I Racconti del Borgo
Mario Scamardo
I segreti
Elisabetta
scartò il suo ultimo cioccolatino, lesse il tenero messaggio che conteneva:
“Per amare non occorre esser saggi, ma saper donare senza mai nulla chiedere”.
Aprì a caso la sua agenda e lo sistemò tra due fogli, richiuse l’agenda, piegò
la scatola che li conteneva e la gettò nel cestino posto sotto la sua
scrivania.
La sua
tesi di laurea era lì sotto i suoi occhi, sulla scrivania pile di foglietti con
appunti ma Elisabetta non riusciva a concentrarsi, non riusciva a dare ordine a
tutto quello che aveva scritto, la sua testa sembrava essere altrove, ed ogni
tanto le si inumidivano le palpebre e le scappava un singhiozzo.
Che cosa
l’affliggeva non poteva raccontarlo ad alcuno, da sei mesi si era isolata a
casa dei genitori, in un paesino dell’interland palermitano per prepararsi agli
ultimi due esami e per stilare la sua tesi. Amiche? Poche, ma solo in città. Al
suo ultimo esame, superato brillantemente, dopo una cena in un ristorantino del
centro storico Alfredo, il suo ragazzo, era stato freddo, taciturno, di poche
parole, con quella enorme scatola di cioccolatini l’aveva accompagnata davanti
al portone di casa appena dopo cena, e da quel giorno solo qualche breve
telefonata, prima tutti i giorni, poi con scadenze sempre più lunghe, fino ad
eclissarsi. Cos’era successo? Elisabetta non sapeva darsi spiegazioni, il loro
era stato un grande amore pieno di passione, mai una rinuncia, mai un dissidio,
mai un turbamento, fino al punto che lei ne aveva parlato ai suoi genitori con
la felicità che le sprizzava da tutti i pori. Alfredo si era laureato due anni
prima in ingegneria, si era abilitato, aveva messo su uno studio in città con
due colleghi.
Un
pomeriggio sua madre entrando nella sua camera per portarle un tè, notò gli
occhi di Elisabetta arrossati di pianto, adagiò il vassoio sulla scrivania, la
cinse da dietro le spalle e dolcemente le chiese:
-
Perché piangi, cosa ti succede?
-
Nulla, mamma, sarà forse la stanchezza, lo
stress, non riesco ad applicarmi, sono distratta da mille cose, non riesco a
mettere ordine a questa benedetta tesi, ma non preoccuparti, ci metterò tutto
l’impegno per ultimarla e, poi, quando sarà pronta, tutto sarà passato in un
baleno.
La madre le diede un bacio, capì
che la tesi non era il motivo dei suoi turbamenti, ma stette al gioco:
-
Vedrai che domani, a mente serena, ritroverai la
voglia di ripigliare il tuo lavoro, se ti va andiamo in giro per negozi,
aspetteremo tuo padre davanti al suo studio ed andremo a mangiare una pizza
tutti e tre, da un po’ non lo facciamo.
Elisabetta si alzò, abbracciò la
madre e ruppe in un pianto dirotto, singhiozzando:
-
Si, mamma, forse è meglio così, usciamo!
Quella
serata con i genitori produsse un effetto positivo. La ragazza si sentì vicina
a qualcuno che l’amava, ma di un amore diverso, di quelli che non traballano,
che non danno patemi, che non fanno soffrire e si sentì forte. In meno di una
settimana finì la sua tesi sugli arredi urbani della sua città e quando si recò
alla facoltà di Architettura per farla visionare dal docente che gliela aveva
assegnata, incontrò le sue colleghe e due delle tre amiche con le quali
divideva un appartamento in città, Francesca e Giuliana. Chiese di Adalgisa ma,
quasi contemporaneamente le due le risposero che aveva abbandonato
l’appartamento ed era andata ad abitare altrove, e da allora l’avevano
intravista pochissime volte. Fu una
mattinata splendida, uscì dall’Ateneo in compagnia delle ragazze per recarsi
con loro a pranzo nella solita trattoria frequentata per lo più da studenti. Sedute
a tavola, dopo i primi stuzzichini, Elisabetta ritornò a chiedere di Adalgisa,
ma le due amiche, elusero la domanda e la tempestarono loro su come fosse stato
il periodo passato in paese, da dove avesse attinto le notizie sulla tesi, su
quale fosse la bibliografia, sui testi più astrusi che aveva consultato.
