giovedì 27 febbraio 2014

IL SALOTTO DEI "RANDAGI" - Racconto breve - (27/febbraio/2014)




Dai Racconti del Borgo

Mario Scamardo


Il salotto dei "randagi"





Luisa, quarant’anni suonati portati benissimo, qualche relazione sentimentale nel periodo universitario poi, single per scelta. Il suo lavoro, dalle otto del mattino alle quattordici, dal lunedì al venerdì lo svolgeva presso un’azienda municipalizzata della sua città. Non ci incontravamo da mesi, la vidi davanti all’ufficio aprire la sua borsa, tirare fuori una di quelle sigarette secche secche che sembrano mozziconi di cannuccia da succo di frutta, accenderla, tirare una lunga boccata ed espirare il fumo che attraversava i suoi capelli color castano. Mi avvicinai e lei fu cordialissima come al solito, ma sembrava che il suo viso fosse coperto da un velo grigio, non c’era la solita luce negli occhi e, forse, si notava la perdita di qualche chilo. La conoscevo da quando io ero un ragazzo e lei era attaccata al seno di sua madre.
-         Ciao Luisa, è un po’ di tempo che non ci vediamo, come stai?
-         Bene, grazie, e tu cosa fai da queste parti?
-         E’ un caso che mi trovo qui, all’angolo di fronte ho comprato una lampada da tavolo con luce bianca. Se ti va, attraversiamo l’incrocio e pigliamo un aperitivo o, ti invito a pranzo, dietro al bar c’è un ristorantino poco male.
La ragazza si attaccò al braccio:
-         Oggi non pranzi a casa?
-         Ora telefono che non rientro, ti vedo molto tirata in viso, ho notato un velo di tristezza, se vuoi ne possiamo parlare.
Luisa abbozzò un sorriso forzato, poi:
-         Ma si, andiamo direttamente a pranzo.
Sedemmo ad un tavolo ed ordinammo un antipasto ed un secondo. Bella donna Luisa, delle forme perfette, due occhi grandi e luminosi, nel pieno della sua bellezza, traboccante di fascino. La guardavo, carezzandola con gli occhi, e più la guardavo, più quell’alone di tristezza si coglieva.
-         Che ti succede Luisa, cosa ti affligge, ti va di parlarne?
La donna abbassò per un attimo gli occhi, poi:
-         Vienimi a trovare a casa, difficile che nei pomeriggi non ci sia, non amo tanto uscire, e non mi piace neppure guidare in città, ma tu chiamami prima, il mio numero di telefono ce l’hai, ne parleremo seduti davanti ad un caffè.
-         Uno solo? Me ne hai dati tre di numeri, quattro con quello del fisso, mi chiedo sempre come fai a gestire quattro telefoni.
Sorrise Luisa.
-          Non preferisco andare in giro, ma ho tanti contatti, ricevo a casa amici, non sono un animale solitario.
Consumammo il pranzo, e dopo un caffè preso al bar all’angolo ci separammo con l’impegno di rivederci.
            Non fu un pomeriggio sereno, il rimandare il discorso sul suo velo di tristezza mi fece pensare, mi diede anche un pizzico di inquietudine, cosa le era successo? Luisa la conoscevo sin da ragazzina, la sua famiglia abitava a tre isolati dalla mia, era una ragazza aperta al dialogo, ed una intelligente osservatrice con grande capacità d’ascolto. Due giorni dopo mi chiamò e mi invitò nel pomeriggio a casa sua. Quando entrai sentii un forte aroma di caffè e i posaceneri del suo salotto erano colmi di mozziconi. Luisa fumava quelle sigarettine sottili, ed anche molte, ma i mozziconi erano di tutte le marche.
-         Accomodati, apro una finestra, in tre si sono fumati un tabacchino. Ho avuto ospiti due amici ed una amica, in due ore ho fatto tre volte il caffè, fiumi in piena che mi hanno raccontato le loro storie. Vuoi tu un caffè?
-         Grazie, lo piglio volentieri.
Scartò una cialda la ragazza, la pose nella macchinetta, aspettò che finisse di uscire il caffè e poggiò la tazza sul tavolinetto assieme allo zucchero, poi sedette sulla poltrona accanto, i telefonini squillarono a turno tutti e lei rispose alle chiamate, poi per non sembrare scortese spense i tre cellulari.
-         Scusami, è sempre così. Mi hai chiesto perché sono triste, lo sono da un po’. Questo mio essere disponibile all’ascolto degli altri, da un po’ di tempo ha fatto parlare alcune persone facendomi mettere in cattiva luce. Mi si appioppano amanti di ambo i sessi e casa mia è stata definita un luogo dove si può incontrare l’amico o l’amante in maniera furtiva ma compiacente da parte mia, insomma sarei diventata una ruffiana, un paraninfo. Tutto ciò mi ha fatto tanto male, e siccome non c’è nulla di più falso, io continuo a ricevere a casa mia chiunque voglia farsi ascoltare. Non ci vediamo da un po’ di tempo e in cuor mio ho pensato che tu, essendo convinto di quanto circola in giro sul mio conto, ti fossi allontanato. L’altro giorno incontrandoci ho capito di essermi sbagliata.
La guardavo fissa, vedevo ondeggiare le sue chiome, muovere le sue mani e le sue labbra. Con naturalezza svuotava il sacco, era lei che aveva bisogno di essere ascoltata. Accese una sigaretta, reclinò la testa sullo schienale e fissò la volta di quel salotto dove campeggiavano affrescati due amorini tra le siepi di alloro. Chiuse gli occhi per un attimo come a voler cercare nei suoi ricordi il prosieguo del suo narrare. C’era qualcosa che Luisa ancora non aveva detto, forse non trovava le parole per esporre, forse la paura di essere giudicata, forse un rimorso che le attanagliava l’anima. Rialzò il capo, inarcò le labbra accennando ad un sorriso, spense il mozzicone e si alzò.




