martedì 21 gennaio 2014

LA LETTERA - Racconto breve - 21/01/2014









Mario Scamardo

I racconti del Borgo



La lettera

         Guido infilò la chiave nella toppa, ed al primo scatto la porta si aprì. Strano, di solito dava tre mandate per chiuderla, era abitudinario ma non ci pensò più di tanto, appese all’ingresso il suo impermeabile, sistemò la sua ventiquattrore sulla savonarola, si recò in bagno per lavarsi le mani e andò in cucina a prepararsi la cena. Da nove anni la soglia di casa sua era stata varcata, solo il sabato mattina, dalla donna delle pulizie, nessun’altra persona vi era entrata. L’unica compagna della sua vita, dopo cinque anni, era andata via senza nessuna spiegazione, in un mattino di maggio, portandosi dietro solo gli effetti personali e lasciando un cartoncino ritagliato da un calendario che stava appeso in cucina, con la scritta: Non cercarmi, ho bisogno della mia solitudine, Martina. 



Guido soffrì in silenzio, cercò nella sua mente una motivazione, non la trovò, di quella donna s’erano perse le tracce, ed il suo lavoro diventò il suo idolo, il suo sorriso non fu più e l’ilarità che lo contraddistingueva scemò fino a farlo diventare serioso, impassibile davanti alle sollecitazioni. Le donne erano soltanto colleghe a cui dare il buongiorno, e persino Angelina, la cassiera del panificio sotto casa, che per lui aveva sempre mostrato attenzioni e con la quale talvolta si intratteneva a dialogare, diventò solo colei che doveva dargli lo scontrino e nulla più.
         Consumata la sua cena, dopo avere sparecchiato con cura, Guido si recò in salotto, accese il piccolo televisore e dopo il notiziario lo sintonizzò su un canale che lo portava con la fantasia a visitare il mondo. Difficilmente il telefono di casa squillava, solo la domenica mattina, quando la sorella, più grande di lui, lo chiamava da Parigi dove abitava con la famiglia. Quello era il momento più bello della settimana, Guido non era più solo, si intratteneva anche per mezzora, chiedeva di tutti e riusciva a sorridere.




 Stranamente il telefono trillò, l’uomo ebbe un attimo di esitazione, quasi si interrogò per capire chi lo chiamasse alle ventitré del mercoledì, alzò la cornetta: Pronto… ma dall’altro capo solo un singhiozzo e nulla più. Lo colse l’irrequietezza e, riposta la cornetta, si mise a passeggiare concitatamente attorno alle poltrone, nell’attesa che trillasse di nuovo. Si convinse dopo un po’ che qualcuno aveva sbagliato numero, si recò nella cameretta, alzò il cuscino, una busta era posta sul suo pigiama, sul frontespizio a stampatello: X GUIDO


Prese la busta tra le mani e rimase imbambolato a guardarla. Per la sua mente passò la porta chiusa senza le mandate, la telefonata col singhiozzo, sedette sul letto, l’aprì e lesse:


