mercoledì 20 novembre 2013

Divagazioni sul BENE E SUL MALE - (20/11/2013)


         



Mario Scamardo


BELZEBU' IL SIGNORE DELLE MOSCHE
Divagazioni sul BENE E SUL MALE





Il bene e il male




In filosofia la dicotomia bene/male appartiene soprattutto all’etica, che la intende come opposizione fra ciò che possiede un valore morale, ovvero ciò che è desiderato e appetito dall’uomo e ciò che è moralmente cattivo o sbagliato, ovvero ciò che arreca danno, dolore sofferenza. Oltre che all’etica, la dicotomia bene/male ha operato nella metafisica e nella teologia. Provo ad affrontare in maniera semplice le principali concezioni, rispettivamente del bene e del male, che si sono confrontate nella storia del pensiero filosofico.

Occorre innanzitutto distinguere fra una prospettiva metafisica e oggettivistica di intendere il bene, come la realtà suprema e perfetta che viene desiderata in quanto tale, e una concezione soggettivistica, che relativizza il bene in riferimento al soggetto che lo desidera. Il modello della prima concezione è offerto dalla filosofia di Platone, in cui il bene costituisce il vertice del mondo delle idee: come il Sole dà vita alle cose sensibili e ne consente la visione, così l’idea del bene è fonte di verità e di conoscenza del mondo ideale. Riallacciandosi a Platone, nel III secolo d.C. Plotino fa coincidere il bene con l’Uno, ossia col principio e la causa di tutto l’essere; in rapporto a esso il male costituisce un non essere, così come un non essere è la stessa materia: Plotino paragona alla zona d’ombra lasciata dal cono di luce proiettato dal principio primo. Anche il pensiero cristiano della scolastica medievale concepirà il bene come l’essere perfetto e lo identificherà con Dio: tutto ciò che proviene da Lui è quindi bene, per quanto il grado di perfezione di ogni cosa dipenda dalla posizione che essa occupa nella gerarchia degli enti, a seconda che questi siano più o meno vicini a Dio. Tuttavia il pensiero cristiano non potrà identificare la materia con il non essere e con il male, essendo la materia stessa creata da Dio.

La teoria opposta a quella metafisica del bene afferma che il bene è tale in relazione a un soggetto che lo desidera. In altri termini esso non è desiderato perché è il bene, ma è ritenuto bene perché è oggetto del desiderio. Nella sua forma più coerente, la teoria soggettivistica fu affermata in età moderna da Hobbes, il quale scrive: “L’uomo chiama buono l’oggetto del suo appetito e del suo desiderio, cattivo l’oggetto del suo odio e della sua avversione”. Anche Spinoza si muove in questa prospettiva quando afferma che “noi non cerchiamo, vogliamo, appetiamo una cosa perché riteniamo che sia buona; ma, al contrario, noi giudichiamo buona una cosa perché la cerchiamo, la vogliamo, la appetiamo, la desideriamo”. Pur mantenendosi all’interno di una prospettiva soggettivistica, Kant fece valere l’esigenza di universalità del bene che era propria della teoria oggettivistica: egli infatti sostenne da un lato che buono non può essere detto di un oggetto o un’azione in quanto tali, ma solo della volontà buona, dall’altro concepì quest’ultima come una volontà che si determina secondo una legge morale universale.

Non sono mancate nella storia del pensiero dottrine intermedie fra quelle oggettivistica e soggettivistica del bene. Socrate identifica la virtù nella scienza del bene e del male e afferma che nessuno commette il male volontariamente, ma solo perché ignora ciò che è il bene; quest’ultimo, nella concezione di Socrate, riguarda essenzialmente l’anima. L’identificazione fra bene, virtù e felicità diventerà importante nelle teorie etiche (dette “eudemonistiche”) successive a Socrate. Dal canto suo Aristotele intende il bene come “ciò cui ogni cosa tende”, e dunque, nel caso dell’uomo, la felicità come fine ultimo cui egli aspira: nel senso più pieno essa consiste nella vita contemplativa, ma accanto a essa si dispongono anche altri beni di ordine pratico. Aristotele intende così il bene in relazione all’uomo, ma d’altronde concepisce anche una gerarchia di beni secondo il loro grado di perfezione, avvicinandosi così alla teoria oggettivistica del bene.

