giovedì 27 febbraio 2014

IL SALOTTO DEI "RANDAGI" - Racconto breve - (27/febbraio/2014)




Dai Racconti del Borgo

Mario Scamardo


Il salotto dei "randagi"





Luisa, quarant’anni suonati portati benissimo, qualche relazione sentimentale nel periodo universitario poi, single per scelta. Il suo lavoro, dalle otto del mattino alle quattordici, dal lunedì al venerdì lo svolgeva presso un’azienda municipalizzata della sua città. Non ci incontravamo da mesi, la vidi davanti all’ufficio aprire la sua borsa, tirare fuori una di quelle sigarette secche secche che sembrano mozziconi di cannuccia da succo di frutta, accenderla, tirare una lunga boccata ed espirare il fumo che attraversava i suoi capelli color castano. Mi avvicinai e lei fu cordialissima come al solito, ma sembrava che il suo viso fosse coperto da un velo grigio, non c’era la solita luce negli occhi e, forse, si notava la perdita di qualche chilo. La conoscevo da quando io ero un ragazzo e lei era attaccata al seno di sua madre.
-         Ciao Luisa, è un po’ di tempo che non ci vediamo, come stai?
-         Bene, grazie, e tu cosa fai da queste parti?
-         E’ un caso che mi trovo qui, all’angolo di fronte ho comprato una lampada da tavolo con luce bianca. Se ti va, attraversiamo l’incrocio e pigliamo un aperitivo o, ti invito a pranzo, dietro al bar c’è un ristorantino poco male.
La ragazza si attaccò al braccio:
-         Oggi non pranzi a casa?
-         Ora telefono che non rientro, ti vedo molto tirata in viso, ho notato un velo di tristezza, se vuoi ne possiamo parlare.
Luisa abbozzò un sorriso forzato, poi:
-         Ma si, andiamo direttamente a pranzo.
Sedemmo ad un tavolo ed ordinammo un antipasto ed un secondo. Bella donna Luisa, delle forme perfette, due occhi grandi e luminosi, nel pieno della sua bellezza, traboccante di fascino. La guardavo, carezzandola con gli occhi, e più la guardavo, più quell’alone di tristezza si coglieva.
-         Che ti succede Luisa, cosa ti affligge, ti va di parlarne?
La donna abbassò per un attimo gli occhi, poi:
-         Vienimi a trovare a casa, difficile che nei pomeriggi non ci sia, non amo tanto uscire, e non mi piace neppure guidare in città, ma tu chiamami prima, il mio numero di telefono ce l’hai, ne parleremo seduti davanti ad un caffè.
-         Uno solo? Me ne hai dati tre di numeri, quattro con quello del fisso, mi chiedo sempre come fai a gestire quattro telefoni.
Sorrise Luisa.
-          Non preferisco andare in giro, ma ho tanti contatti, ricevo a casa amici, non sono un animale solitario.
Consumammo il pranzo, e dopo un caffè preso al bar all’angolo ci separammo con l’impegno di rivederci.