-         Vado a prendere una bottiglia di cognac e porto due bicchieri.
Andò in cucina la ragazza, forse il cognac l’avrebbe aiutata a liberarsi di quanto aveva dentro, poi tornò con due bicchieri, versò il cognac, ne diede uno a me, poi sedette e bevve il suo d’un fiato come dentro ad un saloon dell’antico far west.
-         C’è una cosa che devo dirti, ma non giudicarmi, io non mi sono perdonata.
-         Parlane, se ti va, con serenità. Nessuno ti può giudicare, nessuno ne ha il diritto. Io ti ascolterò e, ove occorra, ti darò una mano.
-         Amico mio, non è facile parlarne, ma ti stimo tanto, quindi, parlerò, nella speranza che serva a farmi elaborare il lutto. Vedi il mio salotto ospita ogni pomeriggio tanta gente, raccolgo le confessioni di trasgressori, di traditi, di delusi in amore, uomini e donne, tanta gente non è riuscita a risolvere i propri problemi, non ha avuto il coraggio di affrontare gli eventi, ne parla con libertà, sapendo della mia estrema discrezione e trova sollievo. Sai, vengono come quei bastardini che cercano un padrone ed io non so dire di no, sembra che io raccolga tutti i randagi e per ognuno preparo una ciotola diversa ma che li solleva dalla fame di attenzioni. Sei mesi addietro conobbi un uomo, molto distinto che si accompagnò ad un’amica e fu mio ospite. Parlando lessi nei suoi occhi un filo di tristezza, fu discreto, per nulla invasivo, senza un dialogo a casa sua dove non regnava il calore umano, trovò a casa mia chi lo ascoltava, chi divideva con lui un caffè e col caffè idee e pensieri. Un giorno telefonò e mi venne a trovare con in mano un mazzetto di ranuncoli variopinti, sedette e, come stai facendo tu, mi accarezzò con gli occhi, la sera cenammo assieme in un ristorantino in riva al mare, passeggiammo sull’arenile ed io presi la sua mano, lui mi cinse e mi baciò lungamente. Quaranta giorni dopo ebbi la certezza di essere in dolce attesa e fui felice. Quell’uomo aveva una sua famiglia, fredda, carente di attenzioni, era succube di una moglie che lo aveva ridotto ad uno straccio, si proprio ad un randagio, ma io non ebbi il coraggio di dire di essere incinta. Ne parlai ampiamente con l’amica più fidata e caddi nell’errore di ascoltarla e di pigliare per oro colato i suoi consigli. Forse non ero preparata a tanto, non ci avevo neppure pensato, ed un pomeriggio una mammana mi liberò della creatura che portavo in grembo. Sulle prime pensai di avere fatto bene, avrei evitato di caricare quell’uomo di ulteriori gravami, poi subentrò il rimorso, che mi rode ancora dentro, un rimorso che nessuno dei miei randagi può aiutarmi a strappare dalla mia coscienza. Il mio umore cambiò, non riuscii ad essere tenera, non seppi più ascoltare e in un momento d’ira gli addossai la colpa dei miei disagi. Giusto? Sbagliato? Non so dirtelo ma odiai quell’uomo e lo misi alla porta, da quel giorno non lo vidi più. La presenza di tanta gente a casa mia mi svia, mi aiuta a non pensare, ma ho una gran voglia di dimenticare, ora son diventata anch’io randagia col bisogno di essere ascoltata.
Non si fermò un attimo nel suo narrare e quel cognac l’aveva forse aiutata a non fermarsi a tirare tutto fuori. Ebbi un attimo di smarrimento, la guardai tutto il tempo quasi estasiato, ed anch’io l’avevo accarezzata con gli occhi.  Riempì ancora i due bicchieri e porgendomene uno:
-         Forse non ho dimenticato nulla, ma ti prego non giudicarmi, aiutami ad uscire dal tunnel del rimorso.
Bevvi d’un fiato, poi tirai dal taschino la mia pochette e gliela diedi:
-         Asciuga i tuoi occhi, il pianto aiuta qualche volta, ma non risolve alcun problema. Non ti giudicherei mai, ma devo trovare la forza ed il tempo per aiutarti a scaricare l’enorme fardello. Luisa, permettimi di metterti al guinzaglio e di portarti fuori da qui. Anch’io ho una famiglia, ma piena di calore e di buonsenso, saprò spiegare.
-         Cosa vuoi che faccia.
-         Pigliati un po’ di giorni di ferie, usciamo dal tuo salotto, rechiamoci in un posto dove proverai a dimenticare o, quantomeno, a trovare una ragione per quanto ti è accaduto. Se ti fidi di me, sarò la tua ombra fino a quando non vedrò cadere il velo di tristezza che ti copre il volto, poi, in punta di piedi, mi allontanerò e tu potrai ritornare a dar conforto a quanti te lo chiederanno. Luisa, so che sei generosa, so che ti preoccupi per gli indigenti, che aiuti alcune famiglie nel bisogno, si dice questo di te, e so che non hai risparmi perché doni incondizionatamente agli altri. Penserò a tutto io, quando sarai pronta mi avvertirai, verrò a prelevarti e andremo in giro per dimenticare.