      Guido, quella mattina di maggio di nove anni fa sono andata via, non ho lasciato nulla che ti potesse far ricordare di me, sinanco la scatola vuota delle mie compresse antiallergiche riposta nell’armadietto del bagno. Ti ho chiesto di non cercarmi, e tu hai rispettato la mia richiesta, non so se hai capito perché, ma per questo ti ringrazio. So di averti reso la vita un inferno, so di averti rubato il sorriso, so di avere ridotto la tua vita a quella di un automa e, come un acido corrosivo, ho cancellato in te la voglia di amare. Ricordi? L’unico mandorlo in mezzo ai pini, a strapiombo sul mare, dove passavamo interi pomeriggi a scrutare l’orizzonte, a contare le barche che rientravano nel piccolo porticciolo, e tu, a scommettere sul passaggio delle navi di linea a orari precisi. Il rovo alle nostre spalle, sempre stracarico di more e il martin pescatore che faceva la navetta tra il mare ed il suo nido pensile. Ho portato con me, quando sono andata via, l’ammonite che abbiamo estratto con certosina pazienza dall’unico sasso affiorante dove poggiavamo la nostra colazione. Son passata mille volte da quel posto, non mi sono mai potuta fermare ma, non avrei mai voluto che fosse contaminato da altre presenze. Scusami, ma ho portato con me la chiave di casa, quella con cui ho aperto per mettere sotto il cuscino questa lettera. Non ho avuto il coraggio di girare per casa, non me la sono sentita, mi son sentita una ladra e son fuggita via.
         Perché questa lettera? Solo ora ho potuto scriverla, solo ora sono in grado di spiegarti, solo ora! Prima sono stata impedita!
Era il due di maggio quell’anno, tu eri già andato al lavoro, sono uscita per andare a trovare mia madre; nel parcheggio seminterrato ho visto un capannello di uomini, discutevano sottovoce, avevano tre o quattro ventiquattrore che si scambiavano, un uomo ne aprì una sul cofano di una macchina parcheggiata, d’un tratto una serie di spari, tre uomini a terra e gli altri che si apprestavano alla fuga. Feci finta di non vedere perché capii di essere diventata una presenza scomoda, risalii in macchina ma una pistola toccò la mia guancia e l’uomo: - Scendi e non fare storie!  Scesi dall’auto e mi caricarono su una BMW di colore scuro, mi imposero di starmene serena ma soprattutto di sorridere. Non capii dove andammo, la macchina entrò in un garage e l’uomo che sembrava quello che dava ordini disse: - Lei viene con me!  Non fiatò nessuno, risaliti in macchina gli altri andarono via, io fui costretta a mettermi al braccio del mio aguzzino e salire in ascensore fino ad un attico. Fui invitata a sedere, mi accorsi solo allora di avere la gonna bagnata, me l’ero fatta addosso. L’uomo sedette davanti a me: - Non temere, sei una donna fortunata, sei stata docile, ma soprattutto sei rimasta zitta, sei anche una bella donna dagli occhi dolci, avremmo dovuto eliminarti per non avere testimoni, dipende da te morire, ma prima uccideremo i tuoi affetti più cari, decidi tu. E’ preferibile che nessuno ti cerchi, ricorda che c’è sempre una pistola dietro la tua nuca! Devi soltanto dimostrarmi che ami te stessa e i tuoi cari, il silenzio e l’obbedienza cieca!  Mi offrì un cognac, poi ripose la pistola nella tasca della giacca: - Se ti va puoi andare in bagno, ma lascia aperta la porta, non guarderò dentro, stai tranquilla, fra mezzora la tua auto sarà rinchiusa in un garage così nessuno la vedrà.  Entrai in bagno, cercai di asciugarmi, riflettei su tutto, io quell’uomo l’avevo visto, mi feci ritornare alla mente dove l’avevo visto, era stato un funzionario della banca vicino casa, ne ricordavo il cognome e temevo che anche lui sapesse chi ero. Uscii dal bagno e fissandolo negli occhi lo rassicurai: - Signore, io non vi conosco, vi garantisco che non ho conosciuto gli altri uomini che erano con voi, vi ringrazio per avermi risparmiato, so di essere un testimone scomodo, ma so che non vivrei un attimo in più se parlassi, vi prego, se potete lasciatemi andare, se non mi avete fiducia verrò con voi dove mi dite, ma non torcete un capello al mio compagno o alla mia mamma. L’uomo inarcando le sopracciglia: - Non posso, tra pochi minuti, il tempo di cambiare i miei abiti, usciremo in macchina come due fidanzatini, ci recheremo a casa tua, piglierai tutte le tue cose, avrai poco tempo per farlo, poi risalirai in macchina con me. Entrerai da sola a casa, ricorda hai una pistola alla nuca, richiuderai la porta e verrai via con me.
