mercoledì 20 novembre 2013

Divagazioni sul BENE E SUL MALE - (20/11/2013)


         



Mario Scamardo


BELZEBU' IL SIGNORE DELLE MOSCHE
Divagazioni sul BENE E SUL MALE





Il bene e il male




In filosofia la dicotomia bene/male appartiene soprattutto all’etica, che la intende come opposizione fra ciò che possiede un valore morale, ovvero ciò che è desiderato e appetito dall’uomo e ciò che è moralmente cattivo o sbagliato, ovvero ciò che arreca danno, dolore sofferenza. Oltre che all’etica, la dicotomia bene/male ha operato nella metafisica e nella teologia. Provo ad affrontare in maniera semplice le principali concezioni, rispettivamente del bene e del male, che si sono confrontate nella storia del pensiero filosofico.

Occorre innanzitutto distinguere fra una prospettiva metafisica e oggettivistica di intendere il bene, come la realtà suprema e perfetta che viene desiderata in quanto tale, e una concezione soggettivistica, che relativizza il bene in riferimento al soggetto che lo desidera. Il modello della prima concezione è offerto dalla filosofia di Platone, in cui il bene costituisce il vertice del mondo delle idee: come il Sole dà vita alle cose sensibili e ne consente la visione, così l’idea del bene è fonte di verità e di conoscenza del mondo ideale. Riallacciandosi a Platone, nel III secolo d.C. Plotino fa coincidere il bene con l’Uno, ossia col principio e la causa di tutto l’essere; in rapporto a esso il male costituisce un non essere, così come un non essere è la stessa materia: Plotino paragona alla zona d’ombra lasciata dal cono di luce proiettato dal principio primo. Anche il pensiero cristiano della scolastica medievale concepirà il bene come l’essere perfetto e lo identificherà con Dio: tutto ciò che proviene da Lui è quindi bene, per quanto il grado di perfezione di ogni cosa dipenda dalla posizione che essa occupa nella gerarchia degli enti, a seconda che questi siano più o meno vicini a Dio. Tuttavia il pensiero cristiano non potrà identificare la materia con il non essere e con il male, essendo la materia stessa creata da Dio.

La teoria opposta a quella metafisica del bene afferma che il bene è tale in relazione a un soggetto che lo desidera. In altri termini esso non è desiderato perché è il bene, ma è ritenuto bene perché è oggetto del desiderio. Nella sua forma più coerente, la teoria soggettivistica fu affermata in età moderna da Hobbes, il quale scrive: “L’uomo chiama buono l’oggetto del suo appetito e del suo desiderio, cattivo l’oggetto del suo odio e della sua avversione”. Anche Spinoza si muove in questa prospettiva quando afferma che “noi non cerchiamo, vogliamo, appetiamo una cosa perché riteniamo che sia buona; ma, al contrario, noi giudichiamo buona una cosa perché la cerchiamo, la vogliamo, la appetiamo, la desideriamo”. Pur mantenendosi all’interno di una prospettiva soggettivistica, Kant fece valere l’esigenza di universalità del bene che era propria della teoria oggettivistica: egli infatti sostenne da un lato che buono non può essere detto di un oggetto o un’azione in quanto tali, ma solo della volontà buona, dall’altro concepì quest’ultima come una volontà che si determina secondo una legge morale universale.

Non sono mancate nella storia del pensiero dottrine intermedie fra quelle oggettivistica e soggettivistica del bene. Socrate identifica la virtù nella scienza del bene e del male e afferma che nessuno commette il male volontariamente, ma solo perché ignora ciò che è il bene; quest’ultimo, nella concezione di Socrate, riguarda essenzialmente l’anima. L’identificazione fra bene, virtù e felicità diventerà importante nelle teorie etiche (dette “eudemonistiche”) successive a Socrate. Dal canto suo Aristotele intende il bene come “ciò cui ogni cosa tende”, e dunque, nel caso dell’uomo, la felicità come fine ultimo cui egli aspira: nel senso più pieno essa consiste nella vita contemplativa, ma accanto a essa si dispongono anche altri beni di ordine pratico. Aristotele intende così il bene in relazione all’uomo, ma d’altronde concepisce anche una gerarchia di beni secondo il loro grado di perfezione, avvicinandosi così alla teoria oggettivistica del bene.