            Non fu un pomeriggio sereno, il rimandare il discorso sul suo velo di tristezza mi fece pensare, mi diede anche un pizzico di inquietudine, cosa le era successo? Luisa la conoscevo sin da ragazzina, la sua famiglia abitava a tre isolati dalla mia, era una ragazza aperta al dialogo, ed una intelligente osservatrice con grande capacità d’ascolto. Due giorni dopo mi chiamò e mi invitò nel pomeriggio a casa sua. Quando entrai sentii un forte aroma di caffè e i posaceneri del suo salotto erano colmi di mozziconi. Luisa fumava quelle sigarettine sottili, ed anche molte, ma i mozziconi erano di tutte le marche.
-         Accomodati, apro una finestra, in tre si sono fumati un tabacchino. Ho avuto ospiti due amici ed una amica, in due ore ho fatto tre volte il caffè, fiumi in piena che mi hanno raccontato le loro storie. Vuoi tu un caffè?
-         Grazie, lo piglio volentieri.
Scartò una cialda la ragazza, la pose nella macchinetta, aspettò che finisse di uscire il caffè e poggiò la tazza sul tavolinetto assieme allo zucchero, poi sedette sulla poltrona accanto, i telefonini squillarono a turno tutti e lei rispose alle chiamate, poi per non sembrare scortese spense i tre cellulari.
-         Scusami, è sempre così. Mi hai chiesto perché sono triste, lo sono da un po’. Questo mio essere disponibile all’ascolto degli altri, da un po’ di tempo ha fatto parlare alcune persone facendomi mettere in cattiva luce. Mi si appioppano amanti di ambo i sessi e casa mia è stata definita un luogo dove si può incontrare l’amico o l’amante in maniera furtiva ma compiacente da parte mia, insomma sarei diventata una ruffiana, un paraninfo. Tutto ciò mi ha fatto tanto male, e siccome non c’è nulla di più falso, io continuo a ricevere a casa mia chiunque voglia farsi ascoltare. Non ci vediamo da un po’ di tempo e in cuor mio ho pensato che tu, essendo convinto di quanto circola in giro sul mio conto, ti fossi allontanato. L’altro giorno incontrandoci ho capito di essermi sbagliata.
La guardavo fissa, vedevo ondeggiare le sue chiome, muovere le sue mani e le sue labbra. Con naturalezza svuotava il sacco, era lei che aveva bisogno di essere ascoltata. Accese una sigaretta, reclinò la testa sullo schienale e fissò la volta di quel salotto dove campeggiavano affrescati due amorini tra le siepi di alloro. Chiuse gli occhi per un attimo come a voler cercare nei suoi ricordi il prosieguo del suo narrare. C’era qualcosa che Luisa ancora non aveva detto, forse non trovava le parole per esporre, forse la paura di essere giudicata, forse un rimorso che le attanagliava l’anima. Rialzò il capo, inarcò le labbra accennando ad un sorriso, spense il mozzicone e si alzò.