Il problema della natura e dell’esistenza del male è alla base anzitutto delle principali religioni, passando poi alla filosofia e dando luogo a soluzioni che oscillano fra la negazione dell’esistenza del male e la negazione dell’onnipotenza di Dio.



Secondo l’insegnamento indù, per voler fare un esempio, il male non esiste poiché fa parte del mondo illusorio dei fenomeni; per lo zoroastrismo, antica religione persiana, così pure per l’antica setta dei manichei, il male dipende dall’esistenza di una divinità malvagia, contro cui è costretta a combattere la divinità buona. Nel libro biblico di Giobbe non si dà ragione per le sue sofferenze: la Scrittura suggerisce che le misteriose vie del Signore eccedono l’umana comprensione.

Nel III e IV secolo, all’affermarsi della teologia cristiana, divenne urgente una trattazione teorica del problema del male, poiché la dottrina del cristianesimo si fondava sull’esistenza di un Dio onnipotente e buono, ma contemporaneamente riconosceva la reale esistenza del male.

Col vertere del IV secolo Sant’Agostino formulò la soluzione maggiormente accettata dai pensatori cristiani successivi. Prima aveva accolto la teologia dualistica del manicheismo, in un secondo tempo, dopo la lettura di opere neoplatoniche e attraverso l’insegnamento di sant’Ambrogio, si convertì al cristianesimo ed accettò la teologia cristiana di un Dio buono, creatore dell’universo, con la presenza del male nel mondo.

Secondo Sant’Agostino il male non può essere opera di Dio, perché quanto creato da Dio non può che essere buono; il male, è privazione, o assenza di bene, così come il buio è assenza di luce. Può accadere, tuttavia, che qualcosa, pur creato buono, si corrompa, permettendo al male di insinuarsi nel mondo, qualora ogni creatura dotata di libero arbitrio, angeli, demoni e uomini, rifiutino i beni supremi, o assoluti, optando per quelli inferiori e relativi.  Secondo Sant’Agostino, può accadere che, da analisi immediata e superficiale, sia additata a male qualcosa che potrebbe risultare bene se considerata sub specie aeternitatis; dalla prospettiva eterna di Dio, ogni cosa è bene.

Le teorie agostiniane esercitarono un profondo influsso sui teologi cattolici del Medioevo come san Tommaso D’Aquino, e sui teologi della Riforma protestante, particolarmente su Martin Lutero e Giovanni Calvino.

Gottfried Wilhelm Leibniz, filosofo tedesco del XVII secolo, asserì l’irrealtà del male, definendo il mondo creato da Dio il”migliore dei mondi possibili” . L’ottimismo metafisico di Leibniz, durante l’Illuminismo, venne criticato sia da Voltaire che da David Hume, i quali respinsero la dottrina secondo cui la quantità di dolore immenso e la sofferenza possono essere giustificati perché facenti parte di un benevolo disegno divino.

La credenza nella certezza del progresso fu indebolita dalle guerre e dalle persecuzioni del XX secolo. Il male diventò l’oggetto di analisi di teologi e filosofi. In relazione alla Shoah ci si è chiesti se la sofferenza estrema possa trovare una giustificazione teologica. Sulla scia di Nietzsche alcuni pensatori hanno teorizzato la non esistenza di Dio; altri, ripartendo dalla teoria di Giobbe si sono fermati davanti alla imperscrutabilità delle vie del Signore. Il dibattito sul bene e sul male rimane sempre aperto in quanto bene e male sono in eterna lotta.