Luisa si alzò, girò dietro la poltrona, mi cinse e mi baciò sulla fronte. Mi alzai e mi avviai all’uscio, aprii la porta ed imboccai le scale.
            Furono tre giorni tristi, provai a ripensare alla sua confessione, analizzai parola per parola. Quella donna, col salotto sempre pieno di gente era sola, sola con se stessa, con i suoi rimpianti, con i suoi rimorsi, e quello che non aveva capito era l’estrema solitudine in cui era immersa. La solitudine, una gran brutta malattia, che fa male, che consuma senza che ce ne si accorga. Una solitudine che porta alla malinconia, malattia ancora peggiore! Luisa, ancorata al suo salotto, non aveva più fantasia, non cavalcava più sogni! Non c’è uomo che non abbia un sogno, i cani randagi glieli avevano portati via, l’avevano sbranata, era rimasta un vegetale che sopravviveva alla sua testardaggine di voler donare ad ogni costo una pace a chi non l’aveva, una serenità, una rassegnazione. Nobile scopo, ma che l’aveva consumata! Non la chiamai, pazientemente aspettai, finalmente mi disse che era pronta, aveva preso due settimane di ferie. I tre giorni di solitudine non le fecero trovare una soluzione, se ne avesse avuto la forza avrebbe trovato una scusa per non impegnarmi, ma non la trovò, ciò mi diede la netta sensazione che era in balia degli altri. Quando salì in macchina sorrise, e mentre sistemavo il suo borsone nel cofano lei prese i suoi cellulari dalla borsa, li spense e li depose nel bauletto portaoggetti.
-         I telefoni non mi servono. Dove andiamo?
-         Ti piace il mare o la montagna? Una città d’arte o qualcos’altro?
-         Fai tu, ma preferisco il mare se piace pure a te.
-         Luisa, anch’io preferisco il mare, anche se è primavera.
-         Portami dove c’è tanta battigia da calpestare e dove c’è tanta gente.
Lunghe passeggiate sull’arenile, ristorantini sul lungomare, piazze affollate, locali con musica, qualche escursione e poche parole, furono una buona medicina per Luisa che ritrovò un po’ di ilarità. Una mattina mentre facevamo colazione in un bar davanti alla cattedrale, Luisa mi chiese se potevo aspettarla, il tempo giusto di entrare in chiesa. Comprai il quotidiano e, seduto ad un tavolo, lo sfogliai, mi servì per ingannare il tempo, ma lessi una decina di articoli, guardai l’orologio erano passate quasi due ore, finalmente la ragazza uscì sul sagrato in compagnia di un sacerdote, mi fece un cenno con la mano e li raggiunsi, lei si scusò del ritardo, mi presentò l’anziano sacerdote, quindi lo salutò ringraziandolo ed insieme raggiungemmo l’arenile. Non una parola, non un accenno, si tolse le scarpe e si mise a correre sulla battigia. Seduto su un muretto l’aspettai, mi abbracciò e con gli occhi sorridenti mi disse:
-         Grazie, senza di te mi sarei persa in una giungla senza uscita. Andiamo, voglio ritornare a casa.
Mi prese per mano ed andammo a ritirare i nostri borsoni in albergo. L’aspettai alla ricezione, la sua camera era al piano superiore, ma quando la vidi era diversa, truccatissima, in pantaloni aderenti ed una maglietta rossa. Mi prese per mano ed andammo verso la macchina. Alla prima rivendita di telefonini mi fece fermare, tirò un documento dalla borsetta ed il codice fiscale, richiese una nuova scheda telefonica ed uscì. Appena in macchina tirò fuori dal bauletto i tre telefonini, tirò fuori le schede e le piegò rendendole inservibili, scelse uno dei tre, vi inserì la nuova scheda e lanciò in mare gli altri due.
-         Dammi il tuo numero di telefono, e segnati il mio, il passato l’ho spezzato, ere in quelle vecchie schede, cambierò la tappezzeria al mio salotto e lo disporrò diversamente. Tu pensi che sia un bene?
Quella domanda mi ammutolì per un attimo, io non avevo nessun diritto di scegliere per lei, né di dare giudizi e tantomeno consigli, ma dovetti rispondere:
-         Luisa, credo tu non sia più un randagio, ora sai cos’è giusto e cos’è errato, sei ritornata padrona di te stessa, delle tue emozioni, delle tue scelte. Io sono stato solo un mezzo, ed ancora lotto con la mia mente confusa.
Il macigno che aveva in corpo l’aveva scaricato in quel dialogo col prete, aveva sciolto tutti i collari, aveva buttato tutti i guinzagli, anche il suo, ritornando la Luisa di sempre.