Il problema della natura e dell’esistenza del male è alla base anzitutto delle principali religioni, passando poi alla filosofia e dando luogo a soluzioni che oscillano fra la negazione dell’esistenza del male e la negazione dell’onnipotenza di Dio.



Secondo l’insegnamento indù, per voler fare un esempio, il male non esiste poiché fa parte del mondo illusorio dei fenomeni; per lo zoroastrismo, antica religione persiana, così pure per l’antica setta dei manichei, il male dipende dall’esistenza di una divinità malvagia, contro cui è costretta a combattere la divinità buona. Nel libro biblico di Giobbe non si dà ragione per le sue sofferenze: la Scrittura suggerisce che le misteriose vie del Signore eccedono l’umana comprensione.

Nel III e IV secolo, all’affermarsi della teologia cristiana, divenne urgente una trattazione teorica del problema del male, poiché la dottrina del cristianesimo si fondava sull’esistenza di un Dio onnipotente e buono, ma contemporaneamente riconosceva la reale esistenza del male.

Col vertere del IV secolo Sant’Agostino formulò la soluzione maggiormente accettata dai pensatori cristiani successivi. Prima aveva accolto la teologia dualistica del manicheismo, in un secondo tempo, dopo la lettura di opere neoplatoniche e attraverso l’insegnamento di sant’Ambrogio, si convertì al cristianesimo ed accettò la teologia cristiana di un Dio buono, creatore dell’universo, con la presenza del male nel mondo.

Secondo Sant’Agostino il male non può essere opera di Dio, perché quanto creato da Dio non può che essere buono; il male, è privazione, o assenza di bene, così come il buio è assenza di luce. Può accadere, tuttavia, che qualcosa, pur creato buono, si corrompa, permettendo al male di insinuarsi nel mondo, qualora ogni creatura dotata di libero arbitrio, angeli, demoni e uomini, rifiutino i beni supremi, o assoluti, optando per quelli inferiori e relativi.  Secondo Sant’Agostino, può accadere che, da analisi immediata e superficiale, sia additata a male qualcosa che potrebbe risultare bene se considerata sub specie aeternitatis; dalla prospettiva eterna di Dio, ogni cosa è bene.

Le teorie agostiniane esercitarono un profondo influsso sui teologi cattolici del Medioevo come san Tommaso D’Aquino, e sui teologi della Riforma protestante, particolarmente su Martin Lutero e Giovanni Calvino.

Gottfried Wilhelm Leibniz, filosofo tedesco del XVII secolo, asserì l’irrealtà del male, definendo il mondo creato da Dio il”migliore dei mondi possibili” . L’ottimismo metafisico di Leibniz, durante l’Illuminismo, venne criticato sia da Voltaire che da David Hume, i quali respinsero la dottrina secondo cui la quantità di dolore immenso e la sofferenza possono essere giustificati perché facenti parte di un benevolo disegno divino.

La credenza nella certezza del progresso fu indebolita dalle guerre e dalle persecuzioni del XX secolo. Il male diventò l’oggetto di analisi di teologi e filosofi. In relazione alla Shoah ci si è chiesti se la sofferenza estrema possa trovare una giustificazione teologica. Sulla scia di Nietzsche alcuni pensatori hanno teorizzato la non esistenza di Dio; altri, ripartendo dalla teoria di Giobbe si sono fermati davanti alla imperscrutabilità delle vie del Signore. Il dibattito sul bene e sul male rimane sempre aperto in quanto bene e male sono in eterna lotta.

Sia nel pensiero del primo cristianesimo che nella tradizione del tardo ebraismo, Satana, il diavolo, fu visto come l’avversario di Dio. Certamente l’influenza dello zoroastrismo che oppone le potenze del bene Ahura Mazda ad Ahriman potenze del male, non si può escludere; sia nell’ebraismo che nel cristianesimo il dualismo è relativo e temporaneo, essendo il diavolo sottomesso a Dio. La letteratura apocalittica e quella apocrifa ci fanno riscontrare decine di figure diaboliche ed angeli decaduti. Nei manoscritti del Mar Morto si riscontrano dette figure ed il diavolo viene chiamato Belial , spirito del malvagio. In molte correnti del pensiero rabbinico, il diavolo è collegato con “l’impulso malvagio”, e cristiani ed ebraici convengono sulla possessione di Satana o da demoni che gli obbediscono.