Sia nel pensiero del primo cristianesimo che nella tradizione del tardo ebraismo, Satana, il diavolo, fu visto come l’avversario di Dio. Certamente l’influenza dello zoroastrismo che oppone le potenze del bene Ahura Mazda ad Ahriman potenze del male, non si può escludere; sia nell’ebraismo che nel cristianesimo il dualismo è relativo e temporaneo, essendo il diavolo sottomesso a Dio. La letteratura apocalittica e quella apocrifa ci fanno riscontrare decine di figure diaboliche ed angeli decaduti. Nei manoscritti del Mar Morto si riscontrano dette figure ed il diavolo viene chiamato Belial , spirito del malvagio. In molte correnti del pensiero rabbinico, il diavolo è collegato con “l’impulso malvagio”, e cristiani ed ebraici convengono sulla possessione di Satana o da demoni che gli obbediscono.

Nel Nuovo Testamento Gesù libera dal male in tutte le sue forme, anche quelle legate alla presenza del diavolo. (Luca 10:18) Gesù disse: “Io vedevo cadere Satana dal cielo come folgore”.

Una parte importante ebbe il diavolo nel Medioevo, rappresentato sempre come creatura malvagia, munito di corna, coda e zoccoli caprini, in compagnia spesso da demoni subordinati.

L’Islam, riconoscendo l’ispirazione divina sia dall’ebraismo che dal cristianesimo, trasse da queste fonti la raffigurazione del diavolo, riportato nel Corano col nome di Iblis, l’angelo che rifiuta di inchinarsi ad Adamo. Allah maledice Iblis, lasciandolo però libero di tentare gli incauti.


Proviamo a fare una riflessione su una parola, un nome, un epiteto che è sinonimo di paura, di male, Belzebù, e sul pregiudizio causa del male.

Gli ebrei davano al diavolo, alla quintessenza del male, proprio questo nome. Ebbene, stranamente, il significato letterale di Belzebù dice chiaramente che il potere del male è solo apparenza, inganno, illusione, menzogna e, in ultimo, pregiudizio. Nei fatti, Belzebù, tradotto letteralmente, è “signore delle mosche”, un epiteto che suscita il ridicolo, il patetico. Qualcosa o qualcuno che nella realtà vera del mondo come la creazione, la meraviglia, lo stupore, il miracolo, la varietà, ha il potere di comandare solo sulle mosche, dunque, un titolo e un potere riduttivo. William Golden, noto scrittore inglese e premio Nobel per la letteratura, a tal proposito, scrisse un libro di grande successo dal titolo “Il signore delle mosche”, dove è contenuta un’analisi serrata dei meccanismi psicologici inconsci  che mettono in moto il nostro falso ego e che prendono origine dalla paura dell’ignoto, dai bisogni primari di sopravvivenza e organizzazione sociale, in grado di soddisfare questi bisogni nel modo, apparentemente, più economico, ovvero, con la violenza e l’esclusione dell’altro da Sé. Come conseguenza, assurdi sacrifici ad altri “signori delle mosche” e agli archetipi delle nostre paure inconsce. In ultimo, con la persecuzione del diverso, di colui che non accetta le regole piramidali di una società che semplifica e soddisfa i propri bisogni con la violenza. Stranamente, però, in questo mondo e in questo universo si può definire paradossale chi persegue la logica del pregiudizio e della violenza verso gli altri, come per Ate, cioè per maledizione divina, ne è esso stesso vittima. Ogni azione violenta contro “l’altro Sé” è destinata a ricadere su chi questa logica persegue, in una coazione a ripetere che è danno, incapacità ad incedere. Tutto questo è semplice da spiegare, infatti, l’uomo che vive nel pregiudizio sbaglia, dimenticando di essere solo una piccola parte di una totalità più vasta di cui partecipa, ovvero l’umanità e il mondo di cui fa parte e da cui deriva, allora, vive una fase egocentrica ed è incapace di uscirne per paura. Stranamente la psicoanalisi ha scoperto che ciò che noi rimuoviamo e riteniamo inaccettabile e che generalmente neghiamo, vive nel nostro inconscio di vita propria, si costituisce come seconda personalità e, più questa viene negata e perseguitata, più diventa forte e ci si contrappone. Solo il riconoscere che “l’altro Sé” non è nient’altro che un possibile noi, porta ad un abbassamento della tensione e del conflitto interiore, tanto che, l’accettazione del diverso diventa guarigione e ricchezza per chi, in questa difficile impresa, riesce ad amare ed accettare chi si ritiene, con pregiudizio, nemico e pericoloso.

