Da
I Racconti del Borgo
di
Mario Scamardo
La
duchessa delle gerbere
Abitava da sola un
modesto appartamentino di due vani ed un salone ampio Anastasia, gestiva un
piccolo negozio di antiquariato al centro della città, frequentato da esperti
amatori, ed i suoi pezzi erano più unici che rari, provenienti dalle famiglie
palermitane dai nomi altisonanti, carichi di blasoni.
Cinquant’anni ben
portati, vestiva sempre in maniera sobria ma di grande gusto, Anastasia
conosceva la storia di ogni oggetto, la sua provenienza, la data di
realizzazione, tutto sull’artista che l’aveva realizzato. Acquistare da lei era
avere la certezza di non essere bidonati ed i suoi clienti si fidavano
ciecamente. Laureata in lettere e filosofia non volle mai insegnare e quel suo
negozio la ripagava dei suoi sacrifici. Pur conoscendo le migliori famiglie
palermitane, Anastasia non strinse mai legami che le facessero vivere una vita
di società. Perché? Non trapelava mai un’emozione dal suo viso dove vi era
stampato sempre un sorriso.
Quando non c’erano clienti, sedeva al suo scrittoio e guardava tra le sue carte, combinava appuntamenti con i fornitori e metteva a posto la sua contabilità. Nelle ore di chiusura ritornava al suo appartamento che era ubicato al primo piano di un vecchio palazzo della Palermo del ‘700 e li leggeva, leggeva tanto. Aveva avuto un fidanzato, un compagno nel passato? Nessuno lo sapeva, qualche volta si vedeva per le vie del centro ma sempre sola, un po’ di vetrine, un libro acquistato, un capo di vestiario, un caffè in uno dei lussuosi bar del centro storico, poi un taxi la riportava a casa. In fondo al cassetto dello scrittoio nel suo negozio un album di fotografie tutte rigorosamente in bianco e nero ritraevano i suoi genitori trapassati da un po’, qualche amica, qualche foto al mare e, quasi fuori posto, una foto stracciata a metà e poi ricomposta con dello scotch la ritraeva con un giovane, forse un compagno di liceo, nel retro un nome appena accennato a matita, forse Egisto, ma chissà!
Quando non c’erano clienti, sedeva al suo scrittoio e guardava tra le sue carte, combinava appuntamenti con i fornitori e metteva a posto la sua contabilità. Nelle ore di chiusura ritornava al suo appartamento che era ubicato al primo piano di un vecchio palazzo della Palermo del ‘700 e li leggeva, leggeva tanto. Aveva avuto un fidanzato, un compagno nel passato? Nessuno lo sapeva, qualche volta si vedeva per le vie del centro ma sempre sola, un po’ di vetrine, un libro acquistato, un capo di vestiario, un caffè in uno dei lussuosi bar del centro storico, poi un taxi la riportava a casa. In fondo al cassetto dello scrittoio nel suo negozio un album di fotografie tutte rigorosamente in bianco e nero ritraevano i suoi genitori trapassati da un po’, qualche amica, qualche foto al mare e, quasi fuori posto, una foto stracciata a metà e poi ricomposta con dello scotch la ritraeva con un giovane, forse un compagno di liceo, nel retro un nome appena accennato a matita, forse Egisto, ma chissà!
Entrò un mattino in
negozio un signore distinto di mezza età, cinquantacinque, forse sessant’anni.
Parecchie volte Anastasia l’aveva visto incollato alla vetrina a guardare tra
gli oggetti esposti, ma non aveva mai varcato la soglia. Anastasia lo ricevette e chiese se cercasse
qualche pezzo originale, l’uomo la guardò, poi:
-
Da
un po’ di tempo mi soffermo a guardare, lei ha dei pezzi incantevoli, tutti
belli, tutti raffinati, tutti di grande pregio, mentre ne scegli uno, quello
accanto invita a cambiare opinione.
-
Signore,
è proprio così, a me capita quando vado dal fiorista, amo tanto i fiori che non
riesco mai a sceglierli, poi mi lascio guidare e porto via un mazzo.