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venerdì 14 febbraio 2014

I SEGRETI - Racconto breve (14 febbraio 2014)





















 I Racconti del Borgo


Mario Scamardo


I segreti




Elisabetta scartò il suo ultimo cioccolatino, lesse il tenero messaggio che conteneva: “Per amare non occorre esser saggi, ma saper donare senza mai nulla chiedere”. Aprì a caso la sua agenda e lo sistemò tra due fogli, richiuse l’agenda, piegò la scatola che li conteneva e la gettò nel cestino posto sotto la sua scrivania.






La sua tesi di laurea era lì sotto i suoi occhi, sulla scrivania pile di foglietti con appunti ma Elisabetta non riusciva a concentrarsi, non riusciva a dare ordine a tutto quello che aveva scritto, la sua testa sembrava essere altrove, ed ogni tanto le si inumidivano le palpebre e le scappava un singhiozzo.


 Che cosa l’affliggeva non poteva raccontarlo ad alcuno, da sei mesi si era isolata a casa dei genitori, in un paesino dell’interland palermitano per prepararsi agli ultimi due esami e per stilare la sua tesi. Amiche? Poche, ma solo in città. Al suo ultimo esame, superato brillantemente, dopo una cena in un ristorantino del centro storico Alfredo, il suo ragazzo, era stato freddo, taciturno, di poche parole, con quella enorme scatola di cioccolatini l’aveva accompagnata davanti al portone di casa appena dopo cena, e da quel giorno solo qualche breve telefonata, prima tutti i giorni, poi con scadenze sempre più lunghe, fino ad eclissarsi. Cos’era successo? Elisabetta non sapeva darsi spiegazioni, il loro era stato un grande amore pieno di passione, mai una rinuncia, mai un dissidio, mai un turbamento, fino al punto che lei ne aveva parlato ai suoi genitori con la felicità che le sprizzava da tutti i pori. Alfredo si era laureato due anni prima in ingegneria, si era abilitato, aveva messo su uno studio in città con due colleghi.