        Cristo diceva che amare gli amici è facile, difficile è amare i propri nemici! Il perseguire e perseguitare il diverso da noi porta perciò al vero male, ad una scissione della psiche che in analisi viene definita come schizofrenia. Anche qui il diavolo può darci una mano a capire di cosa siamo vittime, essendo “diavolo” un termine che in greco significa dividere in due, ovvero negazione di una parte di se che, per pregiudizio, si ritiene inaccettabile.

        La natura, il creato, nel senso più vasto del termine, per una esigenza evolutiva di tipo ontogenetico, ha posto in ognuno di noi l’esigenza di trovare un’armonia nella totalità dell’essere e la spinta a raggiungere una completezza che, in definitiva, è ricchezza e, se è consentito un neologismo, eu-evoluzione (evoluzione buona) a cui opporsi, che causa il malessere e la nevrosi. Si viene ad innescare così uno strano meccanismo, da definire gioco crudele che fa del pregiudizio e di chi lo pratica, vittima e carnefice di se stesso. In ultima analisi, il pregiudizio è antieconomico perché rifiuta la ricchezza della varietà e della diversità. Una volta praticato e lanciato, torna indietro come un boomerang per colpire chi lo scaglia. Come in un gioco di specchi che, a riflesso oppone altro riflesso identico, che ha uguale forza e uguale intensità nell’opporsi, generando il “polèmos”, il conflitto interiore e sociale. La capacità, invece, di aprirsi agli altri, a ciò che apparentemente è diverso da noi, ma che con noi partecipa di un valore più alto, che è l’umanità e la conoscenza vera nello spirito di un riconoscimento di fratellanza, è anche la capacità di arricchirsi di cose nuove. La capacità di vivere la vita come un’avventura alla scoperta di ciò che da noi è diverso, porta alla comprensione e ad una pacificazione del vero io interiore che, di luce propria vive e non necessita di modellarsi con meccanismi assurdi di difesa. “Avventura”, dal latino “ad ventura”, cioè andare incontro a ciò che deve avvenire, un viaggio nella vita e dentro noi stessi, alla scoperta della vita, dove anche il rischio, gioca un suo ruolo fondante.






 Apollo 11

 Scoprire il mondo e le sue meraviglie anche nei risvolti che all’apparenza sembrano assurdi, contraddittori, pericolosi, estranei, non graditi è, in ultimo, il senso vero della vita; se così non fosse, bisognerebbe giudicare assurdi, pericolosi e folli i versi di Dante che fa dire ad Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza”. Questo verso ha trovato collocazione a Cape Canaveral, ai piedi della base di lancio dell’Apollo 11, dove per primi alcuni uomini partirono alla conquista e alla scoperta della luna, quella vera, quella che illumina la notte, ispira i poeti e fa sognare gli amanti, un verso che vuole ricordare agli uomini che il vero propellente della scoperta e della conquista è, e resta, la conoscenza, strumento vero dell’evoluzione. E’ possibile affermare che la virtù e la verità non stanno nella parzialità e, a maggior ragione, nel pregiudizio che ne è il paladino e il difensore più strenuo. Virtù e verità, stanno nella totalità delle cose e chi nega queste verità vive nel pregiudizio, nella menzogna e nell’autoinganno, generando sofferenza. I pregiudizi, hanno la qualità propria dell’argilla, quella di mutare forma e di adeguarsi alle necessità del momento, secondo le esigenze ed i bisogni del falso ego, nell’illusoria speranza di farci pagare il prezzo più basso e ricavare il maggiore guadagno.