-         Vado a prendere una bottiglia di cognac e porto due bicchieri.
Andò in cucina la ragazza, forse il cognac l’avrebbe aiutata a liberarsi di quanto aveva dentro, poi tornò con due bicchieri, versò il cognac, ne diede uno a me, poi sedette e bevve il suo d’un fiato come dentro ad un saloon dell’antico far west.
-         C’è una cosa che devo dirti, ma non giudicarmi, io non mi sono perdonata.
-         Parlane, se ti va, con serenità. Nessuno ti può giudicare, nessuno ne ha il diritto. Io ti ascolterò e, ove occorra, ti darò una mano.
-         Amico mio, non è facile parlarne, ma ti stimo tanto, quindi, parlerò, nella speranza che serva a farmi elaborare il lutto. Vedi il mio salotto ospita ogni pomeriggio tanta gente, raccolgo le confessioni di trasgressori, di traditi, di delusi in amore, uomini e donne, tanta gente non è riuscita a risolvere i propri problemi, non ha avuto il coraggio di affrontare gli eventi, ne parla con libertà, sapendo della mia estrema discrezione e trova sollievo. Sai, vengono come quei bastardini che cercano un padrone ed io non so dire di no, sembra che io raccolga tutti i randagi e per ognuno preparo una ciotola diversa ma che li solleva dalla fame di attenzioni. Sei mesi addietro conobbi un uomo, molto distinto che si accompagnò ad un’amica e fu mio ospite. Parlando lessi nei suoi occhi un filo di tristezza, fu discreto, per nulla invasivo, senza un dialogo a casa sua dove non regnava il calore umano, trovò a casa mia chi lo ascoltava, chi divideva con lui un caffè e col caffè idee e pensieri. Un giorno telefonò e mi venne a trovare con in mano un mazzetto di ranuncoli variopinti, sedette e, come stai facendo tu, mi accarezzò con gli occhi, la sera cenammo assieme in un ristorantino in riva al mare, passeggiammo sull’arenile ed io presi la sua mano, lui mi cinse e mi baciò lungamente. Quaranta giorni dopo ebbi la certezza di essere in dolce attesa e fui felice. Quell’uomo aveva una sua famiglia, fredda, carente di attenzioni, era succube di una moglie che lo aveva ridotto ad uno straccio, si proprio ad un randagio, ma io non ebbi il coraggio di dire di essere incinta. Ne parlai ampiamente con l’amica più fidata e caddi nell’errore di ascoltarla e di pigliare per oro colato i suoi consigli. Forse non ero preparata a tanto, non ci avevo neppure pensato, ed un pomeriggio una mammana mi liberò della creatura che portavo in grembo. Sulle prime pensai di avere fatto bene, avrei evitato di caricare quell’uomo di ulteriori gravami, poi subentrò il rimorso, che mi rode ancora dentro, un rimorso che nessuno dei miei randagi può aiutarmi a strappare dalla mia coscienza. Il mio umore cambiò, non riuscii ad essere tenera, non seppi più ascoltare e in un momento d’ira gli addossai la colpa dei miei disagi. Giusto? Sbagliato? Non so dirtelo ma odiai quell’uomo e lo misi alla porta, da quel giorno non lo vidi più. La presenza di tanta gente a casa mia mi svia, mi aiuta a non pensare, ma ho una gran voglia di dimenticare, ora son diventata anch’io randagia col bisogno di essere ascoltata.
Non si fermò un attimo nel suo narrare e quel cognac l’aveva forse aiutata a non fermarsi a tirare tutto fuori. Ebbi un attimo di smarrimento, la guardai tutto il tempo quasi estasiato, ed anch’io l’avevo accarezzata con gli occhi.  Riempì ancora i due bicchieri e porgendomene uno:
-         Forse non ho dimenticato nulla, ma ti prego non giudicarmi, aiutami ad uscire dal tunnel del rimorso.
Bevvi d’un fiato, poi tirai dal taschino la mia pochette e gliela diedi:
-         Asciuga i tuoi occhi, il pianto aiuta qualche volta, ma non risolve alcun problema. Non ti giudicherei mai, ma devo trovare la forza ed il tempo per aiutarti a scaricare l’enorme fardello. Luisa, permettimi di metterti al guinzaglio e di portarti fuori da qui. Anch’io ho una famiglia, ma piena di calore e di buonsenso, saprò spiegare.
-         Cosa vuoi che faccia.
-         Pigliati un po’ di giorni di ferie, usciamo dal tuo salotto, rechiamoci in un posto dove proverai a dimenticare o, quantomeno, a trovare una ragione per quanto ti è accaduto. Se ti fidi di me, sarò la tua ombra fino a quando non vedrò cadere il velo di tristezza che ti copre il volto, poi, in punta di piedi, mi allontanerò e tu potrai ritornare a dar conforto a quanti te lo chiederanno. Luisa, so che sei generosa, so che ti preoccupi per gli indigenti, che aiuti alcune famiglie nel bisogno, si dice questo di te, e so che non hai risparmi perché doni incondizionatamente agli altri. Penserò a tutto io, quando sarai pronta mi avvertirai, verrò a prelevarti e andremo in giro per dimenticare.