Nessuno le chiese di Alfredo o se avesse nel frattempo un amico particolare.
Tre
mesi dopo fu il giorno della sua laurea. Elisabetta si alzò alle sei del
mattino, indossò l’abito più bello, attese che i suoi genitori fossero pronti e
messisi in macchina parcheggiarono nel piazzale davanti ad Architettura. L’aula
magna della facoltà era semivuota, lei prese tra le mani la sua tesi, diede
ancora una sbirciata alla prefazione, poi la consegnò a suo padre ed aspettò
che arrivassero i suoi colleghi con i quali si salutò cordialmente e dialogò
fino a quando la commissione esaminatrice non aperse la sessione. Lei, seconda
in elenco, attese che un suo collega finisse di illustrare la propria tesi e,
quando la commissione rientrò dopo avere deliberato sul primo esaminando, prese
posto seduta compostamente davanti al grande tavolo. Con scioltezza e padronanza di linguaggio
ringraziò i suoi docenti per quanto le avevano insegnato, ed i suoi genitori
per i sacrifici che avevano fatto, dedicando a loro la sua laurea. Chiuse la
sua illustrazione e attese che qualcuno le ponesse delle domande. Rispose anche
a quelle e con l’assentire degli esaminatori, si alzò in piedi ed attese che il
preside della facoltà la dichiarasse dottore in Architettura col massimo dei
voti e la lode. Quando si girò verso i genitori, in cima all’emiciclo vide
Alfredo che stava per sortire dall’aula. Le sue gambe si bloccarono, il cuore
le diventò aritmico, come in preda ad un capogiro si appoggiò alla poltrona
sulla quale un momento prima era seduta, non lo vedeva e non lo sentiva da nove
mesi, un attimo di smarrimento e poi lo slancio verso sua madre. Francesca e
Giuliana, pure loro avevano visto Alfredo e, parlando tra loro sottovoce,
dissero che Adalgisa non aveva trovato il coraggio per entrare, era rimasta in
macchina.
Elisabetta
con i genitori e le due amiche guadagnarono l’uscita, si recarono in un bar del
centro e brindarono alla laurea. Elisabetta non volle che si facesse una festa,
volle invitare le due amiche a cena a casa sua tre giorni dopo. Dopo le
congratulazioni dei parenti e di qualche vicino di casa, senza cenare, volle
andare a letto, non erano nemmeno le ventidue, fece una doccia e cadde in un
profondo sonno. Il mattino seguente si svegliò alle dieci, ma a fronte del
lungo riposare, i suoi occhi erano coperti da un velo di tristezza.
Francesca
e Giuliana telefonarono nel primo pomeriggio annunciandole una visita, mezzora
dopo erano a casa sua. Dopo i convenevoli con la sua mamma, caricarono
Elisabetta in macchina e si recarono in riva al lago che era a pochi
chilometri. Passeggiando, raccontarono alla ragazza quanto sapevano di Alfredo,
e fu Giuliana a cominciare:
-
Cara amica mia, non abbiamo avuto mai il coraggio
di informarti della relazione tra Alfredo e Adalgisa, anche quando stavamo
tutte e quattro assieme e tu eri legata a lui, forse abbiamo sbagliato. E’
stato il nostro segreto! Tu eri innamoratissima, ed anche lui sembrava esserlo,
ma un giorno abbiamo sorpreso Adalgisa a letto con Alfredo, mentre tu eri a
lezione, ed abbiamo appurato che la storia era già vecchia. Non volevamo darti
un dolore, ma abbiamo costretto Adalgisa ad andare via dalla casa in cui anche
tu abitavi. Abbiamo pregato quell’uomo che ti aveva rubato il senno a non
incontrarti più, a non cercarti più, usando anche qualche piccolo ricatto. Dopo
un po’ ci siamo riuscite, aiutate dal fatto che tu eri andata ad abitare a casa
tua con i genitori. Non è stato facile, abbiamo sofferto nel dubbio che questo
nostro comportamento potesse essere frainteso dall’unica amica sincera che
abbiamo. Abbiamo fatto bene o male, sarai tu a giudicare, a chiederci
eventualmente di allontanarci da te.