Proteus

        Il pregiudizio ha la stessa capacità di Proteus, il mitologico mostro capace di assumere ogni forma per sopravvivere e sopraffare, fin che un eroe, nel compimento del suo destino, non lo svela e lo uccide. Cambiare forma in modo proteiforme, vale quanto le ragioni che sostengono i pregiudizi, logiche ed accettabili in apparenza, sufficienti alla ragione perché comodi per le paure e le vigliaccherie quotidiane. Il pregiudizio soddisfa pienamente il falso ego, un ego che dimentica di essere solo una parte del tutto, una parte che, se non in armonia con “l’altro Se”, non ha valore alcuno.

        Albert Einstein disse in proposito: è più facile spaccare un atomo che un pregiudizio!




Non essendo io filosofo, ma un lettore di tutto quello che capita sottomano, vi chiedo venia se qualcosa di questa modestissima divagazione
può presentarsi non chiara.

                        

                            Grazie!

lunedì 11 novembre 2013

L' IMBROGLIO - Racconto (11/11/2013)









Mario Scamardo


L’imbroglio



  Aveva compiuto appena sedici anni quando Adelaide perdette ambedue i genitori. Per una distrazione, così lesse sul rapporto di polizia, l’automobile guidata dalla madre finì in un burrone, uno strapiombo di circa trenta metri, quasi inaccessibile, su quel breve tratto di strada in terra battuta che dalla nazionale portava all’azienda di famiglia. Rio il destino per i due giovani genitori, ancora più crudele per la ragazza, studentessa di liceo, figlia unica, che da quel momento rimase in balia della famiglia dell’amministratore dell’azienda agricola. Non aveva parenti Adelaide, tranne l’ancor giovane ed arzillo nonno materno, che viveva in paese a due chilometri dall’azienda.
  Don Peppino l’amministratore e la di lui moglie la signora Paolina, avevano estreme cure per Adelaide, l’avevano vista nascere, erano andati al suo battesimo e l’avevano accompagnata al suo primo giorno alle elementari. Era bella Adelaide, forse più della sua mamma, ed era una ragazza a modo, si impegnava nello studio e aveva dato tante soddisfazioni ai suoi genitori. Appena tre giorni dopo il funerale, riprese la routine di sempre, col suo motorino si recò puntuale a scuola e ripigliò i suoi studi. Anche nonno Calogero, dopo avere incassato il dolore della perdita di figlia e genero, si rimboccò le maniche e si trasferì in azienda a curarsi della sua unica nipote.
La ragazza fu contenta della decisione del nonno, così si creò un’unica famiglia con quella di don Peppino.


Nonno Calogero prese possesso della contabilità di quell’azienda che produceva arance, mandarini, limoni, pesche e susine, ma produceva anche tanta uva da vino e tante olive da mensa. Un patrimonio non indifferente, dove lavoravano tutto l’anno decine di braccianti sotto la guida attenta di don Peppino. Anche Adelaide, guidata dal nonno cominciò a prendere dimestichezza con le carte, con le coltivazioni, con le trasformazioni, con le vendite e con i contributi da pagare, e più passava il tempo, più ne dedicava tra i filari di viti e tra gli aranci. Spesso la ragazza riceveva le visite delle sue compagne e dei suoi compagni di liceo, per loro con l’aiuto della signora Paolina organizzava qualche festicciola, grandi grigliate che finivano con la degustazione delle enormi torte di frutta che la signora preparava. L’unica pretesa di Adelaide era la presenza del nonno, dal quale non si staccava mai.
  Quando arrivò il giorno della maturità classica, coincise casualmente col suo diciottesimo compleanno. Nonno Calogero volle festeggiare come non mai. A sera nella grande aia furono allestite una serie di tavole imbandite, tutti i contadini con le loro famiglie furono invitati, furono accese una miriade di fiaccole e quando fu il momento di tagliare la torta, spuntò dal fondo del viale una fiammante decappottabile rossa.