Nel Nuovo Testamento Gesù libera dal male in tutte le sue forme, anche quelle legate alla presenza del diavolo. (Luca 10:18) Gesù disse: “Io vedevo cadere Satana dal cielo come folgore”.

Una parte importante ebbe il diavolo nel Medioevo, rappresentato sempre come creatura malvagia, munito di corna, coda e zoccoli caprini, in compagnia spesso da demoni subordinati.

L’Islam, riconoscendo l’ispirazione divina sia dall’ebraismo che dal cristianesimo, trasse da queste fonti la raffigurazione del diavolo, riportato nel Corano col nome di Iblis, l’angelo che rifiuta di inchinarsi ad Adamo. Allah maledice Iblis, lasciandolo però libero di tentare gli incauti.


Proviamo a fare una riflessione su una parola, un nome, un epiteto che è sinonimo di paura, di male, Belzebù, e sul pregiudizio causa del male.

Gli ebrei davano al diavolo, alla quintessenza del male, proprio questo nome. Ebbene, stranamente, il significato letterale di Belzebù dice chiaramente che il potere del male è solo apparenza, inganno, illusione, menzogna e, in ultimo, pregiudizio. Nei fatti, Belzebù, tradotto letteralmente, è “signore delle mosche”, un epiteto che suscita il ridicolo, il patetico. Qualcosa o qualcuno che nella realtà vera del mondo come la creazione, la meraviglia, lo stupore, il miracolo, la varietà, ha il potere di comandare solo sulle mosche, dunque, un titolo e un potere riduttivo. William Golden, noto scrittore inglese e premio Nobel per la letteratura, a tal proposito, scrisse un libro di grande successo dal titolo “Il signore delle mosche”, dove è contenuta un’analisi serrata dei meccanismi psicologici inconsci  che mettono in moto il nostro falso ego e che prendono origine dalla paura dell’ignoto, dai bisogni primari di sopravvivenza e organizzazione sociale, in grado di soddisfare questi bisogni nel modo, apparentemente, più economico, ovvero, con la violenza e l’esclusione dell’altro da Sé. Come conseguenza, assurdi sacrifici ad altri “signori delle mosche” e agli archetipi delle nostre paure inconsce. In ultimo, con la persecuzione del diverso, di colui che non accetta le regole piramidali di una società che semplifica e soddisfa i propri bisogni con la violenza. Stranamente, però, in questo mondo e in questo universo si può definire paradossale chi persegue la logica del pregiudizio e della violenza verso gli altri, come per Ate, cioè per maledizione divina, ne è esso stesso vittima. Ogni azione violenta contro “l’altro Sé” è destinata a ricadere su chi questa logica persegue, in una coazione a ripetere che è danno, incapacità ad incedere. Tutto questo è semplice da spiegare, infatti, l’uomo che vive nel pregiudizio sbaglia, dimenticando di essere solo una piccola parte di una totalità più vasta di cui partecipa, ovvero l’umanità e il mondo di cui fa parte e da cui deriva, allora, vive una fase egocentrica ed è incapace di uscirne per paura. Stranamente la psicoanalisi ha scoperto che ciò che noi rimuoviamo e riteniamo inaccettabile e che generalmente neghiamo, vive nel nostro inconscio di vita propria, si costituisce come seconda personalità e, più questa viene negata e perseguitata, più diventa forte e ci si contrappone. Solo il riconoscere che “l’altro Sé” non è nient’altro che un possibile noi, porta ad un abbassamento della tensione e del conflitto interiore, tanto che, l’accettazione del diverso diventa guarigione e ricchezza per chi, in questa difficile impresa, riesce ad amare ed accettare chi si ritiene, con pregiudizio, nemico e pericoloso.

        Cristo diceva che amare gli amici è facile, difficile è amare i propri nemici! Il perseguire e perseguitare il diverso da noi porta perciò al vero male, ad una scissione della psiche che in analisi viene definita come schizofrenia. Anche qui il diavolo può darci una mano a capire di cosa siamo vittime, essendo “diavolo” un termine che in greco significa dividere in due, ovvero negazione di una parte di se che, per pregiudizio, si ritiene inaccettabile.