Un pomeriggio sua madre entrando nella sua camera per portarle un tè, notò gli occhi di Elisabetta arrossati di pianto, adagiò il vassoio sulla scrivania, la cinse da dietro le spalle e dolcemente le chiese:

-         Perché piangi, cosa ti succede?

-         Nulla, mamma, sarà forse la stanchezza, lo stress, non riesco ad applicarmi, sono distratta da mille cose, non riesco a mettere ordine a questa benedetta tesi, ma non preoccuparti, ci metterò tutto l’impegno per ultimarla e, poi, quando sarà pronta, tutto sarà passato in un baleno.

La madre le diede un bacio, capì che la tesi non era il motivo dei suoi turbamenti, ma stette al gioco:

-         Vedrai che domani, a mente serena, ritroverai la voglia di ripigliare il tuo lavoro, se ti va andiamo in giro per negozi, aspetteremo tuo padre davanti al suo studio ed andremo a mangiare una pizza tutti e tre, da un po’ non lo facciamo.

Elisabetta si alzò, abbracciò la madre e ruppe in un pianto dirotto, singhiozzando:

-         Si, mamma, forse è meglio così, usciamo!

Quella serata con i genitori produsse un effetto positivo. La ragazza si sentì vicina a qualcuno che l’amava, ma di un amore diverso, di quelli che non traballano, che non danno patemi, che non fanno soffrire e si sentì forte. In meno di una settimana finì la sua tesi sugli arredi urbani della sua città e quando si recò alla facoltà di Architettura per farla visionare dal docente che gliela aveva assegnata, incontrò le sue colleghe e due delle tre amiche con le quali divideva un appartamento in città, Francesca e Giuliana. Chiese di Adalgisa ma, quasi contemporaneamente le due le risposero che aveva abbandonato l’appartamento ed era andata ad abitare altrove, e da allora l’avevano intravista pochissime volte.  Fu una mattinata splendida, uscì dall’Ateneo in compagnia delle ragazze per recarsi con loro a pranzo nella solita trattoria frequentata per lo più da studenti. Sedute a tavola, dopo i primi stuzzichini, Elisabetta ritornò a chiedere di Adalgisa, ma le due amiche, elusero la domanda e la tempestarono loro su come fosse stato il periodo passato in paese, da dove avesse attinto le notizie sulla tesi, su quale fosse la bibliografia, sui testi più astrusi che aveva consultato. Nessuno le chiese di Alfredo o se avesse nel frattempo un amico particolare.

        Tre mesi dopo fu il giorno della sua laurea. Elisabetta si alzò alle sei del mattino, indossò l’abito più bello, attese che i suoi genitori fossero pronti e messisi in macchina parcheggiarono nel piazzale davanti ad Architettura. L’aula magna della facoltà era semivuota, lei prese tra le mani la sua tesi, diede ancora una sbirciata alla prefazione, poi la consegnò a suo padre ed aspettò che arrivassero i suoi colleghi con i quali si salutò cordialmente e dialogò fino a quando la commissione esaminatrice non aperse la sessione. Lei, seconda in elenco, attese che un suo collega finisse di illustrare la propria tesi e, quando la commissione rientrò dopo avere deliberato sul primo esaminando, prese posto seduta compostamente davanti al grande tavolo.  Con scioltezza e padronanza di linguaggio ringraziò i suoi docenti per quanto le avevano insegnato, ed i suoi genitori per i sacrifici che avevano fatto, dedicando a loro la sua laurea. Chiuse la sua illustrazione e attese che qualcuno le ponesse delle domande. Rispose anche a quelle e con l’assentire degli esaminatori, si alzò in piedi ed attese che il preside della facoltà la dichiarasse dottore in Architettura col massimo dei voti e la lode. Quando si girò verso i genitori, in cima all’emiciclo vide Alfredo che stava per sortire dall’aula. Le sue gambe si bloccarono, il cuore le diventò aritmico, come in preda ad un capogiro si appoggiò alla poltrona sulla quale un momento prima era seduta, non lo vedeva e non lo sentiva da nove mesi, un attimo di smarrimento e poi lo slancio verso sua madre. Francesca e Giuliana, pure loro avevano visto Alfredo e, parlando tra loro sottovoce, dissero che Adalgisa non aveva trovato il coraggio per entrare, era rimasta in macchina.