Elisabetta, rimasta immobile ad
ascoltare, non battette ciglio, imbambolata guardava l’incresparsi dell’acqua
del lago alla leggera brezza che si faceva strada tra le colline e il suo volto
diventava di cera. Francesca timidamente le prese le mani:
-
Questi due ci hanno rubato la serenità, ma
abbiamo avuto la forza di aspettare che tu affrontassi con serenità l’esame di
laurea, che non ti fermassi, che non sapessi del loro marciume. Ricordi
Elisabetta? Abbiamo festeggiato tutte e quattro quando Alfredo ti ha dichiarato
il suo amore, non abbiamo dormito la notte, abbiamo visto comparire l’alba
parlando di voi poi, appena poche settimane dopo, il primo sospetto e poi la
certezza che Giuliana ti ha già raccontato.
-
Amiche mie, non sentitevi nessuna colpa, io ho
imparato a dimenticarlo, Adalgisa? Le ho voluto bene come ne ho voluto a voi,
oggi non provo neppure sdegno. Ieri, ignara di quanto mi avete detto, quando
alzando lo sguardo in cima all’emiciclo dell’aula magna, vidi Alfredo che aveva
assistito al mio esame, ebbi un piccolo mancamento, nove mesi che non lo
vedevo, che non lo sentivo, ho sperato nel miracolo, poi l’ho visto scomparire,
eclissandosi, ed ebbi voglia di parlargli. Uscita dall’aula lo cercai con gli
occhi, ma niente! Francesca, non mi è crollato il mondo addosso, ho tirato un
lungo sospiro ed ho inghiottito ancora un rospo.
-
C’era pure Adalgisa, è rimasta in macchina ad
aspettare, per fortuna ha trovato il buon senso di non farsi vedere. Amica mia,
è difficile dirlo, ma qualora tu non avessi ancora tolto dalla tua mente
quell’uomo, ti confesso con dolore, che un pomeriggio di poco tempo fa ha
bussato alla porta, l’ho fatto entrare e dopo un caffè mi ha chiesto se ero
disposta ad intraprendere una relazione anomala con lui. Capirai che mi sembrarono
mille anni quei tre minuti che mi servirono per accompagnarlo alla porta in
maniera sgraziata. Poi fu un pianto che non riuscii a contenere per almeno
un’ora.
Elisabetta prese per mano le due amiche,
in silenzio passeggiò con loro in riva al lago per un lungo tratto, poi si
indirizzarono verso l’automobile e prima di salire:
-
Grazie ragazze, non avete nulla di cui
rimproverarvi, abbiamo bisogno tutte e tre di dimenticare, non sarà difficile,
anzi, mi avete aiutato ad elaborare il lutto in pochissimi momenti, queste
persone sono già uscite dalla mia mente, spero che ciò avvenga pure per voi.
Su, andiamo, stasera si festeggia, vi invito in pizzeria, qui in paese non ci
sono ristoratori, solo un paio di bettole. Poi andremo in un pub fuori paese e,
se ne avremo il coraggio, alzeremo un po’ il gomito.
Salirono in macchina le ragazze e andarono
a casa di Elisabetta per prepararsi alla serata.
