Mario Scamardo
I racconti del Borgo
La lettera
Guido infilò la
chiave nella toppa, ed al primo scatto la porta si aprì. Strano, di solito dava
tre mandate per chiuderla, era abitudinario ma non ci pensò più di tanto,
appese all’ingresso il suo impermeabile, sistemò la sua ventiquattrore sulla
savonarola, si recò in bagno per lavarsi le mani e andò in cucina a prepararsi
la cena. Da nove anni la soglia di casa sua era stata varcata, solo il sabato
mattina, dalla donna delle pulizie, nessun’altra persona vi era entrata.
L’unica compagna della sua vita, dopo cinque anni, era andata via senza nessuna
spiegazione, in un mattino di maggio, portandosi dietro solo gli effetti
personali e lasciando un cartoncino ritagliato da un calendario che stava
appeso in cucina, con la scritta: Non
cercarmi, ho bisogno della mia solitudine, Martina.
Guido soffrì in silenzio, cercò nella sua mente una motivazione, non la trovò, di quella donna s’erano perse le tracce, ed il suo lavoro diventò il suo idolo, il suo sorriso non fu più e l’ilarità che lo contraddistingueva scemò fino a farlo diventare serioso, impassibile davanti alle sollecitazioni. Le donne erano soltanto colleghe a cui dare il buongiorno, e persino Angelina, la cassiera del panificio sotto casa, che per lui aveva sempre mostrato attenzioni e con la quale talvolta si intratteneva a dialogare, diventò solo colei che doveva dargli lo scontrino e nulla più.
Guido soffrì in silenzio, cercò nella sua mente una motivazione, non la trovò, di quella donna s’erano perse le tracce, ed il suo lavoro diventò il suo idolo, il suo sorriso non fu più e l’ilarità che lo contraddistingueva scemò fino a farlo diventare serioso, impassibile davanti alle sollecitazioni. Le donne erano soltanto colleghe a cui dare il buongiorno, e persino Angelina, la cassiera del panificio sotto casa, che per lui aveva sempre mostrato attenzioni e con la quale talvolta si intratteneva a dialogare, diventò solo colei che doveva dargli lo scontrino e nulla più.
Consumata la
sua cena, dopo avere sparecchiato con cura, Guido si recò in salotto, accese il
piccolo televisore e dopo il notiziario lo sintonizzò su un canale che lo
portava con la fantasia a visitare il mondo. Difficilmente il telefono di casa
squillava, solo la domenica mattina, quando la sorella, più grande di lui, lo
chiamava da Parigi dove abitava con la famiglia. Quello era il momento più bello
della settimana, Guido non era più solo, si intratteneva anche per mezzora,
chiedeva di tutti e riusciva a sorridere.
Stranamente il telefono trillò,
l’uomo ebbe un attimo di esitazione, quasi si interrogò per capire chi lo
chiamasse alle ventitré del mercoledì, alzò la cornetta: Pronto… ma dall’altro capo solo un singhiozzo e nulla più. Lo colse
l’irrequietezza e, riposta la cornetta, si mise a passeggiare concitatamente
attorno alle poltrone, nell’attesa che trillasse di nuovo. Si convinse dopo un
po’ che qualcuno aveva sbagliato numero, si recò nella cameretta, alzò il
cuscino, una busta era posta sul suo pigiama, sul frontespizio a stampatello: X GUIDO.
Prese la busta tra le mani e
rimase imbambolato a guardarla. Per la sua mente passò la porta chiusa senza le
mandate, la telefonata col singhiozzo, sedette sul letto, l’aprì e lesse:
Guido, quella mattina di maggio di nove anni
fa sono andata via, non ho lasciato nulla che ti potesse far ricordare di me,
sinanco la scatola vuota delle mie compresse antiallergiche riposta
nell’armadietto del bagno. Ti ho chiesto di non cercarmi, e tu hai rispettato
la mia richiesta, non so se hai capito perché, ma per questo ti ringrazio. So
di averti reso la vita un inferno, so di averti rubato il sorriso, so di avere
ridotto la tua vita a quella di un automa e, come un acido corrosivo, ho
cancellato in te la voglia di amare. Ricordi? L’unico mandorlo in mezzo ai
pini, a strapiombo sul mare, dove passavamo interi pomeriggi a scrutare
l’orizzonte, a contare le barche che rientravano nel piccolo porticciolo, e tu,
a scommettere sul passaggio delle navi di linea a orari precisi. Il rovo alle
nostre spalle, sempre stracarico di more e il martin pescatore che faceva la
navetta tra il mare ed il suo nido pensile. Ho portato con me, quando sono
andata via, l’ammonite che abbiamo estratto con certosina pazienza dall’unico
sasso affiorante dove poggiavamo la nostra colazione. Son passata mille volte
da quel posto, non mi sono mai potuta fermare ma, non avrei mai voluto che
fosse contaminato da altre presenze. Scusami, ma ho portato con me la chiave di
casa, quella con cui ho aperto per mettere sotto il cuscino questa lettera. Non
ho avuto il coraggio di girare per casa, non me la sono sentita, mi son sentita
una ladra e son fuggita via.