        La natura, il creato, nel senso più vasto del termine, per una esigenza evolutiva di tipo ontogenetico, ha posto in ognuno di noi l’esigenza di trovare un’armonia nella totalità dell’essere e la spinta a raggiungere una completezza che, in definitiva, è ricchezza e, se è consentito un neologismo, eu-evoluzione (evoluzione buona) a cui opporsi, che causa il malessere e la nevrosi. Si viene ad innescare così uno strano meccanismo, da definire gioco crudele che fa del pregiudizio e di chi lo pratica, vittima e carnefice di se stesso. In ultima analisi, il pregiudizio è antieconomico perché rifiuta la ricchezza della varietà e della diversità. Una volta praticato e lanciato, torna indietro come un boomerang per colpire chi lo scaglia. Come in un gioco di specchi che, a riflesso oppone altro riflesso identico, che ha uguale forza e uguale intensità nell’opporsi, generando il “polèmos”, il conflitto interiore e sociale. La capacità, invece, di aprirsi agli altri, a ciò che apparentemente è diverso da noi, ma che con noi partecipa di un valore più alto, che è l’umanità e la conoscenza vera nello spirito di un riconoscimento di fratellanza, è anche la capacità di arricchirsi di cose nuove. La capacità di vivere la vita come un’avventura alla scoperta di ciò che da noi è diverso, porta alla comprensione e ad una pacificazione del vero io interiore che, di luce propria vive e non necessita di modellarsi con meccanismi assurdi di difesa. “Avventura”, dal latino “ad ventura”, cioè andare incontro a ciò che deve avvenire, un viaggio nella vita e dentro noi stessi, alla scoperta della vita, dove anche il rischio, gioca un suo ruolo fondante.






 Apollo 11

 Scoprire il mondo e le sue meraviglie anche nei risvolti che all’apparenza sembrano assurdi, contraddittori, pericolosi, estranei, non graditi è, in ultimo, il senso vero della vita; se così non fosse, bisognerebbe giudicare assurdi, pericolosi e folli i versi di Dante che fa dire ad Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza”. Questo verso ha trovato collocazione a Cape Canaveral, ai piedi della base di lancio dell’Apollo 11, dove per primi alcuni uomini partirono alla conquista e alla scoperta della luna, quella vera, quella che illumina la notte, ispira i poeti e fa sognare gli amanti, un verso che vuole ricordare agli uomini che il vero propellente della scoperta e della conquista è, e resta, la conoscenza, strumento vero dell’evoluzione. E’ possibile affermare che la virtù e la verità non stanno nella parzialità e, a maggior ragione, nel pregiudizio che ne è il paladino e il difensore più strenuo. Virtù e verità, stanno nella totalità delle cose e chi nega queste verità vive nel pregiudizio, nella menzogna e nell’autoinganno, generando sofferenza. I pregiudizi, hanno la qualità propria dell’argilla, quella di mutare forma e di adeguarsi alle necessità del momento, secondo le esigenze ed i bisogni del falso ego, nell’illusoria speranza di farci pagare il prezzo più basso e ricavare il maggiore guadagno.

Proteus

        Il pregiudizio ha la stessa capacità di Proteus, il mitologico mostro capace di assumere ogni forma per sopravvivere e sopraffare, fin che un eroe, nel compimento del suo destino, non lo svela e lo uccide. Cambiare forma in modo proteiforme, vale quanto le ragioni che sostengono i pregiudizi, logiche ed accettabili in apparenza, sufficienti alla ragione perché comodi per le paure e le vigliaccherie quotidiane. Il pregiudizio soddisfa pienamente il falso ego, un ego che dimentica di essere solo una parte del tutto, una parte che, se non in armonia con “l’altro Se”, non ha valore alcuno.

        Albert Einstein disse in proposito: è più facile spaccare un atomo che un pregiudizio!




Non essendo io filosofo, ma un lettore di tutto quello che capita sottomano, vi chiedo venia se qualcosa di questa modestissima divagazione
può presentarsi non chiara.

                        

                            Grazie!

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