Raggiunsi con lui prima una città dopo due anni di spostamenti nell’interland della nostra, poi ancora un’altra ed un’altra ancora. Poi un aereo ci portò in Brasile, non ebbi più nessun contatto con questa città, né mai lui ne parlò. Erano passati tre anni, io ero solo stata la sua compagnia, alla stessa stregua di un gatto o di un cagnolino, non mi fece mai una avance, però mi accarezzava con gli occhi, io ero la sua opera d’arte da ammirare e nulla più. Un pomeriggio d’estate sul grande terrazzo di casa, mentre guardavo con nostalgia il mare sentii una mano sfiorarmi le spalle, mi girai ed incontrai le sue labbra che si poggiarono sulle mie. Tremai, e per la prima volta piansi in sua presenza. Nessuno mai venne in quella casa, non c’era il telefono, nessuno portava la spesa, facevamo fuori colazione pranzo e cena, sempre in locali riservati e le nostre passeggiate erano sempre in riva al mare. Erano passati otto anni, voleva che lo chiamassi Alonzo, mai saputo il suo vero nome di battesimo, ma ricordavo il suo vero cognome. D’improvviso lo colse una febbre altissima e non volle ricoverarsi in un nosocomio, un medico ed un’infermiera tutti i giorni lo assistevano, a giorni stava benino, poi peggiorava. Una febbre sconosciuta a dir del medico, incurabile, che lo avrebbe portato all’immobilità e, quindi, alla morte. Non ho imparato in nove anni ad amarlo, non ci sono riuscita, ma non riuscivo a volergli bene per avermi risparmiato e per aver mantenuto l’impegno di non farti del male. Prima di perdere la sua mobilità, staccò dal suo collo una chiave: - Tieni, dentro la cassaforte c’è il tuo passaporto, è stato vidimato meno di una settimana addietro, accanto c’è una somma di denaro in dollari canadesi, pigliali, quelli per il mio funerale li ho consegnati all’infermiera che è figlia di un italiano, provvederà lei a tutto. Io ho ancora uno scorcio di vita, ti ho tenuta prigioniera, non potevo rischiare, non ti ho salvato la vita, ma ho salvaguardato la mia, sono stato un’egoista ma non potevo farne a meno. Mi sono innamorato di te, ma non ho mai preteso che tu ti innamorassi del tuo aguzzino. Se puoi perdonami, ma se non ti riuscisse di farlo non te ne vorrò, un prete raccoglierà il mio pentimento e continuerà a farmi sperare nel perdono di Colui che tutto può.  Chiuse gli occhi e non parlò più, anche per chiedere da bere lo fece con i gesti, fino a quando si fermò per sempre il suo respiro. Non andai al suo funerale, non volli deporre nemmeno un fiore sulla sua bara, prelevai dalla cassaforte giusto il denaro che mi servì per il viaggio di ritorno, prelevai il passaporto e raccolsi, come quel mattino di maggio, le mie cose, compresa la scatola delle mie compresse antiallergiche. La chiave di casa l’ho tenuta gelosamente custodita e l’ho sempre portata con me, in ogni istante, era rimasto l’ultimo legame, l’innesco dei miei ricordi. Quando ti ho lasciata questa lettera l’ho deposta nel cassetto del tuo comodino.
Guido, dieci anni sono tanti, per me sono stati dieci secoli, prigioniera del silenzio, della paura, del timore di essere eliminata, o di sapere che qualcuno potesse far del male agli affetti più cari, ed ancora il silenzio, ma non quello che risveglia il processo di chiarificazione, ma quello dettato dalla paura, che non è silenzio ma un continuo ribollire di collera, forse il peggiore dei sentimenti che si possono provare!
 C’è ancora tra i pini quel mandorlo sul dirupo, e il martin pescatore a dondolarsi attaccato al nido? Chissà se le navi passano sempre puntuali!
E’ finita la voglia di crogiolarmi nella mia solitudine ora, se vuoi, se puoi, cercarmi! …. Io ho cercato mia madre tra viali di cipressi ed ho trovato la sua tomba, mi sono sentita in colpa, non l’ho accarezzata un’ultima volta… non ho potuto!
Martina
Guido ebbe la forza di alzarsi, di aprire il comodino, prese la chiave attaccata ad un piccolo coniglietto in argento che le aveva regalato dieci anni prima, proprio il giorno in cui le consegnò la chiave di casa, la strinse nel pugno e ritornò accanto all’apparecchio telefonico, nella speranza che trillasse ancora una volta!


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