Perché questa lettera? Solo ora ho potuto scriverla, solo
ora sono in grado di spiegarti, solo ora! Prima sono stata impedita!
Era il due di maggio quell’anno, tu eri già andato al lavoro, sono uscita
per andare a trovare mia madre; nel parcheggio seminterrato ho visto un
capannello di uomini, discutevano sottovoce, avevano tre o quattro
ventiquattrore che si scambiavano, un uomo ne aprì una sul cofano di una
macchina parcheggiata, d’un tratto una serie di spari, tre uomini a terra e gli
altri che si apprestavano alla fuga. Feci finta di non vedere perché capii di
essere diventata una presenza scomoda, risalii in macchina ma una pistola toccò
la mia guancia e l’uomo: - Scendi e non fare storie! Scesi dall’auto e mi caricarono su una BMW di
colore scuro, mi imposero di starmene serena ma soprattutto di sorridere. Non
capii dove andammo, la macchina entrò in un garage e l’uomo che sembrava quello
che dava ordini disse: - Lei viene con me!
Non fiatò nessuno, risaliti in macchina gli altri andarono via, io fui
costretta a mettermi al braccio del mio aguzzino e salire in ascensore fino ad
un attico. Fui invitata a sedere, mi accorsi solo allora di avere la gonna
bagnata, me l’ero fatta addosso. L’uomo sedette davanti a me: - Non temere, sei
una donna fortunata, sei stata docile, ma soprattutto sei rimasta zitta, sei
anche una bella donna dagli occhi dolci, avremmo dovuto eliminarti per non
avere testimoni, dipende da te morire, ma prima uccideremo i tuoi affetti più
cari, decidi tu. E’ preferibile che nessuno ti cerchi, ricorda che c’è sempre
una pistola dietro la tua nuca! Devi soltanto dimostrarmi che ami te stessa e i
tuoi cari, il silenzio e l’obbedienza cieca!
Mi offrì un cognac, poi ripose la pistola nella tasca della giacca: - Se
ti va puoi andare in bagno, ma lascia aperta la porta, non guarderò dentro,
stai tranquilla, fra mezzora la tua auto sarà rinchiusa in un garage così
nessuno la vedrà. Entrai in bagno,
cercai di asciugarmi, riflettei su tutto, io quell’uomo l’avevo visto, mi feci
ritornare alla mente dove l’avevo visto, era stato un funzionario della banca
vicino casa, ne ricordavo il cognome e temevo che anche lui sapesse chi ero.
Uscii dal bagno e fissandolo negli occhi lo rassicurai: - Signore, io non vi
conosco, vi garantisco che non ho conosciuto gli altri uomini che erano con
voi, vi ringrazio per avermi risparmiato, so di essere un testimone scomodo, ma
so che non vivrei un attimo in più se parlassi, vi prego, se potete lasciatemi
andare, se non mi avete fiducia verrò con voi dove mi dite, ma non torcete un
capello al mio compagno o alla mia mamma. L’uomo inarcando le sopracciglia: -
Non posso, tra pochi minuti, il tempo di cambiare i miei abiti, usciremo in
macchina come due fidanzatini, ci recheremo a casa tua, piglierai tutte le tue
cose, avrai poco tempo per farlo, poi risalirai in macchina con me. Entrerai da
sola a casa, ricorda hai una pistola alla nuca, richiuderai la porta e verrai
via con me.