Adelaide guardò in faccia il nonno, lui sorrise, lei l’abbracciò e lo sbaciucchiò.
-         Grazie nonno, è un regalo superbo, così come io l’avevo immaginata. Ma non ho la patente per guidarla.
-         Non preoccuparti di ciò, fra tre giorni inizierai a frequentare la scuola guida. Io voglio che tu per andare all’università abbia la tua automobile. Vedrai imparerai subito! Solo un quarto d’ora dall’ateneo, e quando non te la sentirai, dovrai accontentarti di montare sulla mia vecchia utilitaria.
Il nonno infilò la mano in una tasca, tirò fuori un astuccio, lo aprì e lo porse alla nipote sotto lo sguardo compiaciuto di tutti.
-         Prendili, ho aspettato che compissi diciotto anni per donarteli, sono gli orecchini di tua nonna, quando ti vide appena uscita dalla sala parto, e le hanno comunicato che eri femminuccia, se li staccò, me li mise in tasca e mi fece promettere che glielo avrei ricordato di donartele il giorno in cui avresti compiuto diciotto anni.


Si intristì nonno Calogero, gli luccicarono gli occhi, gli tremò la voce:
-         Non potei più ricordarglielo, cinque anni dopo ci ha lasciati, proprio in una notte di luglio. Fatti aiutare dalla signora Paolina, indossali, tua nonna sarà contenta e stasera ci guarderà sorridente, magari seduta su una stella.
Abbracciò la nipote, la baciò su ambedue le guance, poi:
-         Ora continuate a divertirvi, io scambierò due chiacchere con don Peppino.
Quando l’ultimo degli invitati varcò il cancello, la luna era allo zenith, nonno Calogero si alzò dalla poltrona in vimini, prese Adelaide sotto braccio e le disse:
-         Ti è piaciuta questa festa? Sei rimasta soddisfatta?
-         Si nonno, sei stato splendido, non si poteva fare di più.
-         Bene, ora se vuoi puoi andare a riposare.
-         Nonno, ti va di stare ancora un po’?
-         Certo, ma dobbiamo passeggiare, le mie ginocchia cigolano e se non mi muovo c’è il rischio che si inceppino. Adelaide, ora sei una donna, ed io non sono più tanto giovane. Difficilmente potrò guidarti e consigliarti fino a quando tu laureata, non sarai capace di reggere quest’azienda. Don Peppino è un galantuomo, ma anche per lui il tempo passa, ed è più grande di me di un lustro, probabilmente fra non molto chiederà di andare in pensione e di ritornarsene nella sua casa in paese.
-         Nonno, capisco cosa mi vuoi dire, ci proverò a reggere l’azienda, troverò un nuovo fattore, io sono cresciuta in questo posto, sono legata ai miei ricordi.
-         Lo so bambina mia, ti capisco, ma andato via don Peppino, gli altri saranno tutti sciacalli che vorranno avventarsi su una donna sola, tutti vorranno accaparrarsi i prodotti, il lavoro, l’azienda stessa. C’è un modo per venirne fuori, mentre è florida e dà buoni utili, bisogna vendere tutto ed investire in qualcosa che per te sia più gestibile, appartamenti, quote azionarie o partecipazioni affidabili. L’università ti impegnerà molto, e quando avrai conseguito una buona laurea, sarai titolare di un tesoro che nessuno ti potrà mai rubare, il tuo sapere che sarà gelosamente conservato in quello scrigno che è la tua testa. Non devi dir nulla, vai ora a letto e nei giorni a venire rifletti su quello che ti ho detto, poi ne riparleremo con calma, se vorrai ci faremo dare dei consigli, di alcuni ne faremo tesoro ed agiremo di conseguenza.
Adelaide abbracciò il nonno, lo baciò sulla guancia e, mogia mogia, raggiunse la sua camera.
  A novembre la ragazza cominciò a frequentare l’ateneo della città, voleva diventare medico Adelaide, una pediatra. Dopo il primo esame ritornò a casa con un collega, lo presentò al nonno:
-         Lui è Gianluigi Moro, mio collega di corso. Comincerò con lui la chimica, quindi lo vedrai spesso.
Il nonno allungò la mano, lo salutò e disse soltanto:
-         Moro, figlio del costruttore?
-         Si, signore, mio padre ha un’impresa di costruzioni.