        Elisabetta con i genitori e le due amiche guadagnarono l’uscita, si recarono in un bar del centro e brindarono alla laurea. Elisabetta non volle che si facesse una festa, volle invitare le due amiche a cena a casa sua tre giorni dopo. Dopo le congratulazioni dei parenti e di qualche vicino di casa, senza cenare, volle andare a letto, non erano nemmeno le ventidue, fece una doccia e cadde in un profondo sonno. Il mattino seguente si svegliò alle dieci, ma a fronte del lungo riposare, i suoi occhi erano coperti da un velo di tristezza.

        Francesca e Giuliana telefonarono nel primo pomeriggio annunciandole una visita, mezzora dopo erano a casa sua. Dopo i convenevoli con la sua mamma, caricarono Elisabetta in macchina e si recarono in riva al lago che era a pochi chilometri. Passeggiando, raccontarono alla ragazza quanto sapevano di Alfredo, e fu Giuliana a cominciare:

-         Cara amica mia, non abbiamo avuto mai il coraggio di informarti della relazione tra Alfredo e Adalgisa, anche quando stavamo tutte e quattro assieme e tu eri legata a lui, forse abbiamo sbagliato. E’ stato il nostro segreto! Tu eri innamoratissima, ed anche lui sembrava esserlo, ma un giorno abbiamo sorpreso Adalgisa a letto con Alfredo, mentre tu eri a lezione, ed abbiamo appurato che la storia era già vecchia. Non volevamo darti un dolore, ma abbiamo costretto Adalgisa ad andare via dalla casa in cui anche tu abitavi. Abbiamo pregato quell’uomo che ti aveva rubato il senno a non incontrarti più, a non cercarti più, usando anche qualche piccolo ricatto. Dopo un po’ ci siamo riuscite, aiutate dal fatto che tu eri andata ad abitare a casa tua con i genitori. Non è stato facile, abbiamo sofferto nel dubbio che questo nostro comportamento potesse essere frainteso dall’unica amica sincera che abbiamo. Abbiamo fatto bene o male, sarai tu a giudicare, a chiederci eventualmente di allontanarci da te.

             Elisabetta, rimasta immobile ad ascoltare, non battette ciglio, imbambolata guardava l’incresparsi dell’acqua del lago alla leggera brezza che si faceva strada tra le colline e il suo volto diventava di cera. Francesca timidamente le prese le mani:

-         Questi due ci hanno rubato la serenità, ma abbiamo avuto la forza di aspettare che tu affrontassi con serenità l’esame di laurea, che non ti fermassi, che non sapessi del loro marciume. Ricordi Elisabetta? Abbiamo festeggiato tutte e quattro quando Alfredo ti ha dichiarato il suo amore, non abbiamo dormito la notte, abbiamo visto comparire l’alba parlando di voi poi, appena poche settimane dopo, il primo sospetto e poi la certezza che Giuliana ti ha già raccontato.

-         Amiche mie, non sentitevi nessuna colpa, io ho imparato a dimenticarlo, Adalgisa? Le ho voluto bene come ne ho voluto a voi, oggi non provo neppure sdegno. Ieri, ignara di quanto mi avete detto, quando alzando lo sguardo in cima all’emiciclo dell’aula magna, vidi Alfredo che aveva assistito al mio esame, ebbi un piccolo mancamento, nove mesi che non lo vedevo, che non lo sentivo, ho sperato nel miracolo, poi l’ho visto scomparire, eclissandosi, ed ebbi voglia di parlargli. Uscita dall’aula lo cercai con gli occhi, ma niente! Francesca, non mi è crollato il mondo addosso, ho tirato un lungo sospiro ed ho inghiottito ancora un rospo.

-         C’era pure Adalgisa, è rimasta in macchina ad aspettare, per fortuna ha trovato il buon senso di non farsi vedere. Amica mia, è difficile dirlo, ma qualora tu non avessi ancora tolto dalla tua mente quell’uomo, ti confesso con dolore, che un pomeriggio di poco tempo fa ha bussato alla porta, l’ho fatto entrare e dopo un caffè mi ha chiesto se ero disposta ad intraprendere una relazione anomala con lui. Capirai che mi sembrarono mille anni quei tre minuti che mi servirono per accompagnarlo alla porta in maniera sgraziata. Poi fu un pianto che non riuscii a contenere per almeno un’ora.