Raggiunsi con lui prima una città dopo due anni di spostamenti
nell’interland della nostra, poi ancora un’altra ed un’altra ancora. Poi un
aereo ci portò in Brasile, non ebbi più nessun contatto con questa città, né
mai lui ne parlò. Erano passati tre anni, io ero solo stata la sua compagnia,
alla stessa stregua di un gatto o di un cagnolino, non mi fece mai una avance,
però mi accarezzava con gli occhi, io ero la sua opera d’arte da ammirare e
nulla più. Un pomeriggio d’estate sul grande terrazzo di casa, mentre guardavo
con nostalgia il mare sentii una mano sfiorarmi le spalle, mi girai ed
incontrai le sue labbra che si poggiarono sulle mie. Tremai, e per la prima
volta piansi in sua presenza. Nessuno mai venne in quella casa, non c’era il
telefono, nessuno portava la spesa, facevamo fuori colazione pranzo e cena, sempre
in locali riservati e le nostre passeggiate erano sempre in riva al mare. Erano
passati otto anni, voleva che lo chiamassi Alonzo, mai saputo il suo vero nome
di battesimo, ma ricordavo il suo vero cognome. D’improvviso lo colse una
febbre altissima e non volle ricoverarsi in un nosocomio, un medico ed
un’infermiera tutti i giorni lo assistevano, a giorni stava benino, poi
peggiorava. Una febbre sconosciuta a dir del medico, incurabile, che lo avrebbe
portato all’immobilità e, quindi, alla morte. Non ho imparato in nove anni ad
amarlo, non ci sono riuscita, ma non riuscivo a volergli bene per avermi
risparmiato e per aver mantenuto l’impegno di non farti del male. Prima di
perdere la sua mobilità, staccò dal suo collo una chiave: - Tieni, dentro la cassaforte
c’è il tuo passaporto, è stato vidimato meno di una settimana addietro, accanto
c’è una somma di denaro in dollari canadesi, pigliali, quelli per il mio
funerale li ho consegnati all’infermiera che è figlia di un italiano,
provvederà lei a tutto. Io ho ancora uno scorcio di vita, ti ho tenuta
prigioniera, non potevo rischiare, non ti ho salvato la vita, ma ho
salvaguardato la mia, sono stato un’egoista ma non potevo farne a meno. Mi sono
innamorato di te, ma non ho mai preteso che tu ti innamorassi del tuo aguzzino.
Se puoi perdonami, ma se non ti riuscisse di farlo non te ne vorrò, un prete
raccoglierà il mio pentimento e continuerà a farmi sperare nel perdono di Colui
che tutto può. Chiuse gli occhi e non parlò
più, anche per chiedere da bere lo fece con i gesti, fino a quando si fermò per
sempre il suo respiro. Non andai al suo funerale, non volli deporre nemmeno un
fiore sulla sua bara, prelevai dalla cassaforte giusto il denaro che mi servì
per il viaggio di ritorno, prelevai il passaporto e raccolsi, come quel mattino
di maggio, le mie cose, compresa la scatola delle mie compresse antiallergiche.
La chiave di casa l’ho tenuta gelosamente custodita e l’ho sempre portata con
me, in ogni istante, era rimasto l’ultimo legame, l’innesco dei miei ricordi.
Quando ti ho lasciata questa lettera l’ho deposta nel cassetto del tuo
comodino.
Guido, dieci anni sono tanti, per me sono stati dieci secoli, prigioniera
del silenzio, della paura, del timore di essere eliminata, o di sapere che
qualcuno potesse far del male agli affetti più cari, ed ancora il silenzio, ma
non quello che risveglia il processo di chiarificazione, ma quello dettato
dalla paura, che non è silenzio ma un continuo ribollire di collera, forse il
peggiore dei sentimenti che si possono provare!
C’è ancora tra i pini quel
mandorlo sul dirupo, e il martin pescatore a dondolarsi attaccato al nido?
Chissà se le navi passano sempre puntuali!
E’ finita la voglia di crogiolarmi nella mia solitudine ora, se vuoi, se
puoi, cercarmi! …. Io ho cercato mia madre tra viali di cipressi ed ho trovato
la sua tomba, mi sono sentita in colpa, non l’ho accarezzata un’ultima volta…
non ho potuto!
Martina
Guido ebbe la forza di alzarsi, di
aprire il comodino, prese la chiave attaccata ad un piccolo coniglietto in
argento che le aveva regalato dieci anni prima, proprio il giorno in cui le
consegnò la chiave di casa, la strinse nel pugno e ritornò accanto
all’apparecchio telefonico, nella speranza che trillasse ancora una volta!
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bella...incredibile , ma vera????
RispondiEliminaMi è piaciuto tanto.
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