Il signore abbozzò un sorriso, sollevò una teiera in
ceramica, la girò per verificarne il marchio:
-
Ha
proprio ragione, è difficile scegliere quando tutto è bello. Lei avrà un fiore
che le piace di più, magari non l’avrà trovato dal fiorista, altrimenti
l’avrebbe scelto.
-
Ma
si, spesso non è stagione, ma mi piacciono le gerbere, quelle color salmone, le
preferisco alle rose.
-
Veda,
io amo le teiere, non ho origini anglosassoni, ma le teiere mi fanno impazzire.
Aprì una vetrina Anastasia, c’erano due teiere una in
capodimonte, l’altra in finissima ceramica cinese, belle, imponenti, le tirò
fuori e le depose sul tavolo centrale. L’uomo si avvicinò, prese tra le mani
quella in fine ceramica cinese:
-
E’
questa, l’ho trovata! Sono contento che non sia andata perduta. Da bambino l’ho
vista in una vetrina di una casa patrizia di questa città, la duchessa Laura
pretendeva che il tè le venisse servito proprio da questa meravigliosa teiera.
Anastasia ebbe un attimo di esitazione, quell’uomo conosceva
la storia dei duchi Calcara, conosceva la teiera, piccolino era stato ospite di
quella famiglia che era la sua, si perché Anastasia era l’ultima erede dei
Calcara, suo nonno in un delirio aveva impiegato tutto il patrimonio in un
investimento che portò la famiglia sul lastrico. La donna non disse ad alcuno
quali fossero le sue origini, aveva studiato a Firenze, nessuno la ricordava,
era ritornata a Palermo da una decina di anni.
-
L’ho
tenuta sempre in disparte, come se mi appartenesse, sono sempre stata restia a
mostrarla, per paura che finisse nelle mani sbagliate.
-
Grazie,
è un bel complimento il suo! Se mi assicura che non la vende non le chiedo il
prezzo, altrimenti le chiederò di confezionarmela e portarmela via.
-
E’
sua! Se un giorno decidesse di alienarla io son sempre pronta a rimetterla
nella vetrina, ma per favore, non la dia a nessun altra persona.
Notò il signore distinto l’alone di tristezza che offuscò per
un attimo il sorriso della donna, inarcò le ciglia quasi a cercare un ricordo,
poi:
-
Promesso!
Mi dica qual è il suo valore, la pago con un assegno, quando incassa l’assegno
passo per ritirarla.
-
No,
io ho buon fiuto, le consegno la teiera ed accetto il suo assegno.
Staccò un foglietto, scrisse il prezzo, lo mostrò all’uomo
che assentì e cominciò ad incartare la teiera per deporla in una scatola di
cartone e poi incartare il tutto. L’uomo tirò fuori il carnet degli assegni e
le chiese:
-
Mi
scusi, a chi devo intestarlo…
-
Anastasia
Calcara.
L’uomo diventò per un attimo una statua di sale, poi si piegò
sul tavolo e sillabò:
-
Anastasia
Calcara. Scusi, ha un biglietto da visita, vorrei indirizzare al suo negozio
qualche amico. Le sue cose sono splendide, tornerò a cercare qualche altra
rarità.
-
Porti
pure la sua signora, le donne a volte vediamo delle cose che agli uomini
sfuggono, cosa vuole è il nostro sesto senso.
-
Forse
la deludo, ma io non mi sono mai sposato.
-
Le
chiedo scusa, forse sono stata invadente.
-
No,
non si scusi, è stata graziosa ad allargare l’invito ad una moglie che non ho
mai avuto!
-
Avrei
dovuto riflettere, anch’io non ho preso mai marito.
-
Beh,
allora siamo pari!
Consegnò l’assegno ad Anastasia, ritirò il suo biglietto da
visita e notò che c’era l’indirizzo di casa, prima di ritirare la scatola con
la teiera:
-
Mi
perdoni, affascinato dai suoi modi, dalla bellezza della sua collezione non mi
sono neppure presentato, sono Enrico Villaseta.
Incassò il sorriso di Anastasia, prese delicatamente il pacco
e guadagnò l’uscita.