      Elisabetta prese per mano le due amiche, in silenzio passeggiò con loro in riva al lago per un lungo tratto, poi si indirizzarono verso l’automobile e prima di salire:

-         Grazie ragazze, non avete nulla di cui rimproverarvi, abbiamo bisogno tutte e tre di dimenticare, non sarà difficile, anzi, mi avete aiutato ad elaborare il lutto in pochissimi momenti, queste persone sono già uscite dalla mia mente, spero che ciò avvenga pure per voi. Su, andiamo, stasera si festeggia, vi invito in pizzeria, qui in paese non ci sono ristoratori, solo un paio di bettole. Poi andremo in un pub fuori paese e, se ne avremo il coraggio, alzeremo un po’ il gomito.

      Salirono in macchina le ragazze e andarono a casa di Elisabetta per prepararsi alla serata.

      Elisabetta affrontò gli esami di abilitazione all’esercizio della professione e cominciò a frequentare uno studio di architettura per fare praticantato, due anni dopo venne chiamata da una grande e rinomata società che si occupava di progettazioni e messa in opera di arredi urbani, la Urbis. Ci volle poco per la ragazza ad arrivare in cima nella struttura in cui operava, era molto preparata e si aggiornava continuamente intervenendo in tutti i convegni. Un mattino qualcuno la chiamò e le affidò la direzione generale della società. Il suo nome girava per tutti gli studi professionali, per tutte le imprese e in tutti gli uffici pubblici, trattavano con lei i tecnici, gli amministratori pubblici, gli ordini professionali. Un giorno arrivò sul suo tavolo una richiesta d’impiego corredata di curriculum, attaccato al carteggio un foglietto a firma del suo presidente dove stava scritto e sottolineato: L’architetto è amica di famiglia!!!  Elisabetta prese tra le mani la carpetta, trasse il curriculum, era quello di Adalgisa, laureata da due anni, nubile, con un’esperienza di lavoro presso lo studio di Alfredo. Stranamente sorrise, richiuse la carpetta, vi riattaccò sopra il biglietto e continuò a lavorare al suo computer. Tre giorni dopo il presidente, in compagnia del presidente dell’Ordine degli architetti varcò la soglia del suo ufficio, Elisabetta li fece accomodare e i due le parlarono dell’arredo urbano di una cittadina della provincia, la ragazza chiese di visionare il progetto e si impegnò ad esitarlo in due giorni. Prima di accomiatarsi il Presidente della Urbis le chiese dell’istanza di Adalgisa che giaceva sul suo tavolo, proprio sotto i suoi occhi, lei riprese tra le mani la carpetta:

-         Presidente, l’ho visionata, intendevo parlarne con lei.

-         Ci sono difficoltà?

-         Per nulla, visto il suo appunto, volevo chiederle su come procedere, se verificare realmente la sua predisposizione e preparazione, o assumerla affidandola allo studio tecnico affinché possa farsi le ossa, ma se desidera che le affidiamo subito un settore, è presto fatto!

-         No, signorina, il fatto che sia amica di mia figlia non è un lasciapassare, se vuole verificare lei, mi fa piacere, altrimenti questo compito lo affideremo proprio all’ufficio tecnico.

-         Come desidera, io le rimando la carpetta, meglio che siano i tecnici ad occuparsene.

-         Io amo la scrupolosità, la carpetta la porto via io.

      Elisabetta si sentì sollevata, erano passati tanti anni, aveva quasi dimenticato, ora si interrogava se fosse in grado di perdonare o no.

      Un pomeriggio, all’uscita dall’ufficio, mentre stava per mettersi in auto, un uomo l’avvicinò, era Alfredo che a testa bassa la salutò:

-         Ciao Elisabetta.

-         Oh, ciao, che fai da queste parti?

-         Scusami, son qua che aspetto da un’ora, desidero parlarti.

La ragazza accostò la portiera dell’auto

-         Dimmi, ti ascolto.

-         Scusami, forse non avrei dovuto, ma le ho fatto tanto male e vorrei quantomeno non esserle più d’impedimento.

-         Di chi parli?

-         Di Adalgisa, l’ho licenziata dal mio studio dopo un anno che ci siamo lasciati, non era più possibile che lei rimanesse a lavorare con me.