-         Si, ho capito. Ma ora scusatemi, io non pranzo, devo andare in paese per un appuntamento.
Uscì e quando fu sull’aia davanti alla sua utilitaria fece una grande smorfia.
Appena per cena rientrò e quando si sedette a tavola chiese alla nipote:
-         E’ solo un collega o c’è qualcosa di più? Scusa se te lo chiedo, ma le ragazze alla tua età è giusto che abbiano un fidanzato.
-         Nonno è solo un bel ragazzo che vuole studiare con me la chimica, non lo conoscevo, l’ho incontrato una settimana prima degli esami, l’unico a non farmi la corte, l’unico ad essere galante e cortese. Non siamo fidanzati, mi è solo simpatico.
-         La mia era solo una domanda Adelaide, non un interrogatorio, sai, noi anziani, a volte siamo un po’ più curiosi dei giovani e talvolta non ce ne accorgiamo neppure.  E’ proprio il figliolo di Salvatore Moro, il costruttore, il notaio Brosio me lo ha confermato, anche lui ha una figliola a medicina.
Adelaide non disse una parola, quel pilastro che era suo nonno, se si era informato sui Moro, avrà avuto le sue buone ragioni.
Passarono i mesi ed un mattino Adelaide rimase a dormire fino a tarda ora. Nonno Calogero non la svegliò, ma quando si fece mezzogiorno bussò alla sua camera con una tazza di caffè fumante.
-         Sveglia poltrona, è quasi ora di pranzo, oggi niente lezioni? A che punto sei con la chimica, non ho più visto il tuo amico venire a casa.
-         Quasi pronta, ancora una rivisitata e poi son pronta all’esame.
Bevve il caffè, poi si chiuse in bagno e scese in sala da pranzo alle tredici in punto.
-         Nonno, Gianluigi meno di una settimana fa mi ha invitato a delle riflessioni sul mio futuro. Ricordi il discorso che mi hai fatto sull’opportunità di vendere l’azienda ed investire in appartamenti?
-         Si che lo ricordo, aspetto che tu decida sul da farsi.
-         Sai, Gianluigi mi ha fatto il medesimo discorso e, approfittando del fatto che suo padre fa il costruttore, qualora mi decidessi, il padre, valutata l’azienda, in cambio di appartamenti, si accontenterebbe di rilevarla lui.
-         E ci ha messo sei o sette mesi per dirtelo, io ero convinto che questa stessa proposta te l’avrebbe fatta subito!
L’anziano signore fece un giro attorno ai mobili di quella stanza, come se cercasse qualcosa, ebbe un attimo di imbarazzo, spostò un paio di sedie e poi le rimise a posto. Cercava, si cercava le parole per dire qualcosa.
-          Adelaide, sai la differenza che passa tra un costruttore ed un palazzinaro? Sembrerebbe nulla, ma non è così! Il padre del tuo collega è un palazzinaro, uno che dieci anni fa non conosceva cosa fosse il cemento, la calce, un progetto, una licenza, che non aveva il becco di un quattrino e non si sa da dove son venute le somme con cui lavora. E’ possibile che la tua azienda faccia gola a qualche malavitoso e vuole approfittare per averla da un prestanome, il costruttore, meglio il palazzinaro Salvatore Moro. Il mezzo? La semplicità di una ragazza come te, ingenua, che davanti ad un bel ragazzo, ben vestito, molto manieroso, alla guida di una macchina di lusso, si innamora e si lascia imbrogliare! Facile, una volta realizzato il disegno perverso, inscenare un crollo dei sentimenti ed una inversione di rotta! Quei galantuomini di tuo padre e tuo nonno l’hanno realizzata sudando ed impegnando tutti i loro sacrifici. Il mio incontro col notaio Brosio mi ha schiarito le idee e diradato i miei dubbi. Vedi Adelaide, gli imbrogli che questa gente tesse come le ragnatele hanno bisogno di pazienti e bravi attori. Gianluigi Moro non è stato invadente con te, non ha pressato facendoti la corte, ha cercato di distinguersi tra la folla di pretendenti, ti ha studiata, ha lasciato passare il tempo carpendo le tue piccole confidenze da innamorata. Quando la tela era definitivamente tessuta, pensa, sette mesi, allora si è sbilanciato con una proposta addirittura allettante, almeno apparentemente.