Enrico Villaseta, l’ultimo rampollo dei conti Villaseta, le
nonne erano state amiche, tutto fu chiaro nella mente di Anastasia, quando lei
era in prima elementare dalle suore salesiane, Enrico andava in prima media a
Villa Ranchibile retta anch’essa dai salesiani. Sei anni più di lei, ricordava
benissimo quella teiera, tre pomeriggi la settimana la nonna riceveva le sue
amiche, ed era un andirivieni di vassoi con biscottini e teiere. Poi, pian
piano il declino economico della famiglia, i suoi studi a Firenze e fino a
quarant’anni domiciliò in Toscana. Non ricordava quell’uomo, i capelli
brizzolati, qualche ruga alla fronte marcava il tempo, ma i modi, il
portamento, la sicurezza, le davano la certezza che fosse un Villaseta.
Chiuso a sera il
negozio, a piedi raggiunse casa sua, quella giornata, come in un film ripassò
dalla sua mente, poi si preparò la cena e si pose davanti al televisore fino a
quando non la colse il sonno.
I giorni passarono
ed un mattino, appena uscì una coppia di clienti dal negozio, Enrico Villaseta
varcò l’uscio e andò verso Anastasia, si chinò e le baciò la mano:
-
Cosa
mi propone oggi di acquistare?
-
Lei
cosa desidera portarsi a casa?
-
Mi
consigli lei.
-
Le
andrebbe vedere un orologio da taschino funzionante, doppia cassa in argento,
con dentro un piccolo cammeo con lo stemma borbonico?
-
Mi
lasci pensare, stemma borbonico, mi porta al principe di Villanova, sbaglio?
-
Non
sbaglia, l’ho preso ad un’asta a Firenze almeno trent’anni fa, ero appena
iscritta a lettere. Nella prima cassa ci sono le iniziali R V, Rodolfo di
Villanova. Ma lei è più esperto di me, basta un nulla e la mente lo porta a
ricordare un passato non recente.
Tirò da un cassetto l’orologio e lo porse ad Enrico che lo
rimirò e chiese di incartarglielo. Non durò molto la visita, fuori una macchina
l’aspettava. Ossequiò la donna e andò via. Era lunedì e nel pomeriggio i negozi
rimanevano chiusi. Anastasia abbassò le saracinesche e si incamminò verso casa,
il suo pensiero fu ad Enrico, non poteva sbagliarsi, da un oggetto risaliva
alla famiglia che lo possedeva, era quell’Enrico che frequentava la sua casa.
Appena varcato l’androne il portiere le andò incontro:
-
Signorina,
mi scusi, c’è un cesto di fiori per lei, lo ha lasciato un signore distinto,
gli ho chiesto il nome ma sorridendo mi ha detto: <La signorina ama le
gerbere, e queste sono color salmone, capirà!>. Vuole che glieli porti su?
Richiusa la porta Anastasia abbracciò le gerbere, le sistemò
in tre vasi e sedette soddisfatta ad ammirarsele. Sapeva chi glieli aveva
mandate, sentì un tremore alle gambe, sentì il suo cuore galoppare,
trentacinque anni prima aveva provato la stessa sensazione, forse Egisto, ma
non lo sapremo mai. Come ringraziare? Non ebbe il tempo di pensarlo e trillò il
telefono, dall’altro capo:
-
Scusami
Anastasia, forse sono stato invadente, ma subito ho capito che eri quella
bambina dagli occhi neri e profondi di casa Calcara, tu, la duchessina di
Calcara, la piccola Anastasia.
-
Si
Enrico, sono io, nessuno lo sa tranne che tu, il passato non è stato splendido
per me, un nome difficile da portare ed un titolo ancora più difficile, specie
per chi non naviga nell’oro.
-
Ho
voglia di incontrarti fuori dal tuo negozio, voglia di ricordare il passato,
voglia di parlare con una persona perbene, educata, umile, capace di non
anteporre le proprie origini al proprio nome. Sai, devo rivelarti un piccolo
segreto, che è quello che poi mi ha dato la certezza, la duchessa Laura, tua
nonna, amava le gerbere come le ami tu, i nobiluomini che le facevano visita
non andavano mai senza farsi precedere da una corbeille di gerbere, e proprio
color salmone.
Dall’altro capo si sentì un singhiozzo di commozione, poi:
-
Domenica
sono libera, non ho impegni.