-         Ti sei fatto sorprendere con una nuova amante!

-         Proprio così, sono un incorreggibile!

-         E lei?

-         Ha subito, ma sento dentro di me il peso del male che le ho fatto.

-         Non è stata la prima lei e non sarà l’ultima! Dimmi cosa posso fare per te.

-         Per me nulla, so che Adalgisa ha chiesto un impiego alla Urbis, tu puoi decidere se darle un lavoro o lasciarla in balia di uno studio professionale che la sfrutterebbe sottopagandola. Lei non sa che sei tu a decidere del suo destino, forse se l’avesse saputo non avrebbe neppure presentato il suo curriculum. Sono stato tremendo con lei, ho carpito la sua buona fede, l’ho fatta innamorare, sono la causa dell’enorme ritardo dei suoi studi, le ho fatto intravedere una vita insieme e poi…

-         L’hai tradita per la prima gonnella che ti è passata davanti. Alfredo, io ho dimenticato il male che mi avete fatto, ho dimenticato il tradimento di Adalgisa, non so portare rancore. Per evitare di poter pesare sulle decisioni dell’Urbis ho rimandato la pratica al presidente. Sarà accettata? Non so dirtelo, sarà l’ufficio tecnico a decidere se assumerla o no.

-         Non so se posso meritare per un solo attimo la tua fiducia, ma ti garantisco che Adalgisa è tecnicamente all’altezza del compito che l’Urbis potrà affidarle.

      Elisabetta corrugò per un attimo la fronte, poi porse la mano ad Alfredo:

-         Ciao Alfredo, analizzerò questo barlume di rimorso che ti porti dietro, ciao.

      Riaprì lo sportello della macchina, mise in moto ed andò via.

      Per tutta la serata ripensò al discorso avuto con Alfredo, quell’incontro non le aveva dato nessuna emozione, lungi da lei il sentimento della vendetta, non c’era collera in lei, non aveva provato imbarazzo, solo commiserazione per la meschinità. Il rimorso? Certo, non doveva essere bello conviverci! Dopo cena uscì di casa, andò sul lungomare e passeggiò da sola guardando soffermandosi ogni tanto a mirare la risacca sotto la luce dei lampioni. Piccoli gozzi, legati a sottili sagole, si dondolavano sulle onde come guidati da un coreografo che ne seguiva compiaciuto i movimenti. Il mattino seguente si recò al lavoro, nel parcheggio trovò il presidente che prelevava la sua borsa dall’auto, lo salutò ed assieme entrarono al bar dove presero un caffè, appena usciti:

-         Presidente, ho fatto mente locale su quella pratica di assunzione, è preferibile che non le dia disturbo, salendo la esamino io, stamattina ho un po’ meno carico di lavoro, sempre che lei gradisca.

-         Ma certo signorina, sono contento che la esamini lei, se ha bisogno di incontrare l’architetto la facciamo chiamare per un colloquio. Salendo trova la pratica sul mio tavolo, io mi attardo un po’ nell’androne ad attendere il presidente dell’Ordine degli architetti, fra un’oretta la faro chiamare per i progetti che lei vuole visionare.

-         Non si dia pensiero presidente, penso a tutto io, stia tranquillo.



Salì in ascensore, entrò nello studio del presidente, prelevò la carpetta e sedette al suo tavolo. Si impose un segreto, non avrebbe mai rivelato ad Adalgisa il rimorso di Alfredo ed il loro incontro, non sapremo mai se il suo segreto serviva a punire ambedue o se fosse solo un atto di pietà nei confronti dell’ex amica, poi scrisse sulla facciata della carpetta “Si assume per area tecnica”, ci pose sotto la sua firma, si recò all’ufficio del personale e chiese che immediatamente si desse corso all’assunzione. Ripresa la sua borsa, discese le scale, e si recò nel grande bar di fronte all’Urbis, dopo un bicchiere d’acqua bevve ancora un caffè e chiese una scatola di cioccolatini, una confezione enorme, pagò alla cassa e ritornò al suo lavoro. Ogni volta che scartò un cioccolatino si impose di non leggere il messaggio che conteneva, riservandosi di leggerli tutti assieme dopo avere scartato l’ultimo. Per un errore di confezionamento, in quella scatola erano finiti trentasei messaggi uguali: “L’amore è uno scrigno che contiene piccoli e grandi segreti”. 







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