Elisabetta affrontò gli esami di
abilitazione all’esercizio della professione e cominciò a frequentare uno
studio di architettura per fare praticantato, due anni dopo venne chiamata da
una grande e rinomata società che si occupava di progettazioni e messa in opera
di arredi urbani, la Urbis. Ci volle poco per la ragazza ad arrivare in cima
nella struttura in cui operava, era molto preparata e si aggiornava
continuamente intervenendo in tutti i convegni. Un mattino qualcuno la chiamò e
le affidò la direzione generale della società. Il suo nome girava per tutti gli
studi professionali, per tutte le imprese e in tutti gli uffici pubblici,
trattavano con lei i tecnici, gli amministratori pubblici, gli ordini
professionali. Un giorno arrivò sul suo tavolo una richiesta d’impiego
corredata di curriculum, attaccato al carteggio un foglietto a firma del suo
presidente dove stava scritto e sottolineato: L’architetto è amica di
famiglia!!! Elisabetta prese tra le
mani la carpetta, trasse il curriculum, era quello di Adalgisa, laureata da due
anni, nubile, con un’esperienza di lavoro presso lo studio di Alfredo.
Stranamente sorrise, richiuse la carpetta, vi riattaccò sopra il biglietto e
continuò a lavorare al suo computer. Tre giorni dopo il presidente, in
compagnia del presidente dell’Ordine degli architetti varcò la soglia del suo
ufficio, Elisabetta li fece accomodare e i due le parlarono dell’arredo urbano
di una cittadina della provincia, la ragazza chiese di visionare il progetto e
si impegnò ad esitarlo in due giorni. Prima di accomiatarsi il Presidente della
Urbis le chiese dell’istanza di Adalgisa che giaceva sul suo tavolo, proprio
sotto i suoi occhi, lei riprese tra le mani la carpetta:
-
Presidente, l’ho visionata, intendevo parlarne
con lei.
-
Ci sono difficoltà?
-
Per nulla, visto il suo appunto, volevo chiederle
su come procedere, se verificare realmente la sua predisposizione e
preparazione, o assumerla affidandola allo studio tecnico affinché possa farsi
le ossa, ma se desidera che le affidiamo subito un settore, è presto fatto!
-
No, signorina, il fatto che sia amica di mia
figlia non è un lasciapassare, se vuole verificare lei, mi fa piacere,
altrimenti questo compito lo affideremo proprio all’ufficio tecnico.
-
Come desidera, io le rimando la carpetta, meglio
che siano i tecnici ad occuparsene.
-
Io amo la scrupolosità, la carpetta la porto via
io.
Elisabetta si sentì sollevata, erano
passati tanti anni, aveva quasi dimenticato, ora si interrogava se fosse in
grado di perdonare o no.
Un pomeriggio, all’uscita dall’ufficio,
mentre stava per mettersi in auto, un uomo l’avvicinò, era Alfredo che a testa
bassa la salutò:
-
Ciao Elisabetta.
-
Oh, ciao, che fai da queste parti?
-
Scusami, son qua che aspetto da un’ora, desidero
parlarti.
La
ragazza accostò la portiera dell’auto
-
Dimmi, ti ascolto.
-
Scusami, forse non avrei dovuto, ma le ho fatto
tanto male e vorrei quantomeno non esserle più d’impedimento.
-
Di chi parli?
-
Di Adalgisa, l’ho licenziata dal mio studio dopo
un anno che ci siamo lasciati, non era più possibile che lei rimanesse a
lavorare con me.
-
Ti sei fatto sorprendere con una nuova amante!
-
Proprio così, sono un incorreggibile!
-
E lei?
-
Ha subito, ma sento dentro di me il peso del male
che le ho fatto.
-
Non è stata la prima lei e non sarà l’ultima!
Dimmi cosa posso fare per te.
-
Per me nulla, so che Adalgisa ha chiesto un
impiego alla Urbis, tu puoi decidere se darle un lavoro o lasciarla in balia di
uno studio professionale che la sfrutterebbe sottopagandola. Lei non sa che sei
tu a decidere del suo destino, forse se l’avesse saputo non avrebbe neppure presentato
il suo curriculum. Sono stato tremendo con lei, ho carpito la sua buona fede,
l’ho fatta innamorare, sono la causa dell’enorme ritardo dei suoi studi, le ho
fatto intravedere una vita insieme e poi…
-
L’hai tradita per la prima gonnella che ti è
passata davanti. Alfredo, io ho dimenticato il male che mi avete fatto, ho
dimenticato il tradimento di Adalgisa, non so portare rancore. Per evitare di
poter pesare sulle decisioni dell’Urbis ho rimandato la pratica al presidente.
Sarà accettata? Non so dirtelo, sarà l’ufficio tecnico a decidere se assumerla
o no.
-
Non so se posso meritare per un solo attimo la
tua fiducia, ma ti garantisco che Adalgisa è tecnicamente all’altezza del
compito che l’Urbis potrà affidarle.
Elisabetta corrugò per un attimo la fronte,
poi porse la mano ad Alfredo:
-
Ciao Alfredo, analizzerò questo barlume di
rimorso che ti porti dietro, ciao.
Riaprì lo sportello della macchina, mise
in moto ed andò via.
Per tutta la serata ripensò al discorso
avuto con Alfredo, quell’incontro non le aveva dato nessuna emozione, lungi da
lei il sentimento della vendetta, non c’era collera in lei, non aveva provato
imbarazzo, solo commiserazione per la meschinità. Il rimorso? Certo, non doveva
essere bello conviverci! Dopo cena uscì di casa, andò sul lungomare e passeggiò
da sola guardando soffermandosi ogni tanto a mirare la risacca sotto la luce
dei lampioni. Piccoli gozzi, legati a sottili sagole, si dondolavano sulle onde
come guidati da un coreografo che ne seguiva compiaciuto i movimenti. Il mattino
seguente si recò al lavoro, nel parcheggio trovò il presidente che prelevava la
sua borsa dall’auto, lo salutò ed assieme entrarono al bar dove presero un
caffè, appena usciti:
-
Presidente, ho fatto mente locale su quella
pratica di assunzione, è preferibile che non le dia disturbo, salendo la
esamino io, stamattina ho un po’ meno carico di lavoro, sempre che lei
gradisca.
-
Ma certo signorina, sono contento che la esamini
lei, se ha bisogno di incontrare l’architetto la facciamo chiamare per un
colloquio. Salendo trova la pratica sul mio tavolo, io mi attardo un po’
nell’androne ad attendere il presidente dell’Ordine degli architetti, fra
un’oretta la faro chiamare per i progetti che lei vuole visionare.
Salì in
ascensore, entrò nello studio del presidente, prelevò la carpetta e sedette al
suo tavolo. Si impose un segreto, non avrebbe mai rivelato ad Adalgisa il
rimorso di Alfredo ed il loro incontro, non sapremo mai se il suo segreto
serviva a punire ambedue o se fosse solo un atto di pietà nei confronti dell’ex
amica, poi scrisse sulla facciata della carpetta “Si assume per area tecnica”,
ci pose sotto la sua firma, si recò all’ufficio del personale e chiese che
immediatamente si desse corso all’assunzione. Ripresa la sua borsa, discese le
scale, e si recò nel grande bar di fronte all’Urbis, dopo un bicchiere d’acqua
bevve ancora un caffè e chiese una scatola di cioccolatini, una confezione
enorme, pagò alla cassa e ritornò al suo lavoro. Ogni volta che scartò un
cioccolatino si impose di non leggere il messaggio che conteneva, riservandosi
di leggerli tutti assieme dopo avere scartato l’ultimo. Per un errore di
confezionamento, in quella scatola erano finiti trentasei messaggi uguali:
“L’amore è uno scrigno che contiene piccoli e grandi segreti”.
Vi è piaciuta? ............... Lasciate un messaggio.
Non vi è piaciuta?.......... Lasciate un messaggio.
Grazie!
Nessun commento:
Posta un commento