Nonno Calogero si fermò un attimo, guardò negli occhi la nipote, notò sbigottimento ma anche curiosità, poi diede uno sguardo all’aranceto che stava lì rigoglioso a dieci metri sotto la finestra e vide chini a strappare erbacce i braccianti nel vigneto, quindi riprese:
-         Adelaide, tu domani avrai qualcuno accanto che ti vorrà bene, oggi credo tu abbia solo me ed io ho solo te, portiamo nelle vene lo stesso sangue, nessuno mai tradirebbe l’altro, non può esistere imbroglio tra di noi. Non so se soffrirai per quanto sto dicendoti, non so se era forte il legame sentimentale con Gianluigi, forse ti farà soffrire un po’. Quando smaltirai la sbornia, se ne hai una, inviteremo a cena il notaio Brosio, quel galantuomo amico dei tuoi genitori, ex mio compagno di scuola, ti informerà sulla condotta di vita del costruttore Salvatore Moro, delle sue frequentazioni, e delle frequentazioni del figlio.
Non disse una parola la ragazza, si avvicinò al nonno e lo carezzò teneramente. Rientrò nella sua camera, si buttò sul letto ancora disfatto, forse pianse, ma sicuramente ripensò alle parole del nonno, l’unica persona a cui confidava anche le piccole stupidaggini. Ricompostasi ridiscese al piano terra, prese il nonno sottobraccio e gli chiese di passeggiare tra gli ulivi, in silenzio, al godere del fruscio del vento. Nella sua tasca trillò un telefonino, lei guardò nel piccolo monitor e non rispose, poi risuonò ancora un paio di volte, forse era Gianluigi, cancellò il numero dalla rubrica e spense il telefono, continuando a passeggiare e a respirare il profumo delle zagare che arrivava dai limoni fioriti. Giunti davanti alla porta di casa disse al nonno:
-         Per favore, non sono mai voluta andare, portami sul ciglio di quel burrone dove perirono i miei genitori, voglio recitare una preghiera per loro. Quando saremo a casa, ti darò tutta la documentazione che serve a vendere tutto, ieri don Peppino ha presentato i documenti per andare in pensione. Domani ci trasferiremo a casa tua in paese, scusami nonno se ho titubato, tu sei l’unica persona che non potrà mai imbrogliarmi.
Sei mesi dopo don Peppino andò in pensione, il nonno vendette tutto con l’assistenza del notaio Brosio, ed investì il ricavato in modo che la nipote fosse quasi indenne ai raggiri. La laurea arrivò di lì a due anni, Adelaide si specializzò in pediatria e nonno Calogero ripetette ancora una volta ad Adelaide:
-         Son contento figliola, veramente contento, ricordalo la tua laurea nessuno può rubartela, sei solo tu padrona delle tue conoscenze che son riposte nella tua mente, questo bene vale mille volte di più che una lista di beni immobili. Auguri figliola, ti voglio bene!


A tavola per la cena, al TG di prima serata la notizia: Arrestati il costruttore Moro ed il figlio Gianluigi, truffa aggravata e continuata, concorso in associazione mafiosa, sequestrati beni per svariati milioni di euro.
Adelaide si alzò dalla tavola, prelevò il telecomando e cambiò canale!





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