-
Passerò
in mattinata a prenderti, sarai ospite a casa mia.
-
Grazie,
non ti farò aspettare.
Fu un pomeriggio confuso quello di Anastasia, ricordi su
ricordi, piccole commozioni, e la notte non fu meno, il sonno veniva spinto via
dai ricordi.
Non passò dal negozio Enrico, telefonò ogni sera dopo cena, e
la domenica in tarda mattinata, quando per telefono avvisò Anastasia, lei disse
di essere già pronta. Salita in macchina Enrico si fermò davanti il palazzo che
era stato dei duchi di Calcara, la vecchia casa di Anastasia, e lei:
-
Si,
me la ricordo, non sono più passata di qua.
-
Vuoi
entrare?
-
Lo
vorrei, ma….
-
E’
qui che abito, ho rilevato io il palazzo, ma se ti turba tutto ciò…
-
Non
mi turba, mi emoziona, tanto, ma son contenta di rientrarci, avevo tredici anni
quando mia madre mi portò a Firenze.
Varcarono l’androne ed Enrico scese ed aprì la portiera ad
Anastasia, salirono mano nella mano il grande scalone e il salone delle feste
si illuminò, tutto addobbato con gerbere color salmone. Pianse Anastasia, dopo
il pranzo, in un enorme salotto rosso cardinale i due non smisero un attimo di
rivangare il passato, fino a quando un domestico non portò un vassoio con la
teiera che era stata di sua nonna. Enrico attese che fosse portato via il
vassoio, guardò negli occhi la donna e le chiese:
-
Anastasia,
questa casa è troppo grande per un uomo solo, vuoi sposarmi?
La donna, non si aspettava quella domanda, l’uomo capì di
essere stato precipitoso:
-
Non
devi rispondermi subito, prova a pensarci su quanto vuoi, quando deciderai,
metterai una gerbera in vetrina nel tuo negozio, io capirò.
Non proferì parola Anastasia, fu tramortita da quella
proposta, non capì più nulla e, accennando un sorriso, disse:
-
C’è
un fiorista di fronte al negozio, spesso ha le gerbere….
Ritornò a casa Anastasia, più confusa che persuasa, si adagiò
su una poltrona e la colse la voglia di cercare nella sua mente i ricordi
dell’infanzia. Ad occhi socchiusi fece scorrere le immagini e pian piano le
palpebre si fecero pesanti. Sentì accanto a lei come una presenza della quale
sentiva il respiro che pian piano si trasformò in una flebile voce che le
parlava: < Anastasia, bambina mia, sono la tua nonna, il tempo ha galoppato veloce,
quel tempo che per me non è più un parametro, ti ha trasformato in donna. Tutti
ti siamo stati sempre accanto, tuo padre che perdesti bambina, il nonno e tua
madre. Quello nostro è stato ed è un amore diverso da quello che l’uomo vive
sulla terra, il nostro amore è superlativo, perché irrorato dall’amore di Colui
che tutto può, è difficile percepirlo, ma è costante. Hai rivisto il luogo dove
sei nata ed hai passato la tua infanzia, noi eravamo con te, ma siamo stati
accanto ad Enrico, e con noi i suoi genitori ed i suoi nonni. Una volontà
superiore ha voluto che lo incontrassi, il mezzo è stata la teiera che io amavo,
ma proprio perché l’amore in cui siamo immersi non può osare alcuna violenza
alle tue volontà ed alle tue scelte, sei libera di decidere sul tuo futuro.>
La voce pian pianino svanì e Anastasia si svegliò dal
torpore, il suo cuore batteva aritmicamente, aprì gli occhi e si guardò attorno
come a voler cercare qualcuno, nell’aria sentì un profumo, le violette di Parma
usate dalla nonna, vide sollevarsi una gerbera dal vaso, come se qualcuno volesse
accarezzarne i petali e poi la vide ritornare al suo posto, in quel grande vaso
sulla consolle. Richiuse gli occhi e si addormentò. Ci volle un bel po’ per
riaversi, ma riuscì ad accantonare quell’esperienza in un angolo della sua
mente. Una settimana dopo si recò dal fiorista, comprò una gerbera color
salmone e la mise in vetrina.
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