Luisa si alzò, girò dietro la poltrona, mi cinse e mi baciò sulla fronte. Mi alzai e mi avviai all’uscio, aprii la porta ed imboccai le scale.
            Furono tre giorni tristi, provai a ripensare alla sua confessione, analizzai parola per parola. Quella donna, col salotto sempre pieno di gente era sola, sola con se stessa, con i suoi rimpianti, con i suoi rimorsi, e quello che non aveva capito era l’estrema solitudine in cui era immersa. La solitudine, una gran brutta malattia, che fa male, che consuma senza che ce ne si accorga. Una solitudine che porta alla malinconia, malattia ancora peggiore! Luisa, ancorata al suo salotto, non aveva più fantasia, non cavalcava più sogni! Non c’è uomo che non abbia un sogno, i cani randagi glieli avevano portati via, l’avevano sbranata, era rimasta un vegetale che sopravviveva alla sua testardaggine di voler donare ad ogni costo una pace a chi non l’aveva, una serenità, una rassegnazione. Nobile scopo, ma che l’aveva consumata! Non la chiamai, pazientemente aspettai, finalmente mi disse che era pronta, aveva preso due settimane di ferie. I tre giorni di solitudine non le fecero trovare una soluzione, se ne avesse avuto la forza avrebbe trovato una scusa per non impegnarmi, ma non la trovò, ciò mi diede la netta sensazione che era in balia degli altri. Quando salì in macchina sorrise, e mentre sistemavo il suo borsone nel cofano lei prese i suoi cellulari dalla borsa, li spense e li depose nel bauletto portaoggetti.
-         I telefoni non mi servono. Dove andiamo?
-         Ti piace il mare o la montagna? Una città d’arte o qualcos’altro?
-         Fai tu, ma preferisco il mare se piace pure a te.
-         Luisa, anch’io preferisco il mare, anche se è primavera.
-         Portami dove c’è tanta battigia da calpestare e dove c’è tanta gente.
Lunghe passeggiate sull’arenile, ristorantini sul lungomare, piazze affollate, locali con musica, qualche escursione e poche parole, furono una buona medicina per Luisa che ritrovò un po’ di ilarità. Una mattina mentre facevamo colazione in un bar davanti alla cattedrale, Luisa mi chiese se potevo aspettarla, il tempo giusto di entrare in chiesa. Comprai il quotidiano e, seduto ad un tavolo, lo sfogliai, mi servì per ingannare il tempo, ma lessi una decina di articoli, guardai l’orologio erano passate quasi due ore, finalmente la ragazza uscì sul sagrato in compagnia di un sacerdote, mi fece un cenno con la mano e li raggiunsi, lei si scusò del ritardo, mi presentò l’anziano sacerdote, quindi lo salutò ringraziandolo ed insieme raggiungemmo l’arenile. Non una parola, non un accenno, si tolse le scarpe e si mise a correre sulla battigia. Seduto su un muretto l’aspettai, mi abbracciò e con gli occhi sorridenti mi disse:
-         Grazie, senza di te mi sarei persa in una giungla senza uscita. Andiamo, voglio ritornare a casa.
Mi prese per mano ed andammo a ritirare i nostri borsoni in albergo. L’aspettai alla ricezione, la sua camera era al piano superiore, ma quando la vidi era diversa, truccatissima, in pantaloni aderenti ed una maglietta rossa. Mi prese per mano ed andammo verso la macchina. Alla prima rivendita di telefonini mi fece fermare, tirò un documento dalla borsetta ed il codice fiscale, richiese una nuova scheda telefonica ed uscì. Appena in macchina tirò fuori dal bauletto i tre telefonini, tirò fuori le schede e le piegò rendendole inservibili, scelse uno dei tre, vi inserì la nuova scheda e lanciò in mare gli altri due.
-         Dammi il tuo numero di telefono, e segnati il mio, il passato l’ho spezzato, ere in quelle vecchie schede, cambierò la tappezzeria al mio salotto e lo disporrò diversamente. Tu pensi che sia un bene?
Quella domanda mi ammutolì per un attimo, io non avevo nessun diritto di scegliere per lei, né di dare giudizi e tantomeno consigli, ma dovetti rispondere:
-         Luisa, credo tu non sia più un randagio, ora sai cos’è giusto e cos’è errato, sei ritornata padrona di te stessa, delle tue emozioni, delle tue scelte. Io sono stato solo un mezzo, ed ancora lotto con la mia mente confusa.
Il macigno che aveva in corpo l’aveva scaricato in quel dialogo col prete, aveva sciolto tutti i collari, aveva buttato tutti i guinzagli, anche il suo, ritornando la Luisa di sempre.









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