Dai Racconti del Borgo
Mario Scamardo
Il salotto dei "randagi"
Luisa, quarant’anni suonati portati benissimo, qualche
relazione sentimentale nel periodo universitario poi, single per scelta. Il suo
lavoro, dalle otto del mattino alle quattordici, dal lunedì al venerdì lo
svolgeva presso un’azienda municipalizzata della sua città. Non ci incontravamo
da mesi, la vidi davanti all’ufficio aprire la sua borsa, tirare fuori una di
quelle sigarette secche secche che sembrano mozziconi di cannuccia da succo di
frutta, accenderla, tirare una lunga boccata ed espirare il fumo che
attraversava i suoi capelli color castano. Mi avvicinai e lei fu cordialissima
come al solito, ma sembrava che il suo viso fosse coperto da un velo grigio,
non c’era la solita luce negli occhi e, forse, si notava la perdita di qualche
chilo. La conoscevo da quando io ero un ragazzo e lei era attaccata al seno di
sua madre.
-
Ciao
Luisa, è un po’ di tempo che non ci vediamo, come stai?
-
Bene,
grazie, e tu cosa fai da queste parti?
-
E’
un caso che mi trovo qui, all’angolo di fronte ho comprato una lampada da
tavolo con luce bianca. Se ti va, attraversiamo l’incrocio e pigliamo un aperitivo
o, ti invito a pranzo, dietro al bar c’è un ristorantino poco male.
La ragazza si attaccò al braccio:
-
Oggi
non pranzi a casa?
-
Ora
telefono che non rientro, ti vedo molto tirata in viso, ho notato un velo di tristezza,
se vuoi ne possiamo parlare.
Luisa abbozzò un sorriso forzato, poi:
-
Ma
si, andiamo direttamente a pranzo.
Sedemmo ad un tavolo ed ordinammo un antipasto ed un secondo.
Bella donna Luisa, delle forme perfette, due occhi grandi e luminosi, nel pieno
della sua bellezza, traboccante di fascino. La guardavo, carezzandola con gli
occhi, e più la guardavo, più quell’alone di tristezza si coglieva.
-
Che
ti succede Luisa, cosa ti affligge, ti va di parlarne?
La donna abbassò per un attimo gli occhi, poi:
-
Vienimi
a trovare a casa, difficile che nei pomeriggi non ci sia, non amo tanto uscire,
e non mi piace neppure guidare in città, ma tu chiamami prima, il mio numero di
telefono ce l’hai, ne parleremo seduti davanti ad un caffè.
-
Uno
solo? Me ne hai dati tre di numeri, quattro con quello del fisso, mi chiedo
sempre come fai a gestire quattro telefoni.
Sorrise Luisa.
-
Non preferisco andare in giro, ma ho tanti
contatti, ricevo a casa amici, non sono un animale solitario.
Consumammo il pranzo, e dopo un caffè preso al bar all’angolo
ci separammo con l’impegno di rivederci.
Non fu un
pomeriggio sereno, il rimandare il discorso sul suo velo di tristezza mi fece
pensare, mi diede anche un pizzico di inquietudine, cosa le era successo? Luisa
la conoscevo sin da ragazzina, la sua famiglia abitava a tre isolati dalla mia,
era una ragazza aperta al dialogo, ed una intelligente osservatrice con grande
capacità d’ascolto. Due giorni dopo mi chiamò e mi invitò nel pomeriggio a casa
sua. Quando entrai sentii un forte aroma di caffè e i posaceneri del suo
salotto erano colmi di mozziconi. Luisa fumava quelle sigarettine sottili, ed
anche molte, ma i mozziconi erano di tutte le marche.
-
Accomodati,
apro una finestra, in tre si sono fumati un tabacchino. Ho avuto ospiti due
amici ed una amica, in due ore ho fatto tre volte il caffè, fiumi in piena che
mi hanno raccontato le loro storie. Vuoi tu un caffè?
-
Grazie,
lo piglio volentieri.
Scartò una cialda la ragazza, la pose nella macchinetta,
aspettò che finisse di uscire il caffè e poggiò la tazza sul tavolinetto
assieme allo zucchero, poi sedette sulla poltrona accanto, i telefonini
squillarono a turno tutti e lei rispose alle chiamate, poi per non sembrare
scortese spense i tre cellulari.
-
Scusami,
è sempre così. Mi hai chiesto perché sono triste, lo sono da un po’. Questo mio
essere disponibile all’ascolto degli altri, da un po’ di tempo ha fatto parlare
alcune persone facendomi mettere in cattiva luce. Mi si appioppano amanti di
ambo i sessi e casa mia è stata definita un luogo dove si può incontrare l’amico
o l’amante in maniera furtiva ma compiacente da parte mia, insomma sarei
diventata una ruffiana, un paraninfo. Tutto ciò mi ha fatto tanto male, e
siccome non c’è nulla di più falso, io continuo a ricevere a casa mia chiunque voglia
farsi ascoltare. Non ci vediamo da un po’ di tempo e in cuor mio ho pensato che
tu, essendo convinto di quanto circola in giro sul mio conto, ti fossi
allontanato. L’altro giorno incontrandoci ho capito di essermi sbagliata.
La guardavo fissa, vedevo ondeggiare
le sue chiome, muovere le sue mani e le sue labbra. Con naturalezza svuotava il
sacco, era lei che aveva bisogno di essere ascoltata. Accese una sigaretta,
reclinò la testa sullo schienale e fissò la volta di quel salotto dove
campeggiavano affrescati due amorini tra le siepi di alloro. Chiuse gli occhi
per un attimo come a voler cercare nei suoi ricordi il prosieguo del suo
narrare. C’era qualcosa che Luisa ancora non aveva detto, forse non trovava le
parole per esporre, forse la paura di essere giudicata, forse un rimorso che le
attanagliava l’anima. Rialzò il capo, inarcò le labbra accennando ad un
sorriso, spense il mozzicone e si alzò.
-
Vado
a prendere una bottiglia di cognac e porto due bicchieri.
Andò in cucina la ragazza, forse il cognac l’avrebbe aiutata
a liberarsi di quanto aveva dentro, poi tornò con due bicchieri, versò il
cognac, ne diede uno a me, poi sedette e bevve il suo d’un fiato come dentro ad
un saloon dell’antico far west.
-
C’è
una cosa che devo dirti, ma non giudicarmi, io non mi sono perdonata.
-
Parlane,
se ti va, con serenità. Nessuno ti può giudicare, nessuno ne ha il diritto. Io
ti ascolterò e, ove occorra, ti darò una mano.
-
Amico
mio, non è facile parlarne, ma ti stimo tanto, quindi, parlerò, nella speranza
che serva a farmi elaborare il lutto. Vedi il mio salotto ospita ogni
pomeriggio tanta gente, raccolgo le confessioni di trasgressori, di traditi, di
delusi in amore, uomini e donne, tanta gente non è riuscita a risolvere i
propri problemi, non ha avuto il coraggio di affrontare gli eventi, ne parla
con libertà, sapendo della mia estrema discrezione e trova sollievo. Sai,
vengono come quei bastardini che cercano un padrone ed io non so dire di no,
sembra che io raccolga tutti i randagi e per ognuno preparo una ciotola diversa
ma che li solleva dalla fame di attenzioni. Sei mesi addietro conobbi un uomo,
molto distinto che si accompagnò ad un’amica e fu mio ospite. Parlando lessi
nei suoi occhi un filo di tristezza, fu discreto, per nulla invasivo, senza un
dialogo a casa sua dove non regnava il calore umano, trovò a casa mia chi lo
ascoltava, chi divideva con lui un caffè e col caffè idee e pensieri. Un giorno
telefonò e mi venne a trovare con in mano un mazzetto di ranuncoli variopinti,
sedette e, come stai facendo tu, mi accarezzò con gli occhi, la sera cenammo
assieme in un ristorantino in riva al mare, passeggiammo sull’arenile ed io
presi la sua mano, lui mi cinse e mi baciò lungamente. Quaranta giorni dopo
ebbi la certezza di essere in dolce attesa e fui felice. Quell’uomo aveva una
sua famiglia, fredda, carente di attenzioni, era succube di una moglie che lo
aveva ridotto ad uno straccio, si proprio ad un randagio, ma io non ebbi il
coraggio di dire di essere incinta. Ne parlai ampiamente con l’amica più fidata
e caddi nell’errore di ascoltarla e di pigliare per oro colato i suoi consigli.
Forse non ero preparata a tanto, non ci avevo neppure pensato, ed un pomeriggio
una mammana mi liberò della creatura che portavo in grembo. Sulle prime pensai
di avere fatto bene, avrei evitato di caricare quell’uomo di ulteriori gravami,
poi subentrò il rimorso, che mi rode ancora dentro, un rimorso che nessuno dei
miei randagi può aiutarmi a strappare dalla mia coscienza. Il mio umore cambiò, non riuscii ad essere tenera, non seppi più ascoltare e in un momento d’ira gli
addossai la colpa dei miei disagi. Giusto? Sbagliato? Non so dirtelo ma odiai
quell’uomo e lo misi alla porta, da quel giorno non lo vidi più. La presenza di
tanta gente a casa mia mi svia, mi aiuta a non pensare, ma ho una gran voglia
di dimenticare, ora son diventata anch’io randagia col bisogno di essere
ascoltata.
Non si fermò un attimo nel suo narrare e quel cognac l’aveva
forse aiutata a non fermarsi a tirare tutto fuori. Ebbi un attimo di
smarrimento, la guardai tutto il tempo quasi estasiato, ed anch’io l’avevo
accarezzata con gli occhi. Riempì ancora
i due bicchieri e porgendomene uno:
-
Forse
non ho dimenticato nulla, ma ti prego non giudicarmi, aiutami ad uscire dal
tunnel del rimorso.
Bevvi d’un fiato, poi tirai dal taschino la mia pochette e
gliela diedi:
-
Asciuga
i tuoi occhi, il pianto aiuta qualche volta, ma non risolve alcun problema. Non
ti giudicherei mai, ma devo trovare la forza ed il tempo per aiutarti a
scaricare l’enorme fardello. Luisa, permettimi di metterti al guinzaglio e di
portarti fuori da qui. Anch’io ho una famiglia, ma piena di calore e di
buonsenso, saprò spiegare.
-
Cosa
vuoi che faccia.
-
Pigliati
un po’ di giorni di ferie, usciamo dal tuo salotto, rechiamoci in un posto dove
proverai a dimenticare o, quantomeno, a trovare una ragione per quanto ti è
accaduto. Se ti fidi di me, sarò la tua ombra fino a quando non vedrò cadere il
velo di tristezza che ti copre il volto, poi, in punta di piedi, mi allontanerò
e tu potrai ritornare a dar conforto a quanti te lo chiederanno. Luisa, so che
sei generosa, so che ti preoccupi per gli indigenti, che aiuti alcune famiglie
nel bisogno, si dice questo di te, e so che non hai risparmi perché doni
incondizionatamente agli altri. Penserò a tutto io, quando sarai pronta mi
avvertirai, verrò a prelevarti e andremo in giro per dimenticare.
Luisa si alzò, girò dietro la
poltrona, mi cinse e mi baciò sulla fronte. Mi alzai e mi avviai all’uscio,
aprii la porta ed imboccai le scale.
Furono
tre giorni tristi, provai a ripensare alla sua confessione, analizzai parola
per parola. Quella donna, col salotto sempre pieno di gente era sola, sola con
se stessa, con i suoi rimpianti, con i suoi rimorsi, e quello che non aveva
capito era l’estrema solitudine in cui era immersa. La solitudine, una gran
brutta malattia, che fa male, che consuma senza che ce ne si accorga. Una
solitudine che porta alla malinconia, malattia ancora peggiore! Luisa, ancorata
al suo salotto, non aveva più fantasia, non cavalcava più sogni! Non c’è uomo
che non abbia un sogno, i cani randagi glieli avevano portati via, l’avevano
sbranata, era rimasta un vegetale che sopravviveva alla sua testardaggine di
voler donare ad ogni costo una pace a chi non l’aveva, una serenità, una
rassegnazione. Nobile scopo, ma che l’aveva consumata! Non la chiamai,
pazientemente aspettai, finalmente mi disse che era pronta, aveva preso due
settimane di ferie. I tre giorni di solitudine non le fecero trovare una
soluzione, se ne avesse avuto la forza avrebbe trovato una scusa per non
impegnarmi, ma non la trovò, ciò mi diede la netta sensazione che era in balia
degli altri. Quando salì in macchina sorrise, e mentre sistemavo il suo borsone
nel cofano lei prese i suoi cellulari dalla borsa, li spense e li depose nel
bauletto portaoggetti.
-
I
telefoni non mi servono. Dove andiamo?
-
Ti
piace il mare o la montagna? Una città d’arte o qualcos’altro?
-
Fai
tu, ma preferisco il mare se piace pure a te.
-
Luisa,
anch’io preferisco il mare, anche se è primavera.
-
Portami
dove c’è tanta battigia da calpestare e dove c’è tanta gente.
Lunghe passeggiate sull’arenile, ristorantini sul lungomare,
piazze affollate, locali con musica, qualche escursione e poche parole, furono
una buona medicina per Luisa che ritrovò un po’ di ilarità. Una mattina mentre
facevamo colazione in un bar davanti alla cattedrale, Luisa mi chiese se potevo
aspettarla, il tempo giusto di entrare in chiesa. Comprai il quotidiano e,
seduto ad un tavolo, lo sfogliai, mi servì per ingannare il tempo, ma lessi una
decina di articoli, guardai l’orologio erano passate quasi due ore, finalmente la
ragazza uscì sul sagrato in compagnia di un sacerdote, mi fece un cenno con la
mano e li raggiunsi, lei si scusò del ritardo, mi presentò l’anziano sacerdote,
quindi lo salutò ringraziandolo ed insieme raggiungemmo l’arenile. Non una
parola, non un accenno, si tolse le scarpe e si mise a correre sulla battigia.
Seduto su un muretto l’aspettai, mi abbracciò e con gli occhi sorridenti mi
disse:
-
Grazie,
senza di te mi sarei persa in una giungla senza uscita. Andiamo, voglio
ritornare a casa.
Mi prese per mano ed andammo a ritirare i nostri borsoni in
albergo. L’aspettai alla ricezione, la sua camera era al piano superiore, ma
quando la vidi era diversa, truccatissima, in pantaloni aderenti ed una
maglietta rossa. Mi prese per mano ed andammo verso la macchina. Alla prima
rivendita di telefonini mi fece fermare, tirò un documento dalla borsetta ed il
codice fiscale, richiese una nuova scheda telefonica ed uscì. Appena in
macchina tirò fuori dal bauletto i tre telefonini, tirò fuori le schede e le
piegò rendendole inservibili, scelse uno dei tre, vi inserì la nuova scheda e
lanciò in mare gli altri due.
-
Dammi
il tuo numero di telefono, e segnati il mio, il passato l’ho spezzato, ere in
quelle vecchie schede, cambierò la tappezzeria al mio salotto e lo disporrò
diversamente. Tu pensi che sia un bene?
Quella domanda mi ammutolì per un attimo, io non avevo nessun
diritto di scegliere per lei, né di dare giudizi e tantomeno consigli, ma
dovetti rispondere:
-
Luisa,
credo tu non sia più un randagio, ora sai cos’è giusto e cos’è errato, sei
ritornata padrona di te stessa, delle tue emozioni, delle tue scelte. Io sono
stato solo un mezzo, ed ancora lotto con la mia mente confusa.
Il macigno che aveva in corpo l’aveva scaricato in quel
dialogo col prete, aveva sciolto tutti i collari, aveva buttato tutti i
guinzagli, anche il suo, ritornando la Luisa di sempre.
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Grazie!
Complimenti! Bel racconto!
RispondiEliminaUna delle tante verità raccontate con maestria. Complimenti!!!
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