuno.
Albert
Einstein disse in proposito: è più facile spaccare un atomo che un pregiudizio!
Non essendo io
filosofo, ma un lettore di tutto quello che capita sottomano, vi chiedo venia
se qualcosa di questa modestissima divagazione
può presentarsi non chiara